Purtroppo gli anni della Guerra Fredda in Italia sono stati caratterizzati dalla propaganda statunitense, interessata ad occultare agli italiani le malefatte combinate dai servizi segreti degli Stati Uniti, il tutto a favore di una narrazione storica falsa e stereotipata, stracolma di zone d’ombra fatte di stragi, di omicidi, di «incidenti» dolosi sempre privi di colpevoli, di persone scomparse nel nulla.
Adriano Olivetti nacque a Ivrea l’11 aprile 1901. Era il figlio di un imprenditore di religione ebraica, Camillo Olivetti, e di Luisa Revel, di religione valdese. Non ricevette alcuna educazione religiosa (anche se era riuscito a procurarsi un certificato di battesimo valdese per sfuggire alle leggi razziali fasciste); solo nel 1934, in vista del secondo matrimonio, si convertì al cattolicesimo.1
Nel 1925, dopo essersi laureato in chimica industriale, si recò negli Stati Uniti al seguito di Galileo Ferraris, lo scienziato che scoprì il campo magnetico rotante, in qualità di assistente e traduttore, tornando a Ivrea con le idee chiare: fondare la prima azienda italiana di macchine da scrivere. Così entrò nel 1926 nella fabbrica paterna ove, per volere di Camillo, fece le prime esperienze come operaio. Divenne direttore della società Olivetti nel 1932, anno in cui lanciò la prima macchina da scrivere portatile chiamata MP1, e divenne presidente della Olivetti nel 1938.2
Si oppose al regime fascista. L’antifascismo di Adriano Olivetti si era già espresso immediatamente dopo il ritrovamento del cadavere di Giacomo Matteotti nella manifestazione che promosse, insieme al padre, al teatro Giacosa di Ivrea nel 1924.
Partecipò con Carlo Rosselli, Ferruccio Parri, Sandro Pertini e altri alla liberazione di Filippo Turati.3 Con la famiglia Levi, Adriano fu tra i protagonisti della rocambolesca fuga: ospitato prima dai Levi nella loro casa di Torino, Turati raggiunse poi Ivrea. Fece tappa nella notte in casa di Giuseppe Pero, dirigente della Olivetti, per ripartire al mattino seguente in una macchina guidata da Adriano che raggiungerà Savona, dove li aspettava Sandro Pertini con cui l’esule si imbarcò per la Corsica per poi raggiungere la Francia e Parigi. Come abbia potuto Adriano Olivetti non essere coinvolto nell’inchiesta fascista che seguì alla fuga di Turati ancora oggi non è chiaro. Si possono formulare due ipotesi: una, che riguarda la fortuna o la superficialità delle indagini; l’altra, riguardante eventuali rilevanti appoggi in grado da avergli fatto evitare di essere indagato e poi condannato.
Dal 1931 la Questura di Aosta (dalla quale l’imprenditore necessitava la certificazione di appartenenza alla razza ariana a causa delle origini del padre ebreo) definì il giovane Adriano Olivetti come «sovversivo«.4 Adriano Olivetti venne poi nominato Direttore generale e, parallelamente all’assunzione di responsabilità nella fabbrica di Ivrea, decise per opportunità, di mostrare maggiore prudenza nei confronti del regime fascista. Quindi sposò Paola Levi, sorella di Gino, con rito civile.1 La moglie lo convinse a trasferire la casa da Ivrea a Milano, dove ebbe modo di entrare in contatto con l’intellighenzia che lo avvicinò in seguito all’architettura, all’urbanistica, alla psicologia e alla sociologia. Ebbe ancora problemi con il regime quando il fratello di Gino e Paola Levi, Mario (che lavorava alla Olivetti), fu fermato alla frontiera con la Svizzera con un’auto carica di manifesti e volantini del movimento politico «Giustizia e Libertà». Riuscì a fuggire, ma la conseguenza fu che Gino Levi e il padre furono arrestati, rimanendo per circa due mesi in carcere.
Per difendere il suocero e il cognato, Adriano Olivetti spese molto denaro. È quello il periodo in cui a Camillo Olivetti fu momentaneamente ritirato il passaporto.
Tuttavia i rapporti con il fascismo migliorarono negli anni Trenta, tanto che Adriano Olivetti chiese e ottenne la tessera del Partito Nazionale Fascista.1 Non solo, ma fu ricevuto da Mussolini a Palazzo Venezia dove Olivetti presentò il suo piano industriale al Duce.
