La russofobia statunitense fu all’origine di numerose tragedie che segnarono la storia della Prima Repubblica italiana (1945-1993). Le prove scoperte nel corso degli ultimi dieci anni attestano che l’esercito Gladio diretto dai servizi segreti italiani prese una parte attiva a questa guerra non dichiarata. In assenza di invasori sovietici, le unità paramilitari formate dalla CIA ripiegarono su delle operazioni interne miranti a condizionare la vita politica nazionale. Un’inchiesta parlamentare incaricata dal Senato italiano di far luce su Gladio e su una serie di attentati misteriosi concluse che alla fine della Guerra Fredda, in Italia la CIA aveva potuto beneficiare di una massima libertà. La politica interna italiana opponeva essenzialmente due grandi forze politiche, le quali rispecchiavano le due ideologie dominanti della Guerra Fredda: a sinistra, si trovava il Partito Comunista Italiano, finanziato segretamente dall’Unione Sovietica, mentre dall’altra parte della scacchiera si attivavano la CIA, i servizi segreti militari italiani ed il loro esercito «Gladio» che ricevevano il sostegno politico della Democrazia Cristiana.1 2 3 4
Durante la Seconda Guerra mondiale, l’Italia si era alleata ad Hitler. Dopo la sconfitta delle potenze dell’Asse, il presidente Franklin Roosevelt, il Primo ministro britannico Winston Churchill ed il leader dell’Unione Sovietica Iosif Stalin si incontrarono a Yalta, in Crimea, nel febbraio del 1945, per discutere della sorte dell’Europa e presero la decisione, cruciale per l’Italia, di porre la penisola nella sfera di influenza statunitense. Allo scopo di limitare il potere dei simpatizzanti dell’Unione Sovietica, la CIA non esitò ad allearsi con la Mafia. I rapporti tra Cosa Nostra e il Fascismo furono segnati dal forte contrasto tra il regime fascista e Cosa Nostra. L’attività di contrasto, iniziata nel 1924 con l’invio in Sicilia del prefetto di ferro Cesare Mori, si tradusse in una forte repressione del fenomeno, durante la quale senza ipocrisia furono incriminati anche gerarchi fascisti di rilievo. Successivamente Victor Marchetti, un agente della CIA, dichiarò: «La CIA si è appoggiata sull’anticomunismo e l’antifascismo viscerale della Mafia per controllare l’Italia«.5 Prima della fine della guerra, l’agente segreto statunitense Earl Brennan, intervenne presso il ministro della Giustizia degli Stati Uniti affinché quest’ultimo riducesse la pena di 50 anni pronunciata contro Charles «Lucky» Luciano allo scopo di concludere un accordo segreto: in cambio della sua liberazione, Luciano avrebbe fornito all’esercito statunitense una lista di mafiosi siciliani più influenti disponibili ad appoggiare lo sbarco statunitense del 1943 in Sicilia contro il regime fascista e i soldati tedeschi.6 Dopo la guerra, la CIA mantenne quest’amicizia segreta con la Mafia siciliana ed è così che in nome della lotta contro il comunismo in Italia e in Sicilia, gli statunitensi abbandonarono l’isola ai criminali che la controllano ancora oggi.7
Il 4 aprile 1949 l’Italia aderì alla NATO in qualità di membro fondatore. Soltanto alcuni giorni prima, il 30 marzo 1949, l’Italia si era dotata del suo primo servizio di informazioni militare, nato dalla collaborazione con la CIA. Integrata al Ministero della Difesa, l’unità segreta fu battezzata SIFAR (Servizio Informazioni Forze Armate) e posta sotto la direzione del generale Giovanni Carlo. Durante la Prima Repubblica, il SIFAR interferì in diverse riprese negli affari politici dell’Italia e la sua divisione «Office R» si incaricò del comando della formazione paramilitare Gladio.
Il SIFAR era un’organizzazione regolata da un protocollo top secret imposto dagli Stati Uniti. Tale protocollo costituiva in realtà una rinuncia totale alla sovranità nazionale. Secondo tale protocollo infatti, gli obblighi del SIFAR nei confronti della direzione della CIA avrebbero compreso la condivisione di tutte le informazioni raccolte e il diritto di valutazione della CIA sul reclutamento del personale dei servizi segreti italiani. Ciò in pratica voleva dire che per essere reclutati nei servizi segreti italiani era imperativamente necessario ricevere l’approvazione della CIA.8 Come scrisse Paolo Taviani, ministro della Difesa italiano tra il 1955 ed il 1958: «i servizi segreti italiani sono diretti e finanziati dai «tipi di Via Veneto»«, detto altrimenti, dalla CIA e dall’ambasciata degli Stati Uniti a Roma.9
Già in quegli anni divenne noto che la CIA praticava sistematicamente omicidi politici, mantenendo persino un dipartimento speciale specializzato nell’eliminazione di coloro considerati: «discutibili«. Le vittime di tale politica inclusero non solo Aldo Moro, ma anche Salvador Allende in Cile, il Primo Ministro del Congo Patrice Lumumba, Ernesto Che Guevara e altri politici in giro per il mondo. Effettuarono vari tentativi per uccidere Fidel Castro, ma non vi riuscirono mai. Successivamente altre vittime della CIA sono stati Slobodan Milošević, l’ex presidente serbo torturato nei sotterranei del tribunale dell’Aia, Saddam Hussein in Iraq, Mu’ammar Gheddafi in Libia! Solo grazie alla protezione garantitagli dalla Federazione Russa il presidente siriano Bashar al-Assad non si trova in questo elenco. La settimana scorsa invece, il generale iraniano Soleimani è purtroppo divenuto un’altra vittima degli sporchi giochi della CIA.
Fu così, che negli anni della Guerra Fredda, durante la strategia della tensione, nel bel mezzo del periodo definito «dello stragismo», accadde un fatto che segnò in maniera indelebile la politica italiana: il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro.
Quello di Moro è ancora un caso irrisolto, tante versioni sono state raccontate e tante interpretazioni sono state fornite. Ma qual è la verità? Di fatto, dopo 42 anni dalla strage di via Fani, ancora non è stata fatta luce su questo tragico episodio; le modalità dell’agguato, i dettagli operativi, le circostanze precedenti e successive all’agguato, le responsabilità dei componenti del gruppo di fuoco terroristico, la presenza sul luogo di altre componenti esterne alle Brigate Rosse, le connivenze e i supporti internazionali, sono tutti aspetti ampiamente dibattuti in sede processuale, parlamentare e pubblicistica, ma rimangono tutt’oggi oggetto di discussioni e dubbi.
Cinque processi e due commissioni parlamentari. Risultato? Ufficialmente, il nulla, nonostante i numerosi riscontri probanti. Soprattutto riguardo le ingerenze degli Stati Uniti. In compenso è stato propinato il solito copione di Stato, pilotato con sottofondo P2 (società eversiva finanziata e protetta dalla CIA): depistaggi, omissioni, insabbiamenti e strani decessi come per Ustica.
Il fine di questo articolo quindi non è di fornire risposte. Come potremmo avere la presunzione di averne se ben cinque processi giudiziari e due commissioni parlamentari non ne hanno fornite abbastanza? Le verità in qualche modo accertate, sono a disposizione di tutti su qualsiasi mezzo d’informazione e quindi non ripercorreremo la cronaca di quei terribili eventi. Questo articolo vuole riassumere quelle domande che politicamente e mediaticamente poche volte in Italia ci si è posti riguardo il ruolo degli Stati Uniti nell’intera vicenda. Domande alle quali certamente proverete a rispondere con la vostra opinione e magari avendo ascoltato quella di qualcun altro, ma saranno tutte risposte di intuito, molte anche di buon senso, ma che non sono state mai fornite istituzionalmente e quindi dal punto di vista storico lasciano il tempo che trovano, lasciando invece fermi come macigni gli interrogativi che ci si pone.
Partiamo con le domande, lo ricordiamo, che non hanno ottenuto una risposta giuridica nei processi, e politica nelle commissioni parlamentari.
1) Il Governo italiano dell’epoca era a conoscenza del luogo di prigionia di Moro, riferito anzitempo dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Perché quindi non fu trovato? A chi giovava non venisse trovato? Sembra una domanda banale, ma provate a spiegare a un bambino oppure ad uno straniero, che nulla sa del caso Moro, e ditegli che un importante uomo politico viene rapito, le istituzioni sono a conoscenza di dove si trovi, ma con le loro indagini (pur sapendolo) non riescono a trovarlo!
2) Il generale dei carabinieri Nicolò Bozzo, comandante della «Divisione Pastrengo» era il braccio destro del generale Carlo Alberto dalla Chiesa e nel 2015 ha rilasciato un’intervista a «Il Fatto Quotidiano» in cui ha raccontato la sua verità sul rapimento e sull’omicidio di Aldo Moro. Il generale Bozzo ha fornito delle informazioni importanti e allo stesso tempo inquietanti sul caso Moro, come quella riguardante alcuni individui legati all’organizzazione delle Brigate Rosse, i quali avevano iniziato abusivamente a realizzare dei lavori in muratura dentro un appartamento in Via Montalcini N. 8, piano terra, interno N. 1, a Roma nel quartiere della Magliana, per prepararsi alla futura detenzione di Aldo Moro.10 11 Secondo quanto emerso dai processi, il presidente della Democrazia Cristiana sarebbe stato tenuto sotto sequestro in questo immobile per 55 giorni. L’appartamento era intestato alla brigatista Anna Laura Braghetti, la cosiddetta «vivandiera» ed era abitato anche da Prospero Gallinari e Germano Maccari. Il generale Bozzo affermò di aver denunciato il tutto «a chi di dovere»: «Andai io personalmente dal capo di Stato Maggiore dell’Arma, il generale Mario De Sena. Gli raccontai tutto, per noi era una notizia importante, ma lui, alla napoletana, mi rispose: «Guagliò quello delle Brigate Rosse è un problema vostro, del Nord, qui a Roma di Brigate Rosse non c’è traccia». In pratica sottovalutò quella notizia, e con ciò non intendo dire che non volle approfondirla, in quel momento erano convinti che la Capitale non correva grandi pericoli. Subito dopo, però, ci fecero il vuoto attorno. Il generale Dalla Chiesa mi inviò a Roma, ma non potei fare nulla. Passavo le giornate con le mani in mano«.11 Perché il generale Bozzo fu così osteggiato? Parliamo di altissimi vertici militari. Fu un semplice quanto improbabile errore di valutazione, oppure frutto di una strategia internazionale più ampia? E in tal caso, chi c’era dietro il comportamento assunto nei confronti del generale Bozzo?

Generale Niccolò Bozzo
3) Iniziò tutto in via Fani, angolo con via Stresa, intorno alle ore 9.00 della mattina del 16 marzo 1978. Quartiere Camilluccia, quadrante nord della città. Un commando di terroristi aprì il fuoco sulla scorta del presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro, il quale era partito dalla sua casa in via del Forte Trionfale N. 79 per andare alla Camera a votare la fiducia al quarto governo Andreotti. Nell’agguato furono uccisi i cinque agenti: Oreste Leonardi e Domenico Ricci a bordo della Fiat 130 di Moro; Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi sull’altra vettura, un Alfetta. Moro fu prelevato e sistemato a bordo di una Fiat 132 blu che ripartì a tutta velocità verso via Trionfale, preceduta e seguita da altre due auto dei componenti del commando e da una moto. Secondo le ricostruzioni fornite successivamente dai brigatisti, le tre auto furono abbandonate tutte insieme nella vicina via Licinio Calvo.10 La moto invece non fu mai ritrovata. Ma le domande che ancora attendono una risposta sono: sul luogo del rapimento c’erano solo i brigatisti? Molti indizi sostengono ci fossero anche altre persone. Chi erano? Per quale motivo erano lì presenti?
4) In una traversa della Cassia, all’altezza Tomba di Nerone, precisamente in Via Gradoli N. 96, secondo piano, interno N. 11 viveva il brigatista Mario Moretti, sotto l’alias ‘ingegner Borghi’, insieme alla sua compagna, la brigatista Barbara Balzerani.10 Durante il sequestro di Aldo Moro, Mario Moretti si recava quotidianamente in macchina presso il covo di Via Montalcini N. 8, luogo già conosciuto come abbiamo precedentemente descritto. La domanda è la seguente: è possibile che avendo contezza dell’esistenza del covo di Via Montalcini, non si fosse a conoscenza dei suoi frequentatori e quindi anche di Mario Moretti e della sua abitazione in Via Gradoli? La Polizia, in occasione dei controlli effettuati due giorni dopo la strage di via Fani, si recò proprio in Via Gradoli per degli accertamenti, ma non in quell’appartamento. Il covo di Via Gradoli fu scoperto ufficialmente solo il 18 aprile 1978, in seguito a una perdita d’acqua segnalata dall’inquilina del piano di sotto. Si apprese poi che nella stessa via vi erano 24 appartamenti di società immobiliari intestate a fiduciari del SISDE (Servizio per le Informazioni e la Sicurezza Democratica), un’ex servizio segreto italiano coinvolto in innumerevoli scandali.10 Attenzione, alcuni di questi appartamenti si trovavano proprio nello stabile di Via Gradoli N. 96, abitazione di Mario Moretti e Barbara Balzerani. E’ certamente una stranezza, ma era solo una banale coincidenza?

Via Gradoli N. 96 (Roma)
5) Il sequestro si chiuse con l’ultimo atto, questa volta al centro di Roma: in via Caetani — dietro Botteghe Oscure, sede del Partito Comunista Italiano e poco distante da piazza del Gesù, sede della Democrazia Cristiana — dove la mattina del 9 maggio 1978 fu ritrovata una «Renault 4» amaranto con il cadavere del politico nel portabagagli. I brigatisti rischiarono veramente di attraversare tutta la città, piena di posti di blocco ovunque, per arrivare da via Montalcini al centro storico, con quel delicato e ingombrante carico? Alcuni elementi fanno ipotizzare che almeno nella fase finale della detenzione, Aldo Moro si trovasse in realtà in un covo nei dintorni di via Caetani. Fatto alquanto curioso è che in Via Caetani si trovava anche l’USIS (United States Information Service), diretta emanazione della CIA. La sede romana dell’USIS si trovava in via Caetani N. 32, quasi di fronte al punto in cui sarà parcheggiata la Renault rossa con il corpo di Moro.
Via Caetani inoltre costeggia due palazzi storici, Palazzo Caetani e Palazzo Antici Mattei. In quest’ultimo il SISMI (gli ex servizi segreti militari italiani) effettuarono degli accertamenti dopo il sequestro di via Fani identificando il direttore d’orchestra russo, naturalizzato italiano, Igor Markevitch e la moglie, la duchessa Topazia Caetani. Markevitch fu poi indicato come possibile intermediario nella trattativa per liberare Moro e, da alcuni, addirittura come colui che condusse gli interrogatori sul politico.
Ecco quanto ha dichiarato sul conto di Markevitch dal senatore Giovanni Pellegrino, per sette anni (dal 27 settembre 1996 al 29 maggio 2001) presidente della Commissione Parlamentare d’Inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi: «Agli atti della Commissione Moro era allegato un rapporto del SISMI in cui si diceva che, secondo alcune fonti, un certo Igor Caetani – che poi abbia scoperto essere invece Igor Markevitch – poteva essere uno dei cervelli del sequestro Moro, addirittura uno di quelli che conducevano l’interrogatorio nella prigione di via Montalcini; ma la pista era stata poi abbandonata perché non portava a niente. Quell’appunto veniva da un ufficiale di grado elevato, l’attuale generale Cogliandro, il quale dichiarava attendibile la fonte dell’informazione. Il SISMI decise però che quella pista non portava da nessuna parte. Le ragioni di questa valutazione sono però rimaste misteriose. Abbiamo chiesto spiegazioni al Servizio segreto militare, ma nessuno ci ha risposto.«12 Perché? Quale ruolo effettivamente ebbe Igor Markevitch e per conto di chi agiva? Come è possibile che un organo dello stato quali sono appunto i servizi segreti, non rispondano ad una richiesta di chiarimento proveniente ufficialmente da una commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia?

Igor Markevitch
6) Alcune delle domande fondamentali di tutta la vicenda del caso Moro ruotano attorno alla figura di dello statunitense Steve Pieczenik. Laureato ad Harvard in psichiatria, vice assistente del segretario di Stato, capo del servizio antiterrorismo del dipartimento di Stato degli Stati Uniti, fu inviato in Italia dal segretario di Stato Henry Kissinger proprio nei giorni del rapimento Moro con il ruolo di consulente personale (oppure sarebbe meglio dire «controllore») dell’allora ministro degli Interni Francesco Cossiga. Gli Stati Uniti non si fidavano affatto di Cossiga in quanto ritenevano potesse voler salvare la vita a Moro e quindi per la gestione di quei giorni di crisi, commissariarono di fatto il Ministero degli Interni della Repubblica Italiana, affiancando Steve Pieczenik al ministro degli Interni. Logicamente il popolo italiano non seppe nulla del suo arrivo e della sua missione. La domanda da porsi è: Steve Pieczenik fu davvero inviato in Italia quale consulente di Cossiga, oppure più che un consulente era la persona incaricata di impartire gli ordini allo stesso Cossiga (quindi altro che «consulente»), in quanto gli Stati Uniti non si fidavano della gestione della crisi da parte dei politici italiani? Che ruolo ebbe effettivamente Pieczenik? Perché si è accettata la sua presenza e il suo operato? Alla Commissione parlamentare d’inchiesta Cossiga ebbe a dire in proposito soltanto questo: «Il governo degli Stati Uniti ci ha garantito una qualificata collaborazione a livello di gestione della crisi«.13
Pieczenik stesso, in suo un libro, raccontò di aver portato avanti un piano di «manipolazione strategica» perché si arrivasse all’uccisione dell’esponente Democrazia Cristiana, unico modo per garantire in Italia la stabilità della situazione politica.13 In un Paese libero, ciò sarebbe permesso oppure costituirebbe un reato?

Steve Pieczenik
Steve Pieczenik, fu anche l’ideatore della falsa notizia del ritrovamento del cadavere di Moro nel Lago della Duchessa: si trattava di un segnale inequivocabile rivolto a tutti e consisteva nel fatto che mai si sarebbe intavolata e una trattativa e che Aldo Moro doveva essere considerato «già» morto.14
Ma come fu realizzato il falso comunicato delle Brigate Rosse che riportava la notizia del cadavere di Aldo Moro nei fondali del Lago della Duchessa? Chiara Zossolo, la vedova di Antonio Chichiarelli, il falsario coinvolto nelle vicende più oscure della Repubblica Italiana, in un’intervista dichiarò: «Ho visto mazzette e mazzette di soldi sparpagliate sul tavolo della sala da pranzo. C’era una quantità enorme di banconote. E ho capito che Tony si era messo nei guai. Per lui era solo lavoro. Per gli altri, quelli che si sono serviti del suo talento, erano depistaggi. Mio marito è entrato in una storia sporca che non è riuscito a gestire«.15 La storia sporca del sequestro Moro. Del falso comunicato numero 7 attribuito alle Brigate Rosse ma in realtà confezionato da un membro del governo degli Stati Uniti che aveva il compito di assicurarsi che Aldo Moro fosse ucciso. La vedova di Chichiarelli dichiarò: «Quando riportarono in televisione la notizia del lago della Duchessa, Tony sorrideva. Era riuscito a prendere in giro tutti. Il suo comunicato delle Brigate Rosse era perfetto, come i suoi quadri«.15 Per ben quarantotto ore polizia, carabinieri, esercito e vigili del fuoco setacciarono la zona e i fondali del lago della Duchessa, uno specchio d’acqua al confine tra Abruzzo e Lazio alla ricerca del corpo di Aldo Moro. L’Italia intera si fermò. In attesa. Ma il comunicato non era delle Brigate Rosse bensì di Tony Chichiarelli. La vedova del falsario dichiarò inoltre: «Mi disse che si era trattato di uno scherzo, che aveva scritto un comunicato brigatista falso per far correre la polizia su quel lago. Me lo confessò mentre la TV trasmetteva la notizia. E’ il lago della Duchessa, è vicino a Magliano dei Marsi, il paese natale di Tony. In seguito, capii che si trattava di un lavoro commissionato«.15 Da chi, lo rivelerà anni più tardi lo stesso Steve Pieczenik: «La sceneggiata era stata organizzata dai servizi segreti su suggerimento dell’unità di crisi capitanata da Cossiga. Di fatto quel falso comunicato servì a distogliere l’attenzione delle forze dell’ordine da Roma e questo consentì ai brigatisti di spostare Moro da una prigione all’altra«.15
A sapere tutto del falso comunicato e della farsa di via Gradoli, fu il giornalista Mino Pecorelli, ucciso a Roma il 20 marzo 1979 in circostanze ancora oggi non chiarite. Mino Pecorelli scrisse del sequestro Moro come di «una delle più grosse operazioni politiche compiute in un paese integrato nel sistema occidentale con l’obiettivo primario di allontanare il PCI dall’area del potere«.15 Sul settimanale «Op», Pecorelli pubblicò in anticipo alcune lettere del presidente democristiano. Da chi le aveva ottenute? Domanda ancora senza risposta! Nel numero dell’11 aprile 1978 scrisse: «Veniamo informati da canali autorevoli che il Vaticano ha effettuato l’inizio concreto delle trattative«.15 Trattative smentite allora dalle fonti ufficiali e confermate solo nei primi anni Novanta. Come lo aveva saputo? Domanda anche questa ancora senza risposta? Nel gennaio del 1979 Pecorelli accennò all’Operazione Gladio e titolò: «Vergogna buffoni!«, rivelando su «Op» quello che sarà scoperto soltanto anni più tardi: la presenza nel comitato d’emergenza del caso Moro del vice segretario di Stato statunitense Steve Pieczenik.15 Mino Pecorelli, era arrivato al nocciolo della questione, aveva toccato quei fili ad alta tensione che non si possono toccare.

Mino Pecorelli
In seguito nel 2006, in un’intervista pubblicata in Francia dal giornalista Emmanuel Amara, nel libro «Nous avons tué Aldo Moro«, Steve Pieczenik dichiarò: «La decisione di far uccidere Moro non fu presa alla leggera. Ne discutemmo a lungo, perché a nessuno piace sacrificare delle vite. La Democrazia Cristiana (tranne Amintore Fanfani) e il Partito Comunista Italiano, mi manifestarono la loro posizione di fermezza politica nel non voler trattare con le Brigate Rosse, anche se questo avesse comportato il rischio della morte di Aldo Moro. Ma Francesco Cossiga mantenne ferma la rotta e inizialmente non voleva ascoltare i nostri consigli, voleva che Aldo Moro uscisse da questa situazione sano e salvo. Bettino Craxi addirittura la salvezza di Aldo Moro la pretendeva. Le Brigate Rosse non lo volevano morto, ma solo in una condizione fisica tale da non poter continuare la carriera politica.
Così presi il controllo del ministero degli Interni e dovetti arrivare a una soluzione molto difficile, soprattutto per Francesco Cossiga. Con la morte di Moro impedimmo a Berlinguer di arrivare al potere e di evitare così la destabilizzazione dell’Italia e dell’Europa. Bisognava contemporaneamente anche porre fine alla capacità di nuocere delle forze reazionarie e antidemocratiche di estrema destra. Allo stesso tempo era auspicabile che la famiglia Moro non avviasse una trattativa parallela, scongiurando il rischio che Moro venisse liberato prima del dovuto. Mi resi conto che, portando la mia strategia alle sue estreme conseguenze, mantenendo cioè Moro in vita il più a lungo possibile, questa volta forse avrei dovuto sacrificare l’ostaggio per la stabilità dell’Italia. Mi rincresce per la morte di Aldo Moro; chiedo perdono alla sua famiglia e sono dispiaciuto per lui, credo che saremmo andati d’accordo, ma abbiamo dovuto strumentalizzare le Brigate Rosse per farlo uccidere«.16 17
Cari lettori, avete letto bene! Queste sono le parole pronunciate dal vice segretario di Stato degli Stati Uniti (l’equivalente del vice ministro degli Esteri in Italia). Vi sembrano ammissibili? Perché non si è ami incriminato per questo reato? Perché non fu mai convocato per essere ascoltato da un magistrato italiano o dalle commissioni parlamentari d’inchiesta?
Ancora prima, il 16 marzo del 2001, in una precedente dichiarazione rilasciata a «Italy Daily», lo stesso Pieczenik disse che il suo compito per conto del governo di Washington era stato quello «di stabilizzare l’Italia in modo che la Democrazia Cristiana non cedesse. La paura degli Stati Uniti era che un cedimento della Democrazia Cristiana avesse potuto portare consenso al Partito Comunista Italiano, già vicino a ottenere la maggioranza. In situazioni normali, nonostante le tante crisi di governo, l’Italia era sempre stata saldamente in mano alla Democrazia Cristiana. Ma adesso, con Moro che dava segni di cedimento, la situazione era a rischio. Venne pertanto presa la decisione di non trattare. Politicamente non c’era altra scelta. Questo però significava che Moro sarebbe stato giustiziato. Il fatto è che lui non era indispensabile ai fini della stabilità dell’Italia«.16 La domanda che l’analisi dovrebbe porsi è: è un Paese che possa considerarsi libero e democratico, un Paese in cui uno stato estero si arroga il diritto di intervenire direttamente per stabilire quale governo imporre? Indipendentemente dal colore e dalle simpatie politiche di ciascuno degli italiani.
Queste dichiarazioni di un esponente ufficiale del governo statunitense (assistente del segretario di Stato sotto Kissinger, Vance, Schultz, Baker) sono di dominio pubblico da tempo. Il 9 marzo 2008, sono state riportate anche dal quotidiano «La Stampa» in un articolo dal titolo «Ho manipolato le Brigate Rosse per far uccidere Moro» e non sono mai state smentite né da Cossiga né da Andreotti.16
Intervistato da Gianni Minoli sugli accadimenti di quei giorni e su che cosa pensasse del tentativo di Bettino Craxi (contrario alla linea intransigente della Democrazia Cristiana e del Partito Comunista Italiano), Pieczenik rispose: «Noi avvicinammo Craxi e gli dicemmo a brutto muso che sapevamo«.14 Ora è chiaro che quando Pieczenik dice «Noi«, intendeva gli Stati Uniti o meglio i servizi segreti degli Stati Uniti (CIA). Che cosa sapessero, Pieczenik non l’ha mai rilevato, ma opinione diffusa è che si trattasse dei finanziamenti illeciti al Partito Socialista Italiano, che in seguito causarono la fine della sua carriera politica.
