Howard Zinn, professore emerito dell’Università di Boston, autore di «A People’s History of the United States», ha scritto: «Ora che moltissimi americani non credono più nella guerra, ora che le prove degli inganni sono diventate evidenti, ci si può chiedere: com’è successo che così tanta gente sia stata ingannata con tanta facilità?
Mi sembra che ci siano due motivi ben radicati nella nostra cultura nazionale, che ci aiutano a spiegare la vulnerabilità della stampa e dei cittadini di fronte a scellerate menzogne, le cui conseguenze comportano la morte di decine di migliaia di persone. Se riusciamo a capire questi motivi, possiamo difenderci meglio dall’inganno.
Uno è nella dimensione temporale, cioè un’assenza di prospettiva storica. Se non sappiamo la storia, siamo cibo pronto per i politicanti carnivori, per gli intellettuali e i giornalisti, che sostengono le baionette. Non parlo della storia che impariamo a scuola, una storia asservita ai nostri leader politici, dai molto onorevoli Padri Fondatori ai presidenti degli anni recenti. Intendo una storia che racconti onestamente il passato. Se non conosciamo tale storia, poi qualsiasi presidente può mettersi dietro una batteria di microfoni, dichiarare che dobbiamo entrare in guerra e non avremo alcun fondamento per contraddirlo. Dirà che la nazione è in pericolo, che sono in gioco la libertà e la democrazia, che pertanto dobbiamo mandare navi e aerei a distruggere il nostro nuovo nemico e noi non avremo nessun motivo per non credergli. Ma se sappiamo un po’ di storia, se sappiamo quanto spesso i presidenti hanno fatto dichiarazioni simili al Paese e che queste risultarono poi delle bugie, non saremo ingannati. Benché alcuni di noi siano orgogliosi di non essere mai stati ingannati, potremmo comunque farci carico, come nostro dovere civile, della responsabilità di venire in aiuto dei nostri concittadini contro la mendacia dei nostri governanti.
L’altro motivo è nella dimensione spaziale, cioè un’incapacità di pensare oltre i confini del nazionalismo. Siamo prigionieri dell’arrogante idea che questo Paese sia il centro dell’universo, sia eccezionalmente virtuoso, degno di ammirazione, superiore.
Un’attenta lettura della storia avrebbe potuto salvaguardarci dall’inganno. Avrebbe messo in chiaro che fra il governo e il popolo degli Stati Uniti c’è sempre stato e c’è tutt’oggi un grosso conflitto d’interesse. Questa considerazione spaventa molta gente, perché va contro qualsiasi cosa abbiamo pensato fino a oggi.
I nostri attuali governanti ci bombardano di frasi come «interesse nazionale», «sicurezza nazionale» e «difesa nazionale» come se tutti questi concetti si applicassero egualmente a tutti noi, di colore o bianchi, ricchi o poveri, come se la General Motors e l’Halliburton avessero gli stessi interessi, che hanno gli altri fra noi, come se George Bush avesse lo stesso interesse del giovane o della giovane, che manda in guerra.
Se noi cittadini cominciamo a capire che tutte le persone che ci stanno sopra — il presidente, il congresso, la Corte Suprema, tutte quelle istituzioni che pretendono di costituire «l’equilibrio dei poteri» — non hanno a cuore i nostri interessi, siamo sulla strada della verità. Non saperlo vuol dire renderci impotenti di fronte a mentitori risoluti.
La convinzione profondamente radicata — no, non dalla nascita, ma dal sistema educativo e dalla nostra cultura in generale — che gli Stati Uniti siano una nazione particolarmente virtuosa ci rende particolarmente vulnerabili all’inganno del governo. Inizia presto, alle elementari, quando siamo costretti a «giurare lealtà» (prima ancora di sapere cosa voglia dire) e obbligati a proclamare che siamo una nazione con «libertà e giustizia per tutti».