Durante la guerra, Adriano Olivetti si impegnò attivamente contro il Fascismo; fu reclutato dai servizi segreti statunitensi e svolse un ruolo di collegamento tra questi ultimi e i capi della Resistenza italiana, finché nel 1943 fu imprigionato a Regina Coeli per opposizione al regime. Scarcerato dopo sei mesi, nel 1944 dovette fuggire in Svizzera lasciando in Italia il padre e la madre, che non sopravvissero alla guerra.5
Nel 1945, Adriano Olivetti ereditò interamente l’azienda di famiglia. Se per Camillo Olivetti la produzione in fabbrica doveva essere artigianale, il figlio Adriano trasformò invece l’azienda in un’industria con quarantamila dipendenti, capace di imporsi sui mercati internazionali e di acquisire, nel 1958, la «Underwood», colosso statunitense dell’informatica.5

Adriano Olivetti

Adriano Olivetti
La Olivetti iniziò a primeggiare nel nascente settore elettronico grazie all’idea di utilizzare i transistor nei circuiti elettrici – in precedenza, si usavano le giunzioni di silicio –, progetto sviluppato dal figlio Roberto e dall’ingegnere italo-cinese Mario Tchou.5
Negli anni successivi, militò nei partiti della sinistra italiana ma capì presto come questi non potessero a loro volta soddisfare le sue idee di riforma sociale. Nel 1958 fondò così il «Movimento Comunità», che si presentò alle elezioni politiche italiane. Olivetti si impegnò intensamente nella campagna elettorale e girò per tutta Italia, spendendo di tasca propria più di un miliardo di lire. Il risultato elettorale fu però alquanto deludente: prese solo trecentomila voti. Ciò bastò per fargli ottenere un seggio alla Camera dei Deputati.5
Alla ricerca di nuovi fondi presso banche svizzere per rilanciare la sua azienda, il 27 febbraio 1960 Adriano Olivetti prese alla stazione di Arona il treno che, attraversando il Passo del Sempione, avrebbe dovuto portarlo a Losanna. Dopo il confine svizzero, nei pressi di Aigle, fu colto da un’improvvisa emorragia cerebrale. I soccorsi furono inutili. Adriano Olivetti morì all’età di 59 anni. Molto stranamente non fu eseguita l’autopsia, lasciando ancora oggi molti dubbi sui modi della sua reale morte. Infatti, in seguito alla desecretazione di alcuni documenti della CIA, si scoprì che Adriano Olivetti era già da dieci anni sotto indagini da parte della CIA, i servizi segreti statunitensi.6
La mente visionaria di Adriano Olivetti, aveva immaginato e compreso il ruolo cruciale che avrebbe giocato l’informatica nei futuri destini dell’umanità e voleva che l’Italia ne diventasse la protagonista, ne tracciasse la via da seguire, in modo originale e indipendente. Olivetti non intendeva far dell’Italia una colonia tecnologica, ma edificare dall’interno della sua azienda la via italiana all’informatica. L’azienda non poteva rimanere estranea al più grande processo di innovazione industriale in corso e decise di creare un laboratorio elettronico ad Ivrea. Era sempre più convinto che l’elettronica costituisse un settore decisivo per lo sviluppo dell’umanità.7 Una visione, quella di Adriano Olivetti, che cozzava però con l’indirizzo strategico statunitense, deciso a mantenere per sé il monopolio dell’elettronica e il predominio nel nuovo campo dell’informatica che si andava aprendo. L’impresa di Olivetti era molto rischiosa per via delle condizioni geopolitiche di subordinazione agli Stati Uniti d’America in cui si trovava e si trova tuttora l’Italia.
Nove mesi dopo, il 9 novembre 1961, all’età di 37 anni morì anche l’ingegnere italo-cinese Mario Tchou e con lui svaniva definitivamente la possibilità, osteggiata dagli Stati Uniti d’America, di un’industria elettronica italiana, almeno momentaneamente superiore, a quella statunitense.
Mario Tchou era il capo del laboratorio di Pisa e della Divisione Elettronica dell’Olivetti, dedita principalmente a quell’epoca allo sviluppo del grande calcolatore «ELEA», che rappresentò il primo grande calcolatore al mondo, prima di quelli ideati della statunitense IBM. Mario Tchou morì in un incidente stradale sull’autostrada «Milano-Torino». Immediatamente in Olivetti vi fu la convinzione che fosse stato ucciso dai servizi segreti statunitensi.