Bettino Craxi intendeva mantenere aperto un canale di comunicazione con i terroristi nel tentativo disperato di salvare la vita ad Aldo Moro. Ma ciò fu giudicato pericoloso dagli Stati Uniti. Pericoloso perché, come non mancò di rilevare Indro Montanelli: «La sopravvivenza di Moro avrebbe potuto determinare un cambio di posizione del nostro Paese, che sarebbe scivolato nel gruppo dei non allineati, fuori dai tradizionali schieramenti dell’epoca«.14
La convergenza di interessi tra democristiani e comunisti italiani, sterilizzò le iniziative di Craxi e contribuì a tenere in vita per qualche anno ancora un sistema politico ormai scricchiolante.
7) L’ex vicepresidente del CSM ed ex vicesegretario della Democrazia Cristiana, Giovanni Galloni, il 5 luglio 2005, in un’intervista rilasciata alla trasmissione «NEXT» di Rainews24, disse che poche settimane prima del rapimento, Moro gli confidò, discutendo della difficoltà di trovare i covi delle Brigate Rosse, di essere a conoscenza del fatto che sia i servizi segreti statunitensi che quelli israeliani avevano degli infiltrati nelle Brigate Rosse, ma che gli italiani non erano tenuti al corrente di queste attività che sarebbero potute essere d’aiuto nell’individuare i covi dei brigatisti.18
Galloni ha sostenuto che Moro appariva molto preoccupato dei rapporti tra i servizi segreti stranieri e quelli italiani. Già nel 1977, come sostengono Giovanni Galloni e Roberto Gaja, ambasciatore italiano a Washington, secondo Moro i servizi segreti di alcuni paesi alleati, come la CIA e il Mossad, non fornivano informazioni utili al governo italiano riguardo i loro eventuali infiltrati nelle organizzazioni delle Brigate Rosse, o comunque, qualora le fornissero, evidentemente esse non pervenivano alle persone giuste. Molti dei membri dei servizi segreti italiani di quegli anni, come è risultato più recentemente, erano controllati infatti dalla loggia P2.19 20 Non era la prima volta che Moro incappava in complicazioni di questo genere. Non molti sanno che già in tempi lontani, alla vigilia del tentativo del «golpe bianco» di Edgardo Sogno, Moro, il 4 agosto 1974, secondo la testimonianza della figlia Maria Fida, per raggiungere la famiglia a Bellamonte, avrebbe dovuto viaggiare sul treno Italicus (che poche ore dopo sarebbe stato colpito da un sanguinoso attentato organizzato da gruppi neofascisti toscani e servizi segreti deviati), da cui tuttavia, incredibilmente, poco prima che partisse, venne fatto scendere, grazie all’intervento di alcuni collaboratori.21 22 23
Perché il governo italiano non era tenuto al corrente di queste informazioni sensibili che lo riguardavano? Per conto di chi operavano gli apparati dei servizi segreti deviati?
Galloni sostenne anche che vi furono parecchie difficoltà a mettersi in contatto con i servizi segreti statunitensi durante i giorni del rapimento. Pecorelli 15 marzo 1978 scrisse: «Sarebbe accaduto un fatto molto grave in Italia: Moro doveva essere rapito il giorno prima«.18 Giovanni Galloni dichiarò: «L’assassinio di Pecorelli potrebbe essere stato determinato dalle cose che il giornalista era in grado di rivelare«.18 Perché ancora oggi, dopo 41 anni ancora non si è giunti alla verità riguardo l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli? Cosa sapeva Pecorelli di così destabilizzante e pericoloso da giustificarne l’omicidio e i successivi depistaggi?
Lo stesso Galloni in seguito effettuò dichiarazioni simili, durante un’audizione alla Commissione Stragi il 22 luglio 1998, in cui affermò anche che durante un suo viaggio negli Stati Uniti avvenuto nel 1976 gli era stato fatto presente che, per motivi strategici (il timore di perdere le basi militari su suolo italiano, che erano la prima linea di difesa in caso di invasione dell’Europa da parte sovietica) gli Stati Uniti erano contrari ad un governo aperto ai comunisti come quello a cui puntava Moro.18

Giovanni Galloni
8) Nel settembre 1974, una settimana prima del viaggio ufficiale del presidente della Repubblica Giovanni Leone e dell’allora ministro degli esteri Aldo Moro negli Stati Uniti, su consiglio di Kissinger, il presidente Gerald Ford ammise che il suo governo era intervenuto tra il 1970 ed il 1973, per rovesciare il legittimo presidente Salvador Allende in Cile: «Abbiamo fatto ciò che gli Stati Uniti fanno per difendere i loro interessi all’estero«.24
Lo stesso Kissinger tornò sopra l’argomento tre giorni dopo l’arrivo della delegazione italiana: «Ci rimproverate per il Cile. Ci rimproverereste ancora più duramente se non facessimo nulla per impedire l’arrivo dei comunisti al potere in Italia o in altri paesi dell’occidente europeo«.25
Al ritorno da quel viaggio, Moro apparve profondamente turbato: infatti comunicò al suo collaboratore Corrado Guerzoni, la volontà di ritirarsi dall’attività politica per due o tre anni, e confidò alla moglie Eleonora il motivo principale della sua preoccupazione: «E’ una delle pochissime volte in cui mio marito mi ha riferito con precisione che cosa gli avevano detto. Adesso provo a ripeterla come la ricordo: «Onorevole (detto in lingua inglese naturalmente), Lei deve smettere di perseguire il suo piano politico per portare tutte le forze del suo Paese a collaborare direttamente. Qui, o Lei smette di fare questa cosa, o Lei la pagherà cara. Veda Lei come la vuole intendere». E’ una frase che mi fece molta impressione. Sono rimasta a meditarci a lungo, da allora in poi».26
La domanda da porsi è la seguente: è normale oppure addirittura giuridicamente legale pronunciare una così evidente minaccia? E’ molto distante da una minaccia di stampo mafioso? Quale diritto divino possedeva il segretario di Stato Kissinger nel rivolgersi in questi termini a un Ministro della Repubblica Italiana? Perché Kissinger (che è ancora in vita) non è stato mai ascoltato da un tribunale italiano o dalle commissioni d’inchiesta parlamentari sul caso Moro?

Henry Kissinger e Aldo Moro
9) Tra i protagonisti politici dell’epoca è stato il socialista Claudio Signorile a sostenere che, nei giorni precedenti l’uccisione di Moro, le Brigate Rosse stessero attuando un cambiamento di strategia, causato da pressioni di servizi segreti stranieri.27 Perché non si è andati a fondo riguardo questa dichiarazione?

Claudio Signorile
10) Agli atti delle Commissioni d’inchieste parlamentari si trovano numerose richieste del caposcorta di Moro per la concessione di una vettura blindata. L’ultima commissione stragi il 6 dicembre 2017 ammetterà che sarebbe bastata un’auto blindata per impedire il rapimento. In effetti, il 18 febbraio 1978 (meno di un mese prima dell’attentato) il colonnello del SISMI (ex servizi segreti militari italiani) Stefano Giovannone, nome in codice «Maestro» riferì che il suo «abituale interlocutore Habbash» a Beirut, rappresentante del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, gli parlò di una operazione terroristica di notevole portata che stava per accadere in Italia. La segnalazione da Beirut con intestazione «Ufficio R, reparto D, 1626 segreto«, «fonte 2000» è agli atti della commissione stragi.28
Come mai addirittura un membro del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina che viveva a Beirut era a conoscenza di un imminente attentato in Italia? A chi riferì all’epoca la notizia il colonnello dei servizi segreti italiani Stefano Giovannone?
11) Ma la «premonizione» che colpisce ancora maggiormente è quella effettuata da Renzo Rossellini, il figlio del celebre regista Roberto Rossellini. Renzo Rossellini nel periodo del rapimento Moro era il direttore di Radio Città Futura. La mattina del 16 marzo 1978, con circa 45 minuti di anticipo rispetto all’agguato di Via Fani, durante la consueta rassegna stampa, comunicò la notizia che c’era appena stato un attentato all’onorevole Moro.29 30 31
Questo che segue è un estratto dell’intervista di Fabrizio Corallo e Malcom Pagani a Renzo Rossellini per «Il Fatto Quotidiano».32
Corallo e Pagani: «Nel 1975 lei aveva fondato Radio Città Futura. La mattina del 16 marzo 1978, con 45 minuti d’anticipo sul rapimento Moro, diede dai microfoni la notizia di un evento clamoroso che di lì a poco avrebbe occupato ogni singolo notiziario«.
Renzo Rossellini: «Della Commissione Moro, per quante volte sono stato convocato, dovrei essere socio onorario. Le commissioni hanno lavorato, scavato e indagato, ma quando si sono trovate vicine alla verità sono fuggite nella direzione opposta«.