Se il tuo punto di partenza per la valutazione del mondo, che ti sta intorno, è la profonda convinzione che questa nazione, sia in un modo o nell’altro, provvista dalla Provvidenza di qualità uniche, che la rendono moralmente superiore a ogni altra nazione della Terra, allora non è probabile che tu possa dubitare del presidente, quando dice che manda qua e là le nostre truppe o che bombarda qua e là, al fine di estendere i nostri valori — la democrazia, la libertà, e non dimentichiamolo, la libera impresa — in qualche parte del mondo (letteralmente) abbandonata da Dio. Se intendiamo proteggere noi stessi e i nostri concittadini da politiche disastrose non solo per gli altri popoli ma anche per gli americani, diviene allora necessario affrontare alcuni fatti che contraddicono l’idea di una nazione eccezionalmente virtuosa.
Questi fatti sono imbarazzanti, ma se vogliamo essere onesti vanno affrontati. Dobbiamo fare i conti con la nostra lunga storia di pulizia etnica, nel corso della quale milioni di Indiani sono stati deportati fuori dalle loro terre attraverso massacri e evacuazioni forzate. E con la nostra lunga storia, che non ci siamo ancora lasciati del tutto dietro, di schiavismo, segregazione e razzismo. Dobbiamo fare i conti con la nostra storia di conquiste imperiali nei Caraibi e nel Pacifico, con le nostre vergognose guerre contro paesi dieci volte più piccoli di noi: Vietnam, Grenada, Panama, Afghanistan e Iraq. E con la memoria persistente di Hiroshima e di Nagasaki. Non è una storia, della quale possiamo andare fieri.
I nostri leader hanno assunta come vera e hanno inculcato nelle teste della gente la convinzione che, a causa della nostra superiorità morale, abbiamo il diritto a dominare il mondo. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, Henry Luce, con l’arroganza tipica del padrone di Time, di Life e di Fortune, affermò solennemente che questo era «il secolo americano», sostenendo che la vittoria della guerra dava agli Stati Uniti il diritto di «esercitare sul mondo tutta la nostra influenza, per qualsiasi fine riteniamo opportuno e con qualsiasi mezzo riteniamo opportuno».
Sia il partito repubblicano che quello democratico hanno fatto proprio questo concetto. George Bush, nel suo discorso inaugurale del 20 gennaio 2005, ha detto che propagare la libertà per il mondo è «la missione del nostro tempo». Anni prima, nel 1993, il presidente Bill Clinton, parlando a West Point alla cerimonia di fine corso, dichiarò: «I valori, che avete imparato qui,… sarete capaci di espanderli per questo Paese e per il mondo e darete ad altra gente l’opportunità di vivere come avete vissuto voi, per mettere a frutto le capacità, che Dio via ha dato».
Su cosa si basa l’idea della nostra superiorità morale? Sicuramente non sul nostro comportamento con i popoli delle altri parti del mondo. Si basa su come vive bene il popolo degli Stati Uniti? L’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2000 compilò la classifica della performance sanitaria dei diversi Paesi e gli Stati Uniti erano al 37° posto, benché la spesa pro capite per la sanità sia la più alta al mondo. In questo, che è il più ricco Paese del mondo, un bambino su cinque nasce povero. Più di cinquanta Paesi hanno una mortalità infantile inferiore alla nostra. E sicuramente è un segno di malessere sociale, il fatto che deteniamo il primo posto per numero di persone detenute: più di due milioni.
Una più onesta valutazione di noi stessi come nazione ci preparerebbe meglio ad affrontare il prossimo fuoco di fila di bugie, che accompagnerà la prossima proposta di abbattere la nostra forza su qualche altra parte del mondo. Potrebbe indurci a crearci una nuova storia, portando via il nostro Paese dalle mani dei bugiardi assassini, che lo governano, e respingendo l’arroganza imperialista, così da permetterci di unirci al resto del genere umano nella causa comune della pace e della giustizia».1
Questa lunga premessa,tratta dal libro del professor Howard Zinn, «Storia del popolo americano. Dal 1942 a oggi», sono molto utili per addentrarci al tema dell’invasione di Grenada.
Prima, un po’ di storia per capire di quale luogo stiamo parlando e per inquadrare il contesto storico.
Lungamente contesa nel diciottesimo secolo tra Francia e Inghilterra, l’isola di Grenada divenne alla fine colonia britannica e tale rimase fino alla fine degli anni Sessanta, quando ottenne una forte autonomia nell’ambito della corona britannica. Nel 1973 si dotò di una propria costituzione e nel 1974 ottenne la piena indipendenza.
Uomo forte del Paese era Eric Gairy, il quale guidò Grenada all’indipendenza, ma era anche una figura corrotta e molto discussa. Nel 1970 Gairy aveva formato una banda privata che affiancava occasionalmente la polizia nel tentativo di contrastare e reprimere il dissenso interno.

Eric Gairy
Andavano infatti organizzandosi movimenti di opposizione, tra cui, ben presto assunse sempre maggior importanza il «New Jewel Movement» (NJM). Questo movimento di ispirazione marxista, era stato fondato nei primi anni Settanta, da Maurice Bishop, Unison Whiteman e Winston Bernard Coard e si chiamava «Unione congiunta per l’educazione, il benessere e la liberazione». La sigla era «JOYA», in spagnolo «gioiello» e per questo, in inglese, la lingua parlata a Grenada, il movimento prese appunto il nome di «New Jewel Movement».2

Maurice Bishop

Unison Whiteman

Winston Bernard Coard
Intanto la situazione interna andava facendosi sempre più violenta e caotica. All’inizio del 1974, quando mancavano pochi giorni alla data della prevista indipendenza, molte persone a Grenada erano preoccupate che una volta ottenuta l’indipendenza, Gairy ne avrebbe approfittato per instaurare una dittatura. Fu indetto per protesta uno sciopero generale organizzato da sindacati, chiesa e organizzazioni civiche. Il 21 gennaio 1974, nel tentativo di reprimere la manifestazione, la polizia attaccò il corteo dei manifestanti. Vi furono diversi feriti e fu ucciso Rupert Bishop il padre di Maurice il leader del New Jewel Movement.2
Eric Gairy ed il suo partito (il «Grenada United Labour Party») governarono l’isola fino al 13 marzo del 1979, giorno in cui, mentre Eric Gairy si trovava a New York per parlare all’ONU, Bishop con l’appoggio popolare, attuò un colpo di stato. La sua politica socialista e non allineata non piacque agli Stati Uniti che tentarono di isolare politicamente ed economicamente il Paese. Anche in risposta all’ostilità dimostrata dagli Stati Uniti, il nuovo governo cercò l’appoggio cubano. Gli stretti rapporti tra Bishop e Fidel Castro irritarono ancor di più il governo degli Stati Uniti, mentre tecnici cubani giunsero a Grenada per lo sviluppo delle infrastrutture tra cui il nuovo aeroporto di Point Salinas, indispensabile per il collegamento turistico dell’isola.2

Maurice Bishop con Fidel Castro
Intanto all’interno del nuovo governo si andò delineando una frattura in conseguenza della quale l’ala che si rifaceva al vice primo ministro Winston Bernard Coard, prese il potere e mise Bishop agli arresti domiciliari. L’arresto suscitò vibranti proteste nella popolazione. Durante una manifestazione di protesta di 30.000 persone (un terzo della popolazione dell’isola) che chiedevano la sua liberazione, Bishop fu liberato dalla folla e insieme al popolo marciò sul quartier generale dell’esercito a Fort George. Qui in circostanze ancora oggi poco chiare, i militari fedeli a Winston Bernard Coard aprirono il fuoco sulla folla, uccidendo alcuni dimostranti. Bishop fu arrestato insieme a numerosi seguaci e fucilato seduta stante.2
I disordini interni al governo rivoluzionario e la morte di Bishop ebbero subitanea eco sia a Cuba che negli Stati Uniti. Cuba aveva in quel periodo sull’isola una delegazione di tecnici militari del genio che collaborava alla costruzione di un aeroporto realizzato comunque da un’impresa britannica. Si avete letto bene: realizzato da un’impresa britannica, quindi assai improbabile che potesse trattarsi di un aeroporto militare ad uso dell’Unione Sovietica. Nello specifico comunque questa presenza di tecnici militari del genio cubani sull’isola di Grenada, era piuttosto modesta numericamente e non adeguatamente armata per un conflitto o respingere un aggressione militare esterna.
I disordini interni a Grenada costituirono agli occhi della presidenza Reagan una grande occasione: il pretesto per scatenare un intervento, evidentemente pianificato da tempo, in maniera da abbattere il governo marxista dell’isola e cancellare ogni possibile influenza cubana e sovietica nella politica di Grenada.
Una delle ragioni addotte dall’amministrazione statunitense per giustificare l’intervento era che la costruzione del nuovo aeroporto dell’isola potesse costituire un pericolo «per la sicurezza degli Stati Uniti». Questo, come abbiamo già analizzato, nonostante l’aereoporto fosse costruito da una compagnia britannica e nonostante le tante assicurazioni che dovesse servire solo per scopi turistici. Comunque, essendo Grenada uno stato sovrano, non si vede per quale motivo non potesse usare il suo aeroporto per qualunque scopo convenisse, né per quale ragione Grenada dovesse dar conto agli Stati Uniti della costruzione del suo aeroporto. Il presidente Ronald Reagan accusò Grenada di avere l’intenzione di usare il nuovo aeroporto come base per aerei militari cubani e sovietici. Reagan sosteneva che la pista di 2700 metri fosse lunga abbastanza anche per far atterrare e decollare bombardieri militari e che inoltre fossero prevista la costruzione di grossi depositi di carburante giudicati eccessivi per i voli commerciali.
Siamo giunti così al 25 ottobre 1983. Alle prime ore del mattino le truppe statunitensi iniziarono l’invasione della piccola isola caraibica di Grenada. Il presidente Ronald Reagan con quest’atto diede il via al ritorno ad una politica estera basata sull’aggressione, dopo la pausa imposta dalla cocente sconfitta in Vietnam.
«Dove diavolo è Grenada? » si chiesero molti statunitensi nell’ottobre 1983 quando lessero o sentirono alla televisione che gli Stati Uniti avevano invaso il Paese caraibico. Quando molti tentarono di trovare dove fosse quel Paese o perchè gli USA l’avessero invaso, essi non ebbero risposta. Per qualche giorno vedemmo il nome sui giornali, poi in fretta scomparve.
L’unica risposta coerente, benché vaga, data alle domande dell’opinione pubblica era che l’invasione fosse necessaria per fermare il tentativo di Mosca dall’infiltrarsi nel territorio degli Stati Uniti. Questa risposta era sufficiente per gran parte del pubblico statunitense e non furono poste altre domande.
Nonostante le limitate dimensioni di Grenada e le scarne discussioni circa l’argomento dell’invasione, le implicazioni sono sconcertanti. Si era di nuovo all’inizio di una politica estera americana basata sull’aggressione che, di fatto, è ancora oggi in atto. Il governo degli Stati Uniti conduceva esperimenti in falsità ed essi funzionavano. Per esempio sotto la scusa della «sicurezza nazionale» non fu permesso alla stampa di seguire gli avvenimenti. I media si lamentarono, ma l’incidente fu subito dimenticato. Questo test fu fatto per vedere se ci sarebbe stato scandalo da parte dei media, ma non ci fu reazione.
Venne introdotta la prassi di utilizzare una forza d’attacco in grado di assicurare una superiorità schiacciante. Fu avviata un’operazione militare denominata «Urgent Fury» e fu infatti impiegata una forza militare molto maggiore di quella che era necessaria.
L’assalto iniziale fu condotto da 1.200 soldati statunitensi, i quali incontrarono un’iniziale accanita resistenza da parte del piccolo esercito di Grenada e dall’unità del genio militare cubana. L’intera popolazione di Grenada era costituita da 100.000 abitanti, mentre gli effettivi di esercito e polizia ammontavano in tutto a meno di 1.500 unità. Pesanti combattimenti continuarono per alcuni giorni. Poco dopo però, la forza militare d’invasione statunitense crebbe raggiungendo più di 7.300 uomini ed i difensori, soverchiati, si arresero. In breve tempo l’intera isola cadde sotto il controllo degli Stati Uniti.2
I combattimenti, come detto, coinvolsero anche circa 650 cubani del genio militare in quel momento presenti sull’isola: pochissimi giorni prima dell’attacco, quando l’invasione statunitense divenne probabile, Cuba aveva fornito precisi ordini ai suoi uomini di non intraprendere alcuna iniziativa se non «direttamente attaccati». Il 24 ottobre inoltre, Cuba aveva informato il governo di Grenada che i soldati cubani avrebbero difeso solo se stessi, qualora attaccati, ed aveva evacuato il cantiere dell’aeroporto dal suo personale.2
Quindi, nonostante non fosse necessario, gli Stati Uniti decisero di impiegare massicci quantitativi di armamenti più o meno obsoleti. Questa decisione preparava la strada per future invasioni in quanto si generavano le condizioni perchè le industrie fornitrici di equipaggiamenti militari potessero ricevere un gran numero di nuove ordinazioni per armamenti di più recente generazione, rafforzando il peso del complesso militare industriale nell’economia statunitense.
Come abbiamo già precedentemente accennato, abbondarono le bugie propagandate dal governo degli Stati Uniti. Nell’invasione di Grenada furono sperimentate nuove tecniche per manipolare l’opinione pubblica ed ottenere il consenso interno. All’opinione pubblica fu detto che l’isola di Grenada era sul punto di essere usata dai sovietici come base per l’invasione di altre nazioni dell’emisfero occidentale e, eventualmente, anche degli stessi Stati Uniti. Come giustificazione il governo statunitense indicò la presenza delle truppe cubane sull’isola e la costruzione di un aeroporto.
Un’altra ragione addotta a giustificare l’intervento riguardava la necessità di assicurare la sicurezza di alcune centinaia di studenti statunitensi che frequentavano l’università di Grenada. Questo fragile argomento fu ben presto abbandonato quando il primo gruppo di studenti discese dai velivoli che li avevano riportati negli Stati Uniti. La stampa era presente in forze all’aeroporto ad attenderli, e quando la prima persona scese dall’aereo gli fu subito chiesto «Avete temuto per la vostra vita?» Il giornalista intendeva alludere che il governo di Grenada avesse in programma di attentare in qualche modo alla sicurezza dei suoi ospiti stranieri. un perplesso studente rispose: «L’unico momento in cui ho pensato che la mia vita fosse in pericolo è stato quando sono incominciate a cadere le prime bombe americane.» Quella intervista non fu più ritrasmessa.2
Per quanto riguarda l’atteggiamento tenuto dal governo statunitense nei confronti della stampa durante l’invasione di Grenada, la strategia usata dalle autorità militari statunitensi, per controllare e gestire le informazioni, consisté essenzialmente nel tenere i reporter lontani dal campo di battaglia. Nei primi giorni dell’invasione, a nessun giornalista venne data la possibilità di raggiungere Grenada ed i quotidiani furono quindi costretti a diffondere unicamente le notizie provenienti dalle fonti ufficiali statunitensi. Successivamente, almeno fino al 31 ottobre, solo ad alcuni selezionati giornalisti fu concesso di effettuare delle «visite guidate» cioè furono portati a vedere solo ciò che si desiderava vedessero.2
L’invasione di Grenada dimostrò anche che gli Stati Uniti non tenevano in alcuna considerazione il parere ed il rispetto dei propri alleati. Grenada infatti era uno stato appartenente al Commonwealth britannico e di conseguenza la Regina d’Inghilterra ne era formalmente il capo di stato, così quando iniziò l’invasione, la piccola isola chiese aiuto agli altri membri del Commonwealth. Benché ovviamente nessuno accorse in soccorso, comunque l’invasione fu aspramente criticata da Gran Bretagna, Canada ed altre nazioni. L’allora primo ministro britannico Margaret Thatcher, si oppose (solo a parole) all’invasione ed il suo ministro degli esteri, Geoffrey Howe, annunciò al Parlamento che il giorno prima dell’invasione egli non aveva avuto nessuna notizia di un possibile intervento militare statunitense.2
Ma soprattutto, con l’invasione di Grenada, fu palesemente dimostrato che gli Stati Uniti potevano impunemente operare un’aggressione ad un Paese estero senza giustificati motivi, in spregio al diritto internazionale ed agli ammonimenti dell’ONU. Queste furono le basi per la politica arrogante e noncurante del diritto internazionale delle successive amministrazioni. Questo di mostrare al mondo come gli Stati Uniti potessero infischiarsene del parere delle Nazioni Unite fu un precedente di fondamentale importanza per avvenimenti successivi anche, come sappiamo, recenti.
Che cosa sia oggi Grenada lo possiamo scoprire dalla lettura di un bellissimo saggio di Noam Chomsky, «Anno 501 la conquista continua. L’epopea dell’imperialismo dal genocidio coloniale ai giorni nostri». Scrive Chomsky: «Dopo anni di guerra economica con gli Stati Uniti Usa e di false minacce ormai cancellate dalla storia, l’isola diventò il maggior destinatario (pro capite) di aiuti Usa (dopo Israele, che è un caso a parte). L’amministrazione Reagan volle che diventasse una «vetrina del capitalismo», formula convenzionale usata ogniqualvolta un paese viene salvato dai propri abitanti e rimesso sulla retta via. I programmi di riforma imposti a Grenada provocarono i soliti disastri sociali ed economici, ed ora sono criticati persino da quel settore privato che godeva i benefici di tali imposizioni. Inoltre, «nel lungo periodo l’invasione ha avuto l’effetto di soffocare la vita politica dell’isola», scrive da Grenada l’assistente speciale di Carter, Peter Bourne, insegnante in quell’istituto di medicina i cui studenti sarebbero stati «salvati» dall’intervento statunitense: «I leader locali deboli e compiacentemente pro-americani non sono stati in grado di elaborare alcuna politica creativa per risolvere i problemi sociali ed economici di Grenada» mentre sull’isola si registrano livelli record di alcolismo e tossicodipendenza, «un malessere sociale paralizzante» cosicché a gran parte della popolazione non resta che «fuggire dal suo bellissimo Paese»«.3
Nel suo saggio, Chomsky inoltre scrive: «In realtà l’invasione ha prodotto qualcosa di positivo, come scrive Ron Suskind in un articolo apparso sulla prima pagina del Wall Street Journal con il titolo «Resa sicura dai Marines, Grenada adesso è un paradiso per le banche offshore». Anche se, come osserva un parlamentare, capo di una ditta di investimenti, l’economia è in «uno stato terribile», grazie ai piani di ristrutturazione gestiti dall’«USAID» («U.S. Agency for International Development»), ma questo il Wall Street Journal non lo dice. Quel che conta è che per gli Stati Uniti, con 118 banche offshore, una per ogni 64 abitanti, la capitale di Grenada «è diventata la Casablanca dei Caraibi, un rifugio sicuro per il riciclaggio del denaro, l’evasione fiscale e varie truffe finanziarie». Alcuni uomini d’affari se la passano bene; come, senza dubbio, i banchieri stranieri, i riciclatori di denaro ed i signori della droga, al sicuro dalle grinfie della tanto reclamizzata «guerra alla droga»«.3
Luca D’Agostini
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Fonti
(1) Howard Zinn, Storia del popolo americano. Dal 1942 a oggi, Il Saggiatore, Milano 2005.
(2) Grenada
(3) Noam Chomsky, Anno 501 la conquista continua. L’epopea dell’imperialismo dal genocidio coloniale ai giorni nostri, Gamberetti Editrice, Roma 1993.
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