Mario Tchou
Mario Tchou era il figlio di un funzionario cinese in servizio all’Ambasciata cinese presso il Vaticano. Si diplomò al liceo «Torquato Tasso» e si iscrisse alla facoltà d’ingegneria all’Università La Sapienza di Roma. Nel corso del terzo anno di studi si trasferì negli Stati Uniti, dove nel 1947 conseguì la laurea in ingegneria elettronica. Nel 1949 si sposò a New York con Mariangela Siracusa e poco dopo divenne professore d’ingegneria elettronica presso la Columbia University di New York e direttore del Marcellus Hartley Laboratory. Nel 1955, poco più che trentenne, conobbe Roberto Olivetti (figlio di Adriano) il quale lo convinse a lavorare al laboratorio di ricerca che l’azienda di Ivrea aveva a New Canaan, in Connecticut.8

Roberto Olivetti e Mario Tchou
Il giovane ingegnere italo-cinese rimase entusiasmato dai progetti dell’Olivetti e attratto dalla possibilità di lavorare per un’azienda della sua terra natia.
Adriano Olivetti riconobbe subito le sue potenzialità e convinse Mario Tchou a tornare in Italia, affidandogli la guida del Laboratorio di Ricerche Elettroniche Olivetti appena istituito a Barbaricina, presso Pisa, dove un gruppo di giovani e giovanissimi ricercatori aveva il compito di costruire un calcolatore di tipo commerciale. L’obiettivo era di fare dell’Olivetti un’impresa leader a livello mondiale nell’informatica e dell’Italia una nazione apripista e all’avanguardia in quel settore strategico.
Fu al Laboratorio di Ricerche Elettroniche Olivetti che le doti formidabili di Mario Tchou esplosero.
Ma Mario Tchou era consapevole dei grandi ostacoli che gli si ponevano innanzi, sia esterni che interni; quest’ultimi si concretizzavano in una forma di disinteresse organizzato da parte dello Stato italiano su tutto ciò che stava accadendo nel teatro della competizione scientifica internazionale nell’informatica. Infatti Tchou disse: «Attualmente, possiamo considerarci allo stesso livello dei concorrenti dal punto di vista qualitativo. Gli altri però ricevono aiuti enormi dallo stato. Gli Stati Uniti stanziano somme ingenti per le ricerche elettroniche, specialmente a scopi militari. Anche la Gran Bretagna spende milioni di sterline. Lo sforzo dell’Olivetti è molto notevole, ma gli altri hanno un futuro più sicuro del nostro, essendo aiutati dallo stato«.8
L’Olivetti non aveva infatti sostenitori nel mondo politico e neanche da parte dell’establishment di Confindustria (egemonizzato dalla FIAT degli Agnelli, strettamente legata al capitalismo statunitense e impaurita di perdere il predominio interno) e del mondo bancario italiano (egemonizzato dalla Mediobanca di Cuccia legata anch’essa al sistema finanziario angloamericano). La FIAT e Mediobanca erano tra l’altro, le due aziende che avevano ricevuto il maggior contributo di aiuto previsto da Piano Marshall.
Nel 1958 il Laboratorio di Ricerche Elettroniche Olivetti si trasferì a Borgolombardo, vicino a Milano. Sempre in quell’anno, nata dal genio della giovanissima squadra del Laboratorio guidata da Mario Tchou, vide la luce l’ELEA 9000, il primo calcolatore elettronico italiano tutto a transistor e che, nell’evoluzione ELEA 9003 del 1959, divenne il primo computer commerciale a transistor al mondo, ricco di innovazioni come la costruzione logico-sistemistica, il multitasking; una tecnologia da primato assoluto.8
Questo salto tecnologico in avanti che bruciava sul tempo gli altri concorrenti, tutti statunitensi, creò non pochi problemi nei rapporti tra Italia e Stati Uniti. I politici democristiani capirono perfettamente la delicatezza del caso; con l’entrata ufficiale nel campo dell’informatica, l’Italia diventava un paese industriale avversario degli Stati Uniti e rientrava nella lista di quei paesi con mezzi e conoscenze «sensibili». L’Olivetti rappresentava quindi un problema nei rapporti con gli Stati Uniti.
Ancora più lo era, se si presta attenzione al fatto che negli stessi anni l’Italia, Enrico Mattei stava attuando spregiudicate collaborazioni politico-economiche vantaggiose per l’Italia, con quei paesi che gli statunitensi consideravano ostili, dall’Unione Sovietica di Chruščëv, all’Egitto di Nasser, collaborazioni nel campo energetico ma nelle quali Mattei avrebbe potuto cercare di coinvolgere anche il settore informatico, magari raggiungendo pure la Cina cui il fondatore dell’ENI aveva già cominciato a stringere relazioni. Inoltre non dimentichiamo che il padre di Mario Tchou era un funzionario dell’ambasciata cinese. Tutto ciò, se fosse stato realizzato avrebbe potuto mettere a serio rischio il quadro delle alleanze in quel campo occidentale dominato dagli Stati Uniti.
L’Olivetti rappresentava quindi un «problema» più che serio. Adriano Olivetti lo era, come lo erano Mario Tchou ed Enrico Mattei. Ma mentre per quell'»incidente» aereo che a Bascapè, la sera del 27 ottobre 1962, mise traumaticamente termine alla vita del fondatore dell’ENI risulta definitivamente provata l’origine dolosa, attraverso le indagini giudiziarie condotte dal PM Vincenzo Calia, altrettanto non si può dire per le dinamiche relative alla morte di Adriano Olivetti e di Mario Tchou.8 Nel caso di Olivetti poi, non si spiega tra l’altro, perché su una morte così improvvisa e strana non sia stata disposta un’autopsia, a meno che, non sia stata disposta proprio perché si prese atto della delicata situazione di carattere geopolitico.
Le morti a distanza di 9 mesi una dall’altra, di Adriano Olivetti e Mario Tchou, rappresentarono un duro colpo per l’azienda che così tanto intimoriva gli ambienti industriali e politico-militari statunitensi e gli equilibri interni italiani.
Con la scusa delle difficoltà finanziarie in cui si sarebbe trovava l’azienda d’Ivrea, frutto dell’ostilità del mondo politico e finanziario italiano, si fece avanti un gruppo misto pubblico-privato, il cosiddetto «gruppo d’intervento», in cui a fianco della IMI e della Banca Centrale, comparivano la FIAT e Mediobanca, guarda caso le due aziende italiane che avevano maggiormente usufruito degli aiuti derivanti dal Piano Marshall. Tutti questi soggetti entrarono nel capitale Olivetti con intenzioni non certo benevole, tutt’altro. L’intenzione era quella di normalizzare l’anomalia di un’azienda che si era spinta troppo oltre. Emblematica in tal senso una tristemente famosa dichiarazione rilasciata nel 1964 da Vittorio Valletta, presidente della FIAT: «La società di Ivrea è strutturalmente solida e potrà superare senza grosse difficoltà il momento critico. Sul suo futuro pende però una minaccia, un neo da estirpare: l’essersi inserita nel settore elettronico, per il quale occorrono investimenti che nessuna azienda italiana può affrontare«.8
Quella «manina d’oltreoceano» che fu d’ispirazione al «gruppo d’intervento», uscì infine da dietro le quinte e si concretizzò nella forma di una grande azienda statunitense pronta ad acquisire l’Olivetti. La nuova società, che costituiva il ramo della ricerca scientifica, fu venduta per il 75% alla multinazionale statunitense General Electric.8
Mario Caglieris, tesoriere della Olivetti al tempo del «gruppo di intervento» ammise che vi furono effettivamente esplicite pressioni da parte di imprese statunitensi affinché si vendesse la Divisione Elettronica Olivetti e che l’Italia non potenziasse il suo sapere nel mercato dell’informatica.8
Lorenzo Soria, nel suo libro «Informatica: un’occasione perduta. La divisione elettronica dell’Olivetti nei primi anni del centrosinistra», conclude così: «Sono convinto che il nodo da sciogliere sia un nodo politico. E che sia questo il motivo per cui il progetto di Adriano Olivetti ha fatto la fine che ha fatto e con il passare degli anni la situazione è, se possibile, peggiorata: nessuno cioè ha ancora saputo dire «no» al ruolo subalterno in cui la divisione internazionale del lavoro ha relegato il paese. L’informatica è solo uno dei tanti episodi che confermano questa emarginazione«.9
Luca D’Agostini
Lascia un commento
Fonti
(1) Valerio Ochetto, Adriano Olivetti. La biografia, Edizioni di Comunità, Roma 2013
(2) Storia Olivetti
(5) Adriano Olivetti
(6) RAI TV
(7) Marco Pivato, Il miracolo scippato. Le quattro occasioni sprecate della scienza italiana negli anni Sessanta, Donzelli, Roma 2010
(8) Mario Tchou
(9) Lorenzo Soria, Informatica: un’occasione perduta. La divisione elettronica dell’Olivetti nei primi anni del centrosinistra, Einaudi, Torