Sebbene la guerra sia sempre stata considerata un’attività maschile, la storia ci ha fornito molti esempi di come le donne, erroneamente ritenute deboli, hanno mostrato coraggio e abilità nel combattimento. Un vivido esempio di ciò è la storia della Grande Guerra Patriottica. Infermiere, dottoresse, piloti di aerei, cecchini, artiglieri, partigiane, con il loro valore contribuirono alla vittoria. Tra queste donne, alcune per essere ammesse a combattere, dovevano nascondersi dietro identità maschili. Esempio di questa necessità fu il leggendario pilota di un carro armato T-34, Aleksandr Rashupkin, soprannominato «Sasha». I suoi compagni, per tre anni credettero fosse un uomo.
Il 12 febbraio 1945, le truppe sovietiche che avevano fatto irruzione nella città di Bunzlau in Polonia, incontrarono una feroce resistenza da parte della Wehrmacht e delle unità delle SS. I combattimenti si svolgevano in ogni strada. Verso sera, un carro armato T-34 fu colpito e gravemente danneggiato da un carro armato tedesco Tiger. Il pilota del carro armato sovietico era un esperto carrista, Aleksandr Rashupkin, il quale con difficoltà riuscì ad uscire dalla ferraglia del suo mezzo corazzato e si sdraiò stremato a terra: un frammento del proiettile aveva colpito la sua coscia ed il sangue usciva copiosamente. Un suo compagno, membro dell’equipaggio dello stesso carro armato, lo soccorse, gli tolse i pantaloni e le mutande per fasciare la coscia ferita, ma rimase sbalordito. Il proprio compagno di equipaggio, con il quale aveva condiviso tre anni di dure battaglie contro i tedeschi, improvvisamente si rivelò essere una donna.
Si trattava di Aleksandra Mitrofanovna Rashupkina, nata il 1 maggio 1914 in Uzbekistan. La sua infanzia trascorse tranquillamente, si diplomò ed iniziò a lavorare come autista di trattori. Poco dopo si sposò ed ebbe due figli. Purtroppo la sua felicità terminò qui! Entrambi i bambini morirono in tenera età, iniziò la guerra e suo marito fu arruolato nell’esercito. In quel periodo Aleksandra aveva 27 anni. Decise che non aveva più nulla da perdere e si presentò all’ufficio arruolamento chiedendo di essere inviata a combattere per sconfiggere il nemico. Riferì che era in grado di guidare un carro armato e di far fronte alla sua manutenzione. Disse che i suoi figli erano morti quando erano ancora dei bambini piccoli e suo marito era stato inviato al fronte e per questo non aveva alcuno ostacolo a fornire il proprio contributo. All’ufficio arruolamento la derisero e le dissero: «Vai a casa a cucinare la zuppa di fagioli«.
Tuttavia Aleksandra Rashupkina non si scoraggiò e dopo aver atteso un anno, si rasò i capelli, si vestì da uomo e tornò all’ufficio di arruolamento. Riferì di essere senza documenti di identità in quanto li aveva smarriti ed era in attesa dei nuovi documenti. Disse che il suo nome era Sasha Rashupkin ed era un macchinista esperto.
Erano giorni frenetici, la guerra esigeva continui rinforzi e non c’era tempo per approfondire le situazioni non del tutto chiare, poiché ogni soldato era prezioso. L’ufficio arruolamento credette fosse un uomo e la inviò ad un corso di formazione di due mesi in una piccola località vicino a Stalingrado. In questa caserma però, il medico responsabile dei certificati di idoneità si accorse di aver di fronte una donna. Il problema non consisteva nel fatto che fosse una donna, perché tante erano le donne che combattevano nell’Armata Rossa, ma che si evitava di assegnare una donna all’equipaggiamento di un carro armato. Aleksandra pregò il medico di non ostacolare questo suo desiderio poiché era forte e coraggiosa come un uomo. Il dottore le disse: «Hai ragione, Giovanna d’Arco!» e le rilasciò l’idoneità dichiarandola di sesso maschile e promettendo di tacere sulla sua vera identità.
Tre giorni prima della fine del corso di formazione, i tedeschi irruppero nella scuola dei carri armati: la sesta armata di Friedrich Von Paulus stava avanzando su Stalingrado. I cadetti sovietici, senza armi fuggirono attraverso la foresta, strisciarono nel fango per giorni, nascondendosi ai nazisti.
Non c’erano divise di ricambio ne docce per lavarsi e curarsi. Così Aleksandra quando si presentò di fronte al suo comandante aveva i vestiti color terra, i capelli, il volto e le mani decisamente sporchi. C’era urgenza di combattere e così come gli altri suoi compagni non si lavò mai e non cambiò mai la sua uniforme.
Lei ed il suo equipaggio del carro armato T-34 parteciparono a pesanti combattimenti a Stalingrado e si distinsero durante l’offensiva in Polonia. Sorprendentemente, per tutti e tre gli anni al fronte, nessuno dei suoi compagni si rese conto che lei fosse una donna.
Aleksandra stessa raccontò: «Avevo il petto piatto, ero magra, con spalle larghe e fianchi stretti. Tutta sporca e con i capelli rasati sembravo un ragazzo. In più cercavo di parlare il meno possibile e quando lo facevo imitavo la voce maschile. In guerra non è come nei film, non c’era la possibilità di lavarsi e di cambiarsi. Vestivamo sempre con gli stessi abiti. quando si trattava di andare ad espletare i propri bisogni personali dicevo che mi vergognavo e in quei brevi momenti mi isolavo. Talvolta mi prendevano in giro per questo motivo e mi dicevano che ero una femminuccia. Non si rendevano conto di quanto fossero vicini alla verità«.
Per tre anni, Aleksandra non subì nemmeno un graffio, ma il 12 febbraio 1945, fu ferita seriamente come descritto all’inizio dell’articolo.
Mentre Rashupkina veniva curata in ospedale, scoppiò uno scandalo nel corpo dei carri armati: si dice che della circostanza fu informato persino il maresciallo Georgij Zhukov. Secondo la legge marziale Aleksandra avrebbe dovuto essere arrestata e rimossa dai ranghi dell’esercito, ma la ragazza fu difesa da un comandante leggendario: il generale Vasilij Čujkov, il vincitore della battaglia di Stalingrado.
Uscita dall’ospedale, la donna fu reintegrata come pilota di un carro armato T-34 e le furono rilasciati i documenti con il suo vero nome: Aleksandra Mitrofanovna Rashupkina.
Dopo la guerra fu congedata. Anche il marito tornò a casa dal fronte. La coppia si trasferì a Samara dove visse in armonia per 28 anni, fino a quando il marito morì per gli effetti delle ferite riportate in guerra. In quei tranquilli 28 anni di dopoguerra non poterono avere figli a causa della ferita riportata da Aleksandra. Tuttavia, fino alla fine dei suoi giorni, Aleksandra Rashupkina condusse uno stile di vita piuttosto attivo: prima lavorò come autista, successivamente si laureò in ingegneria ed ottenne un impiego quale ingegnere. Contemporaneamente fece parte di un’organizzazione di veterane, organizzò festeggiamenti il 9 maggio di ciascun anno in corrispondenza del Giorno della Vittoria. Spesso si recava nelle scuole per tenere dei seminari sul patriottismo ed ogni volta che gli studenti vedevano l’elevato numero di medaglie poste sulla sua uniforme, si emozionavano.
Nonostante le ferite riportate e le dure condizioni di vita degli anni della guerra, Aleksandra Rashupkina visse 96 anni. Negli ultimi anni della sua vita, ogniqualvolta qualcuno le chiedesse del suo stato di salute, l’anziana veterana si infastidiva notevolmente e diceva: «Sto bene, ma questo non è importante. Parliamo della guerra invece, di quegli anni in cui tutti volevamo morire per la nostra Patria!«
Luca D’Agostini
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