Corallo e Pagani: «Tornando alla sua preveggenza del 16 marzo?«
Renzo Rossellini: «Non fu preveggenza, né come ipotizzarono altri, una soffiata. Fu semplice analisi. Quella mattina, con il giuramento di Moro, il compromesso storico sarebbe diventato una realtà. C’era qualcuno che voleva impedirlo perché tagliare il ramo su cui era seduto Moro avrebbe fatto cadere in poco tempo anche tutti gli altri. Al microfono dissi che non c’era giorno più pericoloso e adatto di quello per assistere a un clamoroso atto di provocazione delle Brigate Rosse o dei Servizi«.
Corallo e Pagani: «Del caso Moro si sono occupati decine e decine di analisti, scrittori, registi e intellettuali. Che idea si è fatta a quasi 40 anni dalla morte del politico della DC?«
Renzo Rossellini: «Che le Brigate Rosse fossero infiltrate ed etero dirette. C’erano i servizi dietro a Moro e l’attentato di Via Fani, fu un’operazione militare in cui furono sparati più di 100 colpi in pochi secondi per uccidere tutti gli uomini della scorta e lasciare incolume solo il presidente della Democrazia Cristiana. Non poteva non essere stata preparata per mesi«.
Corallo e Pagani: «A suo parere avvenne veramente?»
Renzo Rossellini: «Eccome. I terroristi si prepararono con i servizi cechi a Karlovy Vary. Ricostruirono la strada in un teatro di posa, studiarono le angolazioni di tiro, le possibilità di fuga, ogni dettaglio«.
Corallo e Pagani: «Qualcuno avrebbe potuto salvarlo?«
Renzo Rossellini: «Qualcuno, forse anche dentro le Brigate Rosso, subiva il fascino di Moro. Maccari lo chiamava «Presidente». Ma non credo che il parere o l’iniziativa di un singolo potessero cambiare le cose. Si era deciso che dovesse morire. Conveniva a troppe persone, a troppi servizi segreti, a troppi equilibri geopolitici«.
Dopo aver letto questa intervista diventa opportuno chiedersi: cosa intende Renzo Rossellini quando afferma che le commissioni parlamentari hanno lavorato, scavato e indagato, ma quando si sono trovate vicine alla verità sono fuggite nella direzione opposta? Nel 1978 si era in piena Guerra Fredda, ma nel corso degli anni la verità non è mai venuta fuori. Esistono ancora logiche di dinamiche geopolitiche alle quali rispondere?

In alto a sx Renzo Rossellini
12) La direzione di fuoco. I terroristi diranno sempre che il gruppo di fuoco sbucò da dietro le siepi del «Bar Pasticceria Olivetti» attaccando le due auto del presidente della Democrazia Cristiana dal loro fianco sinistro, all’incrocio fra via Fani e via Stresa. Ma l’agente di scorta Raffaele Iozzino uscì dall’auto sul lato destro e fu ucciso da sei colpi provenienti sempre dal lato destro della strada.28 Chi fu a sparare allora? Chi era in grado di sparare con tale precisione senza correre il rischio di colpire Aldo Moro? Certamente una banda di normali brigatisti, non sarebbe mai stata in grado di compiere un azione tipica da commandos delle forze speciali e che richiede un’elevata preparazione militare specifica. Infatti, 26 anni dopo, in un’intervista, il fondatore delle Brigate Rosse, Alberto Franceschini disse: «Un’operazione di grande portata come quella del sequestro Moro non la fai se non hai qualcuno alle spalle che ti protegge. Ai miei tempi, noi militarmente eravamo impreparati. Io conosco quelli che hanno portato a compimento l’operazione: gli unici ad avere un minimo addestramento potevano essere Morucci e Moretti, ma non certamente in grado di effettuare quell’assalto. Secondo me c’era una situazione generale di protezione, un contesto di cui erano consapevoli solo uno o due dell’intero commando. Inoltre nel sequestro Moro furono utilizzate tecniche che non avevano assolutamente nulla a che fare col nostro tipo di azione«.28 Perché questo aspetto determinante non fu mai approfondito?
13) Gli assalitori presenti in Via Fani erano vestiti da personale di volo Alitalia. Dalle siepi del bar Olivetti sbucarono quattro uomini vestiti con finte uniformi Alitalia. Dalle ricostruzioni giudiziarie i travestiti erano i brigatisti Morucci, Fiore, Gallinari e Bonisioli. Sarebbero stati loro ad aprire il fuoco con mitragliatrici e pistole. Le uniformi furono viste da diversi testimoni e uno dei terroristi perse pure il berretto lasciandolo a terra.
Armida Chamoun, residente in Via Gradoli N. 96 — dove si scoprirà il covo delle Brigate Rosse, testimonierà al magistrato Antonia Giammaria che in quell’appartamento in quei giorni c’era anche un uomo biondo «con gli occhi di ghiaccio«. La mattina del 16 marzo 1978 lo vede uscire vestito con l’uniforme dell’Alitalia. Nessuno dei brigatisti arrestati ha i capelli biondi e gli occhi azzurri.28 Chi era questo aviere biondo?
14) Ne manca almeno uno. Moretti affermò di essere stato da solo sulla Fiat 128 che tagliò la strada alle auto di Moro, ma poche ore dopo l’agguato il testimone Alessandro Marini dichiarò alla Polizia di aver visto un secondo uomo scendere dal sedile del passeggero della Fiat 128 e fare fuoco sulla Fiat 130 di Moro dalla parte destra, cioè dalla parte opposta rispetto a quella dichiarata dai brigatisti. I periti incaricati, Jadevito, Ugolini e Lopez, nella perizia depositata il 19 gennaio 1979 scriveranno che le traiettorie dei proiettili dimostrano che a fare fuoco dalla parte dell’incrocio fra via Fani e via Stresa furono solo due killer, uno uscito dal lato sinistro ed uno da quello destro della 128 usata per bloccare le auto del presidente.28 Chi erano questi due terroristi che apparentemente i 4 brigatisti proteggono assumendosi addirittura la responsabilità degli omicidi? Perché non sono mai stati identificati?
15) I proiettili. In via Fani furono rinvenuti gli 89 bossoli dei brigatisti e i 2 esplosi in risposta dall’agente Iozzino. Furono uccisi tutti i membri della scorta ma Moro, al centro della scena rimase miracolosamente illeso, neanche un graffio. A questo proposito è utile osservare che, secondo il perito balistico professor Antonio Ugolini (perizia messa agli atti nel primo processo Moro), i bossoli ritrovati in via Fani risultavano provenire da proiettili in dotazione esclusiva di forze statali non convenzionali.27 In seguito si scopri che le munizioni, con un trattamento superficiale protettivo e senza matricola, provenivano da un arsenale militare della NATO come quelli in dotazione a Gladio.28 Se furono i brigatisti a sparare, chi fornì loro i proiettili? Se invece fu un commando paramilitare addestrato, di chi era composto?
16) Il Bar Olivetti. Nel 2015 alcuni testimoni dichiareranno che il bar non è affatto chiuso quel giorno, come invece hanno assunto tutte le indagini nel corso dei 37 anni successivi. Alcuni testi giurano di aver preso il caffè o di aver usato il telefono proprio nella mattina del 16 marzo 1978.
Che il bar fosse aperto o meno non è ovviamente indifferente per la ricostruzione dell’agguato, ma su questo punto sono state raccolte dichiarazioni di segno diverso. Nel luglio 2015 la Commissione ha ascoltato l’attore Francesco Pannofino, che all’epoca abitava con la famiglia in via Fani e quel giorno, mentre andava all’università, aveva notato la saracinesca del locale abbassata. Secondo quanto ricordato dal testimone, il bar Olivetti era in piena attività: Pannofino, al tempo cliente abituale, attribuì quella chiusura al riposo settimanale. Le sue dichiarazioni trovano parziale riscontro nelle testimonianze dei giornalisti RAI Diego Cimara e Alessandro Bianchi: Cimara riferì che, arrivato in via Fani poco dopo l’attentato, era entrato nel bar Olivetti per telefonare in redazione e lì aveva incrociato Bianchi che usciva dopo aver preso il caffè. Nella sua deposizione, Cimara ha descritto con estrema precisione alcune delle persone che quella mattina sarebbero state all’interno del locale: due baristi (uno alla cassa e uno al bancone), due giornalisti (uno dell’ANSA e uno del Messaggero) e soprattutto tre persone con divise dell’aeronautica, che dall’aspetto potevano sembrare del nord Europa ed essere di lingua tedesca. Cimara ha anche riferito della presenza all’interno del bar di uomini delle forze dell’ordine che, a un certo punto, abbassando la saracinesca del locale, lo avrebbero invitato risolutamente a uscire.33
La testimonianza di Cimara è molto precisa, ma lui stesso ha invitato la Commissione a prenderla con le pinze per il gran tempo trascorso dai fatti. La testimonianza dell’altro giornalista RAI, Alessandro Bianchi, conferma sostanzialmente i tratti salienti della versione del collega, pur collocando diversamente alcuni particolari (i tedeschi in uniforme sarebbero stati due e non tre, fuori dal bar e non dentro).33 Perizie telefoniche e sui macchinari del bar avrebbero potuto verificare le testimonianze. Perquisizioni e sopralluoghi tecnici e scientifici all’interno del bar avrebbero potuto fornire elementi maggiori. Sono state effettuati? In caso positivo qual è stato l’esito? In caso negativo, perché non sono state effettuati?
La possibilità che il bar sia aperto al pubblico il 16 marzo 1978 — nonostante fosse giuridicamente in liquidazione — introduce altri dubbi sulla dinamica dell’agguato descritta dai brigatisti. Questi sostennero di aver atteso l’arrivo delle auto di Moro nascosti dietro le fioriere prospicienti il bar. Ma le fioriere possono offrire un riparo poco efficace a più persone destinate ad aspettare per un lasso di tempo non trascurabile, tanto più se vestite da personale Alitalia, con borse contenenti diverse armi e – soprattutto – avendo alle spalle le vetrine di un bar affollato. A tal proposito è interessante una dichiarazione rilasciata dal Pubblico Ministero Giancarlo Amati il 28 settembre 2016 alla Commissione d’Inchiesta parlamentare sul caso Moro: «Se il bar fosse stato aperto, allora io ci vedrei un possibile coinvolgimento di Olivetti, che non è del tutto da escludere, perché, secondo me, il bar era aperto. Non mi venite a raccontare che 12 persone, con tutte le armi che si portavano appresso, si vanno a nascondere – e nessuno se ne accorge – dietro le fioriere. Io la ritengo una cosa veramente campata in aria«.34
Occorre precisare che in tutte le immagini scattate da media e forze dell’ordine dopo l’attentato, il Bar Olivetti ha le saracinesche abbassate, ma anche se fosse stato aperto precedentemente, il fatto che abbia chiuso immediatamente dopo l’attentato può risultare normale.
Chi è in realtà il proprietario del Bar Olivetti. Che legami aveva? Tullio Olivetti, proprietario del bar, era già noto alla magistratura. Accusato di traffico internazionale di armi, rapporti con la criminalità organizzata, con la mafia e riciclaggio di 8 milioni di marchi tedeschi provenienti da un sequestro di persona in Germania, è l’unico a uscire pulito da tutte le indagini. La Commissione Moro scrive «che la sua posizione sembrerebbe essere stata ‘preservata’ dagli inquirenti e che egli possa avere agito per conto di apparati istituzionali ovvero avere prestato collaborazione«. Nella relazione si aggiunge che la sua posizione «impone ulteriori accertamenti sull’ipotesi che fosse un appartenente o un collaboratore di ancora non meglio definiti ambienti istituzionali; sarebbe, infatti, circostanza di assoluto rilievo verificare un’eventuale relazione tra i servizi segreti e Tullio Olivetti, titolare del bar di via Fani N. 109«.28 Questi ulteriori accertamenti sono stati effettuati? In caso positivo qual è stato l’esito? In caso negativo, perché non sono state effettuati? Perché il nome di Tullio Olivetti è stato rimosso da un’indagine sul traffico internazionale di armi, come confermato dal pubblico ministero titolare dell’inchiesta, il PM Giancarlo Armati?35
17) La Austin Morris nel posto giusto. Proprio all’incrocio, a soli sei metri dallo stop e a ben 80 cm dal marciapiede destro (quindi appositamente posizionata in questo modo), era parcheggiata un’unica autovettura, una Austin Morris targata «RM T50354», la quale aveva il compito di ingombrare la strada in quel preciso punto. Il brigatista Morucci al processo ha sempre dichiarato che la presenza della Austin Morris in Via Fani era del tutto casuale, ma che fu decisiva nella riuscita dell’agguato. Le indagini svolte riguardo l’accertamento del proprietario dell’autovettura permisero di appurare che l’autovettura targata «RM T50354» era stata acquistata un mese prima dalla società immobiliare «Poggio delle Rose» con sede a Roma in Piazza della Libertà N 10. Ora la questione si fa molto interessante: nello stesso stabile di Piazza della Libertà N. 10 si trovava anche l’Immobiliare Gradoli SpA, proprietaria di alcuni appartamenti in via Gradoli N. 96 (indirizzo nel quale abitavano i brigatisti Mario Moretti e Barbara Balzerani) intestati a fiduciari del SISDE (Servizio per le Informazioni e la Sicurezza Democratica), un’ex servizio segreto italiano. La presenza «casuale» della Austin Morris risultò decisiva anche per coprire chi sparò da destra almeno due raffiche dirette contro l’Alfetta e quindi dalla parte opposta rispetto a quanto sempre dichiarato dai brigatisti.28 Ora, è lecito dubitare che l’Austin Martin non fosse parcheggiata lì casualmente? Perché non risultano mai essere stati effettuate analisi scientifiche sull’autovettura?

Austin Morris in via Fani

Austin Morris in via Fani
17) L’ingegner Alessandro Marini il giorno e nell’ora dell’agguato dichiarò di essere su un motorino «Boxer» della Piaggio fermo all’incrocio fra via Fani e via Stresa. In sede giudiziaria dichiarò di essere stato fermato da due giovani su una moto Honda blu. Dichiarò che l’uomo seduto nella parte posteriore del sedile della moto gli sparò una raffica di mitra ma che non lo colpì in quanto in quel momento cadde a terra con il suo motorino. La moto si allontanò immediatamente e all’uomo che sparò cadde un caricatore. Tre testimoni confermarono le sue parole. L’ingegnere segnalò l’episodio solo pochi minuti dopo la strage consegnando lo stesso caricatore caduto al passeggero della moto. A terra, quindi, rimasero anche i bossoli di questa mitraglietta.28 Le domande da porsi in questa circostanza sono: perchè quest’arma non è stata più ritrovata? Chi l’aveva utilizzata? Chi erano questi due uomini sulla moto?
18) La Commissione d’Inchiesta parlamentare sul caso Moro nel 2015 ascolterà due testimoni oculari, mai sentiti in precedenza. Giovanni De Chiara, il quale abitava in via Fani N. 106 e che vide allontanarsi a sinistra, su via Stresa, una motocicletta con a bordo due persone, delle quali una aveva appena sparato verso qualcuno. Eleonora Guglielmo, all’epoca dei fatti «ragazza alla pari» presso l’abitazione di De Chiara, la quale dichiarò di aver udito le grida «achtung, achtung» («attenzione, attenzione» in tedesco) e allo stesso tempo vide una motocicletta di grossa cilindrata con due persone in sella che partì improvvisamente seguendo un’auto sulla quale era stato spinto a forza un uomo, dirigendosi da via Fani in direzione opposta verso via Stresa.28 Ripetiamo l’ultima domanda precedentemente espressa: Chi erano questi due uomini sulla moto? Perché hanno urlato «attenzione, attenzione» in tedesco?
19) Mentre all’incrocio si scatenò la sparatoria, il tratto precedente di Via Fani era presidiato dai brigatisti Casimirri e Lojacono. Si trovavano, quindi, proprio nei pressi della misteriosa Honda. Alessio Casimirri dopo l’agguato portò le armi a Raimondo Etro perché le nascondesse e le custodisse. A tutt’oggi solo Etro, fra tutti gli ex brigatisti, ha ammesso la presenza della moto. Tutti gli altri l’hanno sempre negata. Mentre consegnava le armi, proprio Casimirri gli parlò di due persone su una moto che non erano previste, definendoli «due cretini«. Quindi chi potrebbe conoscere il segreto della misteriosa moto Honda è proprio Casimirri, che però non è stato mai arrestato, è vivo e vegeto ed è latitante dal 1982 in Nicaragua, dove ha ottenuto la cittadinanza nicaraguense. La commissione Moro recupererà un documento del 1982 da cui risulta che Casimirri fu fermato dai carabinieri, ma stranamente rilasciato. Lo stesso suo amico, il brigatista Raimondo Etro, dichiarò i suoi sospetti riguardo il fatto che la fuga di Alessio Casimirri sia stata favorita dai servizi segreti.28 Quindi, chi agevolò la fuga di Casimirri e perché? Alessio Casimirri è a conoscenza di qualcosa di diverso rispetto agli altri brigatisti?

Alessio Casimirri
20) La ‘ndrangheta calabrese. Il primo a parlare di complici esterni fu un super pentito della ‘ndrangheta, Saverio Morabito, arrestato in Lombardia nei primi anni Novanta. Le sue confessioni permisero al Pubblico Ministero milanese Alberto Nobili e alla Direzione Investigativa Antimafia di ottenere più di cento condanne nel maxi-processo «Nord-Sud». Morabito, giudicato nelle sentenze «di assoluta attendibilità», rivelò che un mafioso importante, Antonio Nirta, negli anni Settanta aveva legami inconfessabili con un alto ufficiale dei carabinieri di origine calabrese, Francesco Delfino, poi diventato generale dei servizi segreti italiani. Il pentito ne parlerà con paura e aggiungerà che il suo capo, Domenico Papalia, gli avrebbe rivelato che «Nirta fu uno degli esecutori materiali del sequestro Moro«: un segreto di mafia confermatogli anche dal boss Francesco Sergi.28 36 Che ruolo ebbe quindi l’ndrangheta calabrese in una vicenda di carattere strettamente geopolitico?
Avendo sentito gli spari sotto casa sua la mattina del 16 marzo 1978, Gherardo Nucci, un giornalista di ASCA (Askanews), si affacciò dalla sua terrazza in via Fani N. 109 (sopra il Bar Olivetti) e rendendosi conto dell’accaduto prese la macchina fotografica e scattò dodici foto della scena.
La ‘ndrangheta si mostrò molto interessata alle foto scattate da Nucci. Ecco uno stralcio delle intercettazioni telefoniche effettuate sul telefono di Sereno Freato, l’ex capo della segreteria di Aldo Moro, in contatto con l’On. Benito Cazora, incaricato dalla Democrazia Cristiana di tenere i rapporti con la malavita calabrese per cercare di avere notizie sulla prigione di Moro.17
Benito Cazora: «Un’altra questione, non so se posso dirtelo«
Sereno Freato: «Si, si, capiamo«
Benito Cazora: «Mi servono le foto del 16, del 16 marzo«
Sereno Freato: «Quelle del posto, lì?«
Benito Cazora: «Si, perchè loro… [nastro parzialmente cancellato]…perché uno stia proprio lì, mi è stato comunicato da giù«
Sereno Freato: «E’ che non ci sono… ah, le foto di quelli, dei nove«
Benito Cazora: «No, no! Dalla Calabria mi hanno telefonato per avvertire che in una foto presa sul posto quella mattina lì, si individua un personaggio noto a loro«
Sereno Freato: «Capito. E’ un po’ un problema adesso«
Benito Cazora: «Per questo ieri sera ti avevo telefonato. Come si può fare?«
Sereno Freato: «Bisogna richiedere un momento, sentire«
Benito Cazora: «Dire al ministro«
Sereno Freato: «Saran tante!«28
Sapete come andò a finire? Detto, fatto. Foto sparite. La ‘ndrangheta poteva stare tranquilla.
Ma c’erano altre foto. Le foto di Gualerzi. A metà di via Stresa e a 50 metri dall’incrocio con Via Fani, si affacciava il negozio dell’ottico Gennaro Gualerzi. Costui dopo aver udito gli spari, prese anche lui una macchina fotografica ed uscì di corsa scattando 11 fotografie entro le 09:15. L’esistenza delle foto fu indicata per la prima volta in un rapporto del Nucleo Operativo dei Carabinieri di Via Trionfale agli atti della Prima Commissione Moro. Queste foto sparirono e una copia di una foto fu ritrovata solo recentemente, a Perugia nel maggio 2017. Tra le foto di Gualerzi compare Giustino De Vuono detto lo «scotennato». In un’altra foto di Gualerzi spunta — proprio davanti al Bar Olivetti — un altro noto mafioso: Antonio Nirta, detto «due nasi».28 36
Antonio Nirta, intervistato durante un processo dal giornalista di «L’Espresso» Paolo Biondani sul ruolo dell»ndrangheta sul caso Moro dichiarò: «Cosa volete da noi? In Italia comandano gli americani!«. Il generale dei servi segreti italiani Francesco Delfino, che dopo il caso Moro lavorò alla NATO e poi a New York, era soprannominato proprio «l’americano«. Purtroppo il generale Delfino è morto il 2 settembre 2014, portando con sé tutti i suoi segreti.36 Domande: cosa ci faceva quella mattina in via Fani un noto boss dell’ndrangheta, amico del generale dei servizi segreti italiani? Era lì per caso? Oppure per conto di chi? Cosa sottintende più nel dettaglio Nirta quando afferma che in Italia comandano gli americani?
21) Prigionia. Il brigatista Mario Moretti in ogni processo ha sempre dichiarato che durante la prigionia, Aldo Moro fu sempre rinchiuso nell’appartamento di via Montalcini N. 8. Appartamento al piano terra, interno N. 1, della consistenza di 100 mq completo di giardino, garage e cantina di proprietà. L’appartamento fu formalmente acquistato nel 1975 dai coniugi Altobelli, ma in realtà si trattava di due brigatisti con documenti falsi: Anna Laura Braghetti e Germano Maccari, i quali acquistarono l’appartamento pagandolo 50 milioni in contanti, soldi forniti loro proprio da Moretti. Secondo tutti i brigatisti, Aldo Moro fu rinchiuso ininterrottamente dal 16 marzo al 9 maggio 1978 in un cubicolo delle dimensioni di 2,80 m per 1 m separato dallo studio con una parete insonorizzata e accessibile da una libreria che ruotava su un cardine (i lavori di cui parlava il generale Bozzo, ricordate ne abbiamo parlato all’inizio dell’articolo). Moretti ha sempre sostenuto che Moro «scriveva su dei cuscini posti sulle ginocchia» Per le pulizie personali, quando occorreva gli portavamo dei catini. Non ha mai camminato. Si alzava, si sgranchiva le gambe, ma non si mosse da lì dentro«.17 28 L’autopsia accertò l’assoluta assenza di atrofizzazione degli arti inferiori e che il corpo di Moro era in una condizione di igiene assoluta, che mal si conciliava con l’affermazione di Moretti circa i catini che gli sarebbero stati concessi per le sue pulizie personali. Il SISDE, nel luglio 1979, con registrazione ambientale di una conversazione tra due brigatisti detenuti nel carcere dell’Asinara, ascoltò queste parole: «Moro ha ottenuto sempre tutto quello di cui aveva bisogno: si lavava anche quattro volte al giorno, si faceva la doccia, mangiava bene, se voleva scrivere scriveva. E’ stato trattato come un signore«.17 28 Il risultato dell’autopsia e questa intercettazione smentiscono le dichiarazioni di Moretti. Allora, dove fu realmente detenuto Aldo Moro?
Una perizia sul presidente della Democrazia Cristiana dimostrò che è stato tenuto prigioniero in almeno due posti diversi. Si tratta dei risultati di una perizia scientifica realizzata sui reperti sabbiosi rinvenuti sugli indumenti di Moro e sulle ruote della Renault rossa dove fu trovato il corpo. Moretti sostenne che questi reperti furono collocati nei vestiti e nelle scarpe di Moro allo scopo di depistare le indagini. Appare poco credibile che in pieno sequestro, con una città assediata e centinaia di posti di blocco, la Faranda e la Balzerani siano andate a raccogliere sulle spiagge del litorale laziale sabbia, catrame, parti di piante da mettere sui vestiti e sotto le scarpe di Aldo Moro, per precostituire un depistaggio che acquisterà validità solo dopo il ritrovamento del cadavere.17 A tal punto è lecito porsi una domanda: E’ possibile che Moretti con le sue dichiarazioni, abbia cercato in realtà di proteggere qualcuno che non è mai emerso nella storia processuale del caso Moro?
22) Via Monte Nevoso, Milano. Il 1 ottobre 1978, cinque mesi dopo la morte di Aldo Moro, i carabinieri del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa pedinarono il brigatista Lauro Azzolini e trovarono il covo di Via Monte Nevoso e vi scoprirono alcune pagine del memoriale di Moro con le trascrizioni degli interrogatori al quale era sottoposto. Il covo fu perquisito per cinque giorni e vi furono posti i sigilli. Il Senatore Sergio Flamigni, parlando in carcere con Azzolini e Bonisoli, venne a sapere che nel covo avrebbe dovuto trovarsi la trascrizione completa degli interrogatori. Nel 1986 e nel 1988 Flamigni chiese al magistrato competente Ferdinando Pomarici di riaprire il covo e cercare meglio, ma fu rassicurato sul fatto che il covo era stato «scarnificato».17
Le carte di Moro ritrovate durante il blitz a Via Monte Nevoso furono prelevate e fotocopiate prima della verbalizzazione da parte della Magistratura e poi riportate nel covo, per essere consegnate la sera stessa al generale Dalla Chiesa. La seconda sezione civile della Corte d’Appello del Tribunale di Milano, stabilì che il colonnello Umberto Bonaventura del SISDE (servizi segreti militari) entrò nel covo durante la perquisizione e portò via le carte, restituendole dopo qualche ora, visibilmente assottigliate.17
Di nuovo in via Monte Nevoso. Il 9 ottobre 1990 il proprietario dell’appartamento incaricò un muratore di ristrutturarlo. Si scoprì che i sigilli posti nel 1978 erano stati rotti. Il muratore tolse sotto una finestra quattro chiodi e un pannello di cartongesso e scoprì un vano contenente un mitra «Tokarev» avvolto in un giornale del 1978, 60 milioni di lire in contanti, pistole, detonatori e 229 pagine fotocopiate del memoriale Moro. Ma mancano ancora diverse pagine, fino ad ora mai ritrovate.17 Cosa contengono quelle pagine, che ancora a distanza di più di cinquant’anni è necessario occultare?
23) Hyperion. Il primo a parlare di una centrale eversiva a Parigi fu Giulio Andreotti su «Il Mondo» nel 1974: «Sono tutt’ora convinto che una centrale fondamentale, che dirige l’attività dei sequestri politici per finanziare i piani d’eversione e che coordina lo sviluppo terroristico su scala anche europea, si trova a Parigi«.17
Proprio in quell’anno si sfaldò il gruppo estremista guidato da Duccio Berio, Vanni Mulinaris, Corrado Simioni, Renato Curcio, Alberto Franceschini e Mario Moretti. Gli ultimi tre entrarono a fare parte delle Brigate Rosse, mentre i primi tre si spostarono proprio a Parigi (la Francia riconosce facilmente lo status di rifugiato politico) e diedero vita alla scuola di lingue Hyperion (in Quai de la Tournelle, 27).17
Durante i 55 giorni di prigionia di Aldo Moro, l’Hyperion di Parigi era strettamente collegata con una scuola francese di lingue con sede a Roma in piazza Campitelli, a 150 metri da via Caetani, la via dove sarà rinvenuto il 9 maggio 1978 il corpo di Moro. Il mese precedente il sequestro Moro, Hyperion aveva aperto a Roma un ufficio di rappresentanza in via Nicotera 26 (nello stesso stabile dove si trovano alcune società coperte del SISMI, il servizio segreto militare italiano); lo stesso ufficio viene chiuso subito dopo il sequestro.17
L’ambiguo fondatore di Hyperion Corrado Simioni, non godeva della fiducia di molti estremisti per una serie di comportamenti ambigui culminati proprio con l’arresto di Curcio e Franceschini. Simioni, dopo essere stato espulso da Partito Socialista Italiano (PSI) nel 1965 per «condotta immorale», si trasferì a Monaco di Baviera ma nel 1967 ritornò a Milano dove lavorò per la Mondadori, ma anche per l’USIS (United States Information Service), diretta emanazione della CIA. La sede romana dell’USIS si trovava in via Caetani N. 32, quasi di fronte al punto in cui sarà parcheggiata la Renault rossa con il corpo di Moro.17
Fra le varie ambiguità che portarono il nucleo storico e moderato delle Brigate Rosse a dubitare di Simoni ci fu il fatto che nel settembre 1970, fu lui a fornire a Maria Elena Angeloni e Giorgio Christou Tsikouris l’esplosivo e il timer per compiere un attentato all’ambasciata degli Stati Uniti di Atene. L’ordigno però esplose anzitempo e i due attentatori morirono.17
Giovanni Pellegrino, presidente della Commissione Stragi per 7 anni, ha scritto: «Hyperion in realtà era il punto d’incontro tra i servizi segreti delle nazioni contrapposte nella Guerra Fredda, necessario nella logica di conservazione degli equilibri derivanti dagli accordi di Yalta«. 17 Hyperion quindi sarebbe stato un mezzo per azioni comuni contro eventuali sconvolgimenti dell’ordine stabilito a Yalta. Proprio la politica di apertura al Partito Comunista Italiano attuata da Moro, poteva considerarsi una minaccia degli stessi equilibri politici consolidatisi fino a quel momento.17
E’ piuttosto chiaro che dopo 42 anni l’Italia non ha ancora fatto i conti col proprio passato. La verità è ancora tutta da scrivere. Nel frattempo, il miglior ricordo è ancora oggi soltanto nelle parole che, nell’ora dell’addio, Aldo Moro scrisse alla moglie: «Bacia e carezza per me tutti, volto per volto, occhi per occhi, capelli per capelli. A ciascuno una mia immensa tenerezza che passa per le tue mani. Sii forte, mia dolcissima, in questa prova assurda e incomprensibile. Sono le vie del Signore. Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo«.
Nell’approssimarci alla parte finale di questo articolo, appare quindi piuttosto evidente che nonostante cinque processi e due commissioni d’inchiesta parlamentari, ancora oggi riguardo il caso Moro esista una verità «non dicibile» per le condizioni del contesto geopolitico. Come scritto all’inizio dell’articolo, non abbiamo le risposte agli interrogativi espressi, non abbiamo risposte alle domande ancora aperte su tutto ciò che non torna in relazione al caso Moro. Per ciascuno dei punti ancora oscuri ognuno ha diritto di immaginare e fornire la propria risposta, ben sapendo però che si tratta di un mero esercizio mentale e personale, essendo consci che le risposte derivanti dall’intuito personale non possono essere affatto supportate da alcuna prova valida e concreta.
Ma a parte tutte le domande espresse in questo articolo, ritengo sia ancora più opportuno interrogarsi sul fatto se è possibile che in fin dei conti esista nella realtà italiana il cosiddetto «Deep State», cioè lo «Stato Profondo», una struttura intermediaria che mira a manovrare la politica estera italiana consentendo all’Italia una sovranità limitata. Un’entità, questo Stato Occulto, capace di aver depistato ogni tipo di indagine, processuale e parlamentare, riguardo gli eventi più tragici della storia dell’Italia repubblicana, dal caso Moro per l’appunto, passando per Ustica, per le cosiddette stragi di stato e gli anni della strategia della tensione. Quindi la domanda principe dovrebbe essere: oltre allo Stato espressione del risultato elettorale, oltre allo Stato composto dalle varie forze politiche interne e dai loro rapporti, ne esiste uno più profondo che gestisce anche la collocazione internazionale dell’Italia con i relativi accordi istituzionali e le sue scelte geopolitiche?
Luca D’Agostini
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Fonti
(1) Joan Barth Urban, Moscow and the Italian Communist Party: From Togliatti to Berlinguer (Cornell University Press, Ithaca 1986
(2) Gianni Cervetti, L’Oro di Mosca: La Verità sui Finanziamenti Sovietici al PCI Raccontata dal Diretto Protagonista, Baldini & Castoldi, Milano 1993
(3) Valerio Rima, Oro da Mosca. I Finanziamenti Sovietici al PCI dalla Rivoluzione d’Ottobre al Crollo dell’URSS, Mondadori, Milano 1999
(4) Senato della Repubblica, Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi, Il terrorismo, le stragi ed il contesto storico politico. Redatta dal presidente della Commissione, Senatore Giovanni Pellegrino, Roma 1995, p. 20
(5) Panorama, 10 febbraio 1976
(6) Roberto Faenza, Gli americani in Italia, Editore Feltrinelli, Milano 1976, p. 10–13
(7) The Observer, 10 gennaio 1993
(8) Mario Coglitore, La Notte dei Gladiatori. Omissioni e silenzi della Repubblica, Calusca Edizioni, Padova 1992), p. 34
(9) The Observer, 18 novembre 1990
(10) Caso Moro
(11) Generale Bozzo
(12) Giovanni Fasanella, Claudio Sestieri, Giovanni Pellegrino, Segreti di Stato. La verità da Gladio al caso Moro, Einaudi, Torino 2000
(13) Caso Moro
(14) Steve Pieczenik
(15) Vedova Chichiarelli
(16) Emmanuel Amara, Abbiamo ucciso Aldo Moro. Dopo 30 anni un protagonista esce dall’ombra, Cooper, Roma 2008
(17) Morte di Aldo Moro
(18) Aldo Moro
(19) Giovanni Galloni, 30 anni con Moro, Editori Riuniti, Roma 2008
(20) Sergio Flamigni, Le idi di marzo. Il delitto Moro secondo Mino Pecorelli, Kaos Edizioni, Milano 2006
(21) Maria Fida Moro, La nebulosa del caso Moro, Selene Edizioni, Milano 2004
(22) Giovanni Fasanella, Antonella Grippo, I silenzi degli innocenti, BUR, Milano 2006
(23) Giorgio Bocca, Gli anni del terrorismo. Storia della violenza politica in Italia dal ’70 ad oggi, Armando Curcio Editore, Roma 1988
(24) Conferenza stampa di Gerald Ford, Washington, 17 settembre 1974
(25) New York Times, 27 settembre 1974
(26) Testimonianza di Eleonora Moro, 19 luglio 1982, in Commissione Moro, vol. LXXVII, Atti giudiziari 1a corte d’Assise di Roma interrogatori di imputati processo Moro e Moro-bis, udienza del 19 luglio 1982, Roma, Tipografia del Senato, 1993, pp. 51-52; il file dell’Archivio storico on-line del Senato risulta essere danneggiato; Commissione parlamentare di inchiesta, vol. V, pagg. 5-6
(27) Audizione dell’onorevole Claudio Signorile, 20 aprile 1999, in Commissione stragi, 13a legislatura, 51a seduta
(28) Rapimento Moro
(29) Audizione dell’onorevole Claudio Signorile, 20 aprile 1999, cit. a nota 131
(30) Audizione del dottor Franco Piperno, 18 maggio 2000, in Commissione Stragi, 13a leg., 68a seduta
(31) Audizione del dottor Lanfranco Pace, 3 maggio 2000, in Commissione Stragi, 13a leg., 67a seduta
(32) Renzo Rossellini
(33) Vice
(34) Giancarlo Armati, CPM2, Seduta del 28/09/2016, pag 7
(35) Seconda relazione Commissione Moro, dicembre 2016, pag 167
(36) Boss in via Fani
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