Nel 1985 si svolse a Parigi un evento importante e pomposo. L’allora presidente francese François Mitterrand, nel centro della capitale francese, inaugurò un monumento al quale teneva molto. Si trattava del monumento dedicato ad Arthur Rimbaud, un uomo che trascorse una parte significativa della sua vita impegnato nella vendita illegale di armi e persone (schiavi). Tuttavia, questo non è ciò per cui divenne famoso. Quest’uomo riuscì a diventare un famoso poeta prima di raggiungere i 20 anni, avendo letteralmente pubblicato solo un paio di opere.
La sua attività creativa durò dal gennaio 1870 al marzo 1874, solo tre anni e tre mesi. Durante questo periodo, riuscì non solo a diventare un punto di riferimento fondamentale della moderna poesia, ma in gran parte predeterminò lo sviluppo dei movimenti modernisti e d’avanguardia del XX secolo.
Per 37 anni della sua vita, Arthur Rimbaud vide e sperimentò ciò che una persona comune a volte raggiunge all’età di 50 anni, se non di più. Lui stesso disse che alcune persone anziane erano dei bambini rispetto a lui. E aveva davvero motivo di pensarlo.
Arthur Rimbaud nacque il 24 ottobre 1854 in una piccola cittadina di provincia nel nord-est della Francia, Charleville, nelle Ardenne francesi, figlio di una rigida ma premurosa contadina imbevuta di religiosità e di un padre militare che abbandonò la famiglia quando Arthur aveva 6 anni e tre fratelli. La madre quindi crebbe da sola i suoi quattro figli.
Fanciullo fantasioso e sensibile, Arthur si segnalò per la sua straordinaria precocità intellettuale. All’età di dieci anni scriveva già brevi prose e componimenti poetici in latino, che gli valsero l’ammirazione di compagni e professori, oltre a numerosi premi accademici. Ma nell’animo dell’enfant prodige fermentavano oscuri sentimenti di rivolta, che lo portarono a ripudiare ferocemente le tradizioni sociali, letterarie e religiose. Considerava la scuola un ospedale psichiatrico, sognava di diventare un giornalista e cercò più volte di scappare di casa.
La Francia del XIX secolo era un calderone di cataclismi sociali, un’era di continui cambiamenti. Una rivoluzione seguiva l’altra, l’impero fu sostituito dalla repubblica, poi di nuovo dall’impero e di nuovo dalla repubblica. Quest’epoca turbolenta non poté non influenzare la formazione di giovani talenti.
Il 1870 fu l’anno delle evasioni e della definitiva conversione alla poesia. Il quindicenne Rimbaud prese il treno per Parigi per assistere alla caduta di Napoleone III. La grande avventura si concluse ingloriosamente in carcere: il poeta ribelle fu sorpreso senza biglietto. Dopo essere stato liberato, ritentò il colpo dieci giorni dopo: si recò a piedi fino a Bruxelles, dove sperava di trovare lavoro come redattore. Ma anche questa fuga fallì e rientrò immediatamente a Charleville.
La terza fuga avvenne nel febbraio 1871, a Parigi. Dopo quindici giorni di girovagare per la città sconvolta dall’assedio dei prussiani, Arthur fu costretto a tornarsene a casa.
Nel tentativo di trovare la fama, l’arrogante adolescente Rimbaud inviò le sue opere a vari personaggi famosi, persino un principe. Sorprendentemente, questa tecnica funzionò: all’età di 15 anni, per le poesie scritte in latino e inviate all’erede al trono, Arthur ricette un premio. Tra i suoi destinatari c’erano altri scrittori. Le poesie del giovane piacquero molto al poeta Paul Verlaine, il quale lo invitò a casa sua. I due poeti cominciarono a vivere insieme un’esaltante vita bohèmienne, fatta di follie, discussioni letterarie e soprattutto: poesia. Verlaine e la moglie incinta accolsero l’aspirante poeta, ma Rimbaud non andava d’accordo con la moglie di Verlaine. Lui la considerava stupida e lei lo considerava scortese e impuro. La moglie di Verlaine cacciò di casa Rimbaud. Ma con suo orrore, suo marito Paul se ne andò con lui. Gli amici viaggiarono in Europa, dove si guadagnarono da vivere scrivendo poesie e insegnando il francese.
Rimbaud desiderava diventare un super poeta o un rivoluzionario, per lui era più o meno lo stesso. La poesia che non avviava il cambiamento non gli interessava affatto. Ormai non era più solo l’amico di Verlaine, ma lo subordinava quasi a se stesso. Rimbaud aveva 10 anni in meno, ma era la guida di questa coppia.
Il genio e le intemperanze di Rimbaud sbalordirono gli ambienti culturali. Fu tra il 1869 e il 1872 che scrisse quasi tutti i brani poetici, poi raccolti sotto il titolo di «Poesie». In seguito compose le visionarie ed enigmatiche «Illuminazioni», esempio della teoria della chiaroveggenza.
Ma la miseria, l’estrosa irrequietezza di Rimbaud e le continue lamentele di Verlaine corrosero presto il loro rapporto. Rimbaud non visse mai uno stile di vita esemplare: fumava già la pipa quando era ancora adolescente. In quel periodo però si torturava fanaticamente con scioperi della fame, insonnia, alcol e droghe. In tutto questo era accompagnato dal suo fedele amico Verlaine. A Bruxelles, Paul Verlaine, ubriaco e in preda al delirio, ferì Rimbaud al braccio con un colpo di pistola. Verlaine fu arrestato e Rimbaud non gli fece mai visita, incontrandolo casualmente solo due anni dopo.
Il carattere violento di Arthur lo spinse a un altro passo imprevedibile. Prima di raggiungere i 20 anni, decise che non voleva più essere un poeta. Nonostante il numero di opere pubblicate si potesse contare su un palmo di una mano, queste riscossero comunque un discreto successo. Rimbaud scrisse così un libro in prosa, «Una Stagione all’Inferno», pubblicato nel 1873. Dopo, non scrisse più nulla. Abbandonò la letteratura per sempre.
In primo luogo, l’ex poeta si offrì volontario per l’esercito coloniale olandese, in seguito ottenne un lavoro come traduttore in un circo e viaggiò con una compagnia in Scandinavia, e poi partì per vivere in Africa. Il sogno che maturava sin dall’infanzia, quello di divenire un giornalista, ebbe il sopravvento. Volendo scrivere articoli sulla ricerca geografica, Rimbaud scrisse articoli sulle sue avventure in Africa e i suoi rapporti furono pubblicati dalla Società Geografica di Parigi. «Ero immerso in sogni di crociate, di scopritori scomparsi di nuove terre, di repubbliche che non avevano storia, di guerre di religione strangolate, di rivoluzioni morali, di movimenti di popoli e continenti: credevo in ogni magia«, scrisse Rimbaud .
Ma fu in Africa, che Arthur Rimbaud divenne anche trafficante d’armi e un mercante di schiavi.
Colpito da cancrena al ginocchio destro, affrontò un dolorosissimo calvario per rientrare in Francia, dove gli fu amputata la gamba. Ma non fu sufficiente: la malattia ebbe il sopravvento e Rimbaud morì il 10 novembre 1891, all’età di 37 anni.
Nel breve arco di tempo della sua attività è possibile individuare un’evoluzione. I suoi primi versi esprimono la rivolta dell’adolescente, la polemica contro la società borghese e la sua mediocrità. Il linguaggio corrosivo e violento deforma le strutture ancora tradizionali delle composizioni, vi introduce un elemento di derisione e dissacrazione.
Nelle prime poesie di Rimbaud si avverte l’influenza del Romanticismo. La chiave per i romantici era una netta distinzione tra il mondo poetico, «sublime» e il reale. Sfidando le regole esistenti, Rimbaud sostenne che per la poesia non vi era nella di proibito, perché le è permesso usare una trama satirica per sviluppare l’estetica del brutto. Allo stesso tempo, il poeta arricchì la lingua letteraria francese con colloquialismi, volgarismi e dialettismi, che ovviamente è possibile apprezzare solo nell’originale. Il desiderio di rinnovare la tradizione fu rafforzato anche da idee antiborghesi e anticlericali, che Rimbaud era pronto a difendere attivamente.
Una delle opere più scandalose del 1870-1871, che incarnava tutte le caratteristiche di cui sopra, è il sonetto «Preghiera della sera».
Vivo seduto, come un angelo alle mani
Di un barbiere, impugnando un ruvido bicchiere,
Collo e ipogastro curvi, una «Gambier» tra i denti,
Sotto i cieli rigonfi di vele trasparenti.
Come caldi escrementi di un vecchio colombaio,
Mille sogni procurano dolci bruciature;
Poi d’improvviso il cuore triste è come un alburno,
Che macchia l’oro giovane e scuro delle linfe.
E poi, quando ho ingoiato i miei sogni con cura,
Io mi volto, bevuti più di trenta bicchieri,
E mi concentro per mollar l’acre bisogno:
Dolce come il Signore del cedro e degli issòpi,
Io piscio verso i cieli bruni, in alto e lontano,
E con l’approvazione degli enormi eliotropi.
Ma già nel 1871, con la celebre «Lettera del veggente», egli superò quella fase per enunciare con chiarezza la poetica della veggenza: il poeta deve «farsi» veggente, deve coltivare la sua anima a prezzo di «ineffabili torture», deve distruggerne l’ordine apparente e disintegrarla per ritrovare il caos. Il poeta è colui che attinge l’ignoto, il mistero, l’Assoluto. «Trovare una lingua» è l’impegno del poeta, una lingua universale, una parola libera dalle costrizioni della sintassi e della logica, capace di evocare e suggerire attraverso il gioco infinito delle analogie e delle associazioni.
Il talento per la versificazione e la fama crescente resero Rimbaud fiducioso nel suo genio. Il suo lavoro divenne una delle pietre miliari del simbolismo: la poesia libera, in cui ogni sentimento è incarnato in ogni immagine. Arthur si dichiarò persino chiaroveggente, volendo essere un mediatore tra l’uomo e l’universo.
Nel maggio 1871, Rimbaud, in una lettera a Paul Demeny, delineava i fondamenti della teoria della chiaroveggenza e scrisse: «Il poeta si trasforma in un chiaroveggente mediante una prolungata, incommensurabile e deliberata interruzione di tutti i sentimenti. Va a qualsiasi forma di amore, sofferenza, follia. Sta cercando se stesso. Si esaurisce con tutti i veleni, ma ne risucchia la quintessenza. Tormento inspiegabile, in cui ha bisogno di tutta la sua fede, di ogni forza sovrumana; diventa il più malato di tutti, il più criminale, il più dannato e il più dotto degli scienziati! Perché ha raggiunto l’ignoto. Perché ha cresciuto più di chiunque altro la sua anima, facendola divenire così ricca! Raggiunge l’ignoto, e anche se impazzito, perde la comprensione delle sue visioni: le ha viste!«
Tuttavia, avendo realizzato in pratica la teoria della chiaroveggenza, il poeta rimase deluso dal risultato: il significato letterario di alcuni testi si rivelò sfuggente a causa dell’incoerenza e della distruzione della logica. Di conseguenza, Rimbaud criticò il proprio lavoro e ruppe con la chiaroveggenza, le idee simboliste e l’arte in generale, esprimendo la sua posizione nella sua ultima opera: «Una stagione all’inferno» (1873).
Il processo di «chiaroveggenza» non dovrebbe essere equiparato all’esplorazione del subconscio e della scrittura automatica, le componenti chiave del surrealismo. Nel complesso, tuttavia, il fenomeno Rimbaud pose una solida base per la formazione di una tradizione surrealista nella poesia francese. Forse è per questo che André Breton, nel suo Manifesto del Surrealismo del 1924, lo definì «un surrealista nella pratica della vita«.
Rimbaud fa parte di quei poeti chiamati «poeti maledetti». L’espressione «poeti maledetti» nasce dal titolo che nel 1884 Paul Verlaine dà alla sua opera antologica «Les poètes maudits«. Un altro tetro aggettivo veniva così ad affiancarsi a queste personalità inquiete, già marchiate da quello di «decadenti» consacrato dalla rivista di Anatole Baju «Le Decadent». La cosiddetta «maledizione» consiste nello stato di isolamento in cui il poeta, nell’allora nascente società moderna, finiva per trascinare la sua vita. A questa condizione interiore e sociale è intimamente collegato un senso di ribellione, che porta a sua volta al desiderio di un riscatto etico attraverso una dimensione estetica. Personalità impetuose, sensibili e lontane dagli stereotipi comportamentali della borghesia ottocentesca, i «poeti maledetti» sceglievano spesso di mettere a repentaglio la propria vita sperimentando sensazioni intense mediante l’abuso di alcool e droghe; inevitabili le conseguenze di un simile modo di vivere sullo stile di scrittura, sia a livello tematico che formale. L’espressione poetica si trasforma in mezzo per instaurare con la realtà circostante un rapporto istintuale, senza alcuna mediazione razionale.
Rimbaud fu l’esempio assoluto di «poeta veggente» e «maledetto»: condusse infatti un’adolescenza sregolata e si fece portatore di una visione conflittuale.
Il poeta non comprese mai l’amore, incolpando la sua codardia per tutto ciò che gli era capitato nella vita, ma anche per le sue azioni e per i suoi pensieri. Rimbaud, come per un periodo desiderò, divenne un grande poeta francese. Ma il successo maggiore giunse solo dopo la sua morte.
Luca D’Agostini
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Fonti
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Jean-Marie Carré, La Vie aventureuse de Jean-Arthur Rimbaud, Plon, Parigi 1926
Marcel Coulon, La Vie de Rimbaud et de son oeuvre, Mercure de France, Parigi 1929
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Daniel de Graaf, Arthur Rimbaud homme de lettres, Van Gorkum, Assen 1948
Pierre Arnoult, Rimbaud, Albin Michel, Parigi 1955
Sergio Solmi, Rimbaud, Einaudi, Torino 1974
Renato Minore, Rimbaud, Mondadori, Milano 1991
Jean Bourguignon, Charles Houin, Vie d’Arthur Rimbaud, Payot, Parigi 1991
Carlo Zaghi, Rimbaud in Africa. Con documenti inediti, Guida, Napoli 1993
Jean-Jacques Lefrère, Arthur Rimbaud, Fayard, Parigi 2001
Graham Robb, Rimbaud. Vita e opere di un poeta maledetto, Carocci Editore, Roma 2002
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