In questo articolo analizzeremo un episodio poco conosciuto avvenuto in mare durante la Seconda Guerra Mondiale: l’affondamento del Laconia e la strage dei prigionieri di guerra italiani, una tragedia, ormai dimenticata, che avvenne in pieno oceano, al largo delle coste dell’attuale Sierra Leone.
Questo episodio mostra quale inferno si scatenò nelle stive del Laconia, allorché la nave fu silurata da un sottomarino tedesco e i carcerieri polacchi negarono ai prigionieri di guerra italiani la possibilità di accadere alla salvezza, evidenziando come la bestialità umana e il feroce istinto di conservazione possano arrivare a livelli di assurda atrocità.
Quei prigionieri di guerra italiani che si precipitarono con la testa contro le pareti, per sottrarsi al terrore dell’annegamento con la certezza di una morte immediata; quelle grate prese d’assalto da una folla impazzita dalla paura, e attraverso le quali gli aguzzini polacchi spararono nel mucchio e sferrarono colpi di baionetta; quei 1.350 (milletrecentocinquanta) prigionieri di guerra italiani che perirono nell’affondamento della nave, annegando nella loro inesorabile prigione di metallo, quei naufraghi attaccati e mangiati vivi dagli squali come ricordato da molte testimoniale dei sopravvissuti italiani, quei naufraghi che cercarono di afferrarsi alle zattere, ma che furono respinti a colpi di accetta che troncarono loro le mani: sono scene così potenti e così orrende che a stento ci si capacita siano realmente accadute se attribuite agli inglesi, che un’opinione pubblica occidentale ammaestrata considera i «buoni», e se attribuite ai polacchi, che la stessa opinione pubblica occidentale influenzata da un racconto nettamente di parte della storia, considera le «vittime innocenti».
Sarebbe sufficiente studiare la storia per comprendere chi realmente siano inglesi e polacchi. E’ vero, in genere gli italiani ricordano l’eroismo dei soldati polacchi in Italia, le loro gesta specie nella battaglia di Cassino, e li ringraziano giustamente per il contributo offerto alla loro «liberazione»; così come quando gli italiani ricordano con ammirazione l’episodio dell’insurrezione di Varsavia. Ebbene la vicenda dell’affondamento del Laconia dovrebbe ricordare che la guerra è il catalizzatore dei peggiori istinti umani e che in una guerra, come quella che incendiò il mondo intero fra il 1939 e il 1945, scatenata per enormi responsabilità dei governi britannici e polacchi, come sempre intinti della più miserabile russofobia, gli statunitensi, i britannici e le truppe al loro seguito, polacchi compresi, non possono essere annoverati tra i «buoni», contrapponendoli a quelli che in realtà erano i «cattivi» come loro.
Infatti, che dire di quei piloti di un bombardiere statunitense B-24 «Liberator» (si faccia caso al nome dell’aereo) che, pur vedendo i naufraghi sparsi sulle onde dell’oceano e il lenzuolo bianco con la croce rossa, non si fecero scrupolo di approfittare della situazione critica in cui si trova il sommergibile tedesco del comandante Hartenstein per attaccarlo ripetutamente con le bombe e cercare di affondarlo?
Il Laconia era uno splendido transatlantico dalle linee sinuose, rapido a solcare gli oceani e a infrangere le onde. Di proprietà della società Cunard Line, fu varato nel 1921, ma con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, fu requisito dalla Royal Navy, la marina britannica, e trasformato in cargo incrociatore, armato con otto cannoni da 152,4 mm e due obici da 762 mm, e, successivamente ad altre modifiche, quale trasporto truppe e nave per prigionieri di guerra. Iniziò a effettuare le sue traversate dalla Gran Bretagna fino al continente africano, trasportando le truppe inglesi che combattevano in Nord Africa contro l’Afrika Korps di Rommel e, in seguito alle vittorie nel teatro africano, ebbe la delicata missione di trasferire circa 1.800 prigionieri italiani nei campi di concentramento situati negli Stati Uniti.
Quei prigionieri di guerra italiani erano artiglieri che facevano parte della 5° Armata del Regio Esercito, inviati a combattere in Libia. Furono impiegati prima a Tobruk, nelle operazioni di assedio contro gli inglesi e poi a El Alamein. Una notte furono circondati dai carri armati inglesi del generale Montgomery e furono fatti prigionieri. Eravamo circa quattromila e nel luglio 1942 furono condotti prima a Il Cairo e poi ad Alessandria d’Egitto per essere imbarcati su grandi navi e deportati nei campi di concentramento situati sul territorio degli Stati Uniti.
Nel 1942 dal porto di Suez, sul Laconia furono imbarcati 463 uomini dell’equipaggio, 268 soldati britannici, 80 passeggeri (per lo più donne e bambini, membri delle famiglie dei soldati britannici o dei membri dell’equipaggio) e 103 soldati polacchi destinati al servizio di guardie carcerarie degli oltre 1.800 prigionieri di guerra italiani. Le guardie polacche erano ex prigionieri dei sovietici che la Gran Bretagna chiese ed ottenne che fossero rilasciati. I prigionieri italiani erano ammassati in condizioni disumane: circa quaranta centimetri quadrati a testa, con una temperatura di sessanta gradi.
Nella notte del 12 settembre 1942, il Laconia, ormai lontano dalle coste dell’Africa, in pieno Oceano Atlantico, mentre faceva rotta verso gli Stati Uniti, fu avvistato dal periscopio del sommergibile tedesco U-156, comandato dal capitano di vascello Werner Hartenstein, il quale era convinto che la nave stesse trasportando truppe inglesi: alle ore 20.10, al largo dell’Isola di Ascensione, il transatlantico fu raggiunto da un siluro del sommergibile, sul lato di dritta; pochi istanti dopo, la nave fu raggiunta da un secondo siluro e, alle 21.11, innalzando la sua prua al cielo stellato della notte atlantica, affondò di poppa.
Come abbiamo prima accennato, c’erano 811 inglesi a bordo del Laconia, prima dell’affondamento. Ne sopravvissero 800. Agli italiani andò molto, molto peggio. Durante le fasi dell’affondamento, le guardie carceriere polacche allo scopo di compiere una strage, chiusero tutti i boccaporti delle stive dove erano tenuti prigionieri gli italiani: circa 1.200 italiani morirono nell’arco di un minuto, affogati nel ventre d’acciaio della nave. Alcuni dei sopravvissuti, che riuscirono a sfondare le sbarre della prigione, in seguito raccontarono che i polacchi di guardia, pur di non fare fuggire i prigionieri, fecero uso delle armi in loro dotazione e aprirono il fuoco contro gli italiani, mentre quelli più vicini li uccisero trafiggendoli con le baionette.
Le fucilate dei carcerieri polacchi e i colpi di baionetta, che uccideranno un centinaio di italiani, saranno solo il primo ostacolo. Saliti sul ponte, i soldati italiani troveranno tutte le scialuppe occupate. E gli inglesi poco disposti a fargli spazio. L’ordine del comandante inglese fu: «se dall’acqua vedete affiorare gli italiani che afferrano le scialuppe nel tentativo di salire a bordo, usate l’accetta: mozzate le mani agli italiani«, come confermato anche in seguito dalla testimonianza del marinaio inglese Frank Holding.
Una volta che la nave affondò negli abissi, Werner Hartenstein ordinò di fare rotta sul luogo dell’affondamento, per accertarsi chi fossero gli eventuali naufraghi: la sorpresa dell’equipaggio del sommergibile tedesco fu enorme quando udirono grida di aiuto in italiano tra i rottami affioranti. Capirono in un istante di aver silurato una nave carica di suoi alleati e tentarono un disperato salvataggio. Recuperati più naufraghi italiani possibili, l’U-156 trasmise al comando degli U-Boot la notizia e l’Ammiraglio Karl Dönitz ordinò ad altri due sottomarini tedeschi di raggiungere Hartenstein e recuperare i naufraghi; fu, inoltre, inviato il sommergibile italiano «Cappellini», della Regia Marina italiana, comandato dal tenente di vascello Marco Revedin in supporto ai sommergibili tedeschi.
L’Oceano Atlantico meridionale era sotto la vigilanza di ricognitori e bombardieri statunitensi con base all’Isola di Ascensione. Il 16 settembre 1942, alle ore 11.25, l’U-156, con le scialuppe dei naufraghi a rimorchio, fu avvistato da un bombardiere statunitense B-24 «Liberator»: nonostante l’invio di messaggi radio «in chiaro» sulle frequenze inglesi di non attaccare il sommergibile poiché impegnato in una missione di soccorso e un enorme telo con la croce rossa steso la le scialuppe, l’aereo comandato dai giovani tenenti statunitensi Harden e Keller, su autorizzazione del loro comandante alla base, il colonnello Robert Richardson, sganciò alcune bombe, di cui una centrò una scialuppa e una colpì l’U-Boot, causando avarie agli accumulatori ed al periscopio. Hartenstein, il comandante del sottomarino tedesco, ordinò di evacuare i naufraghi sovraccoperta e, fatte tagliare le cime che trattenevano le scialuppe, s’immerse alla profondità di 60 metri. Quando dopo molte ore riemerse trasmise un breve messaggio in cui diceva che abbandonava la zona per avaria. I naufraghi erano lasciati al loro destino. Un sottomarino italiano, il Cappellini, aveva intanto raggiunto la zona. La mattina del 16 settembre incontrò le prime scialuppe e due ore dopo un’altra con uomini donne e bambini inglesi che rifornì di acqua e viveri. Nel pomeriggio incontrò le scialuppe con a bordo gli italiani. Il Cappellini, imbarcati sottocoperta 49 italiani feriti e sistemati sul ponte tutti gli altri naufraghi, cercò per altri quattro giorni le navi francesi alleate (di Vichy) chiamate in soccorso.
Queste già avvertite avevano preso a bordo tutti i superstiti che erano stati salvati dagli U-Boot 506 e 507: più di 700 inglesi, 373 italiani, e 72 polacchi, che arrivarono a Dakar (Senegal) il 27 settembre. Alle ore 8.00 di domenica 20 settembre, il sottomarino italiano Cappellini incontrò il sottomarino Dumont d’Urville del capitano Madelin, a cui consegnò altri 42 italiani e 19 inglesi. Altri naufraghi del Laconia, un centinaio di sfortunati che avevano trovato rifugio su due canotti, raggiunsero la costa dell’Africa solo dopo diverse settimane di mare. Solo sei di essi erano rimasti in vita. Alla fine morirono circa 1.350 italiani su 1.800, contro 11 inglesi su 811. Le guardie polacche morte furono 31 su 103 imbarcate. L’attacco all’U-156 impegnato nel salvataggio ebbe una conseguenza che si protrasse per tutta la durata del conflitto. L’ammiraglio nazista Karl Dönitz ordinò, da allora in poi, ai suoi sommergibili, di non occuparsi più di soccorrere naufraghi in mare. Una decisione che sarebbe diventata uno dei tanti capi di imputazione contro di lui al processo di Norimberga. Gli Stati Uniti ammisero solo dopo molti anni (non a Norimberga) d’aver ordinato ai piloti del B-24 «Liberator» di distruggere il sommergibile tedesco che era impegnato nell’operazione di soccorso dei naufraghi, ma nessuno dei tanti criminali statunitensi «stranamente» finì sotto processo.
Per quanto riguarda il destino del comandante Hartenstein, il 12 marzo 1943 fu affondato da un aereo statunitense, mentre si trovava in navigazione nell’Oceano Atlantico.
Questa storia è stata raccontata in un film dal regista tedesco Uwe Janson.
Per quanto concerne invece il sommergibile italiano «Cappellini», questo continuò a combattere per tutti gli altri anni della guerra. Il Cappellini verrà poi attrezzato come sommergibile cargo per trasporti in Giappone e zone occupate. Iniziò l’11 maggio 1943 al comando del capitano di corvetta Walter Auconi, con a bordo 95 tonnellate di acciai speciali, alluminio, munizioni e parti di ricambio. Causa il maltempo e consumi imprevisti di carburante il viaggio fu piuttosto difficoltoso e si rese necessario transitare nei pressi della costa sudafricana (aumentando il rischio di essere attaccati) per limitare il consumo di nafta; comunque il sommergibile italiano, dopo 57 giorni di navigazione, arrivò a Sabang (Indonesia) e da lì si spostò poi a Singapore, da dove sarebbe dovuto ripartire, per il viaggio di ritorno, con 110 tonnellate di gomma. Con la firma dell’armistizio, il sommergibile Cappellini fu incorporato nella Kriegsmarine (la marina militare nazista) e l’equipaggio non fu composto più da soli italiani, ma sia da marinai italiani che tedeschi. Il Cappellini fu ribattezzato UIT-24, ma sostanzialmente non fu mai impiegato. Con la resa della Germania, nel maggio del 1945 fu catturato dai giapponesi, incorporato nella Marina Imperiale Giapponese e rinominato I-504. Con un equipaggio misto italo-giapponese continuò a combattere nel Pacifico e con le mitragliere Breda da 13,2mm riuscì ad abbattere, il 22 agosto 1945, un bombardiere statunitense a Kobe. Dopo la resa del Giappone i pochi marinai italiani superstiti furono imprigionati dagli americani, mentre il Cappellini fu portato nelle acque al largo di Kobe ed affondato il 16 aprile 1946.
Luca D’Agostini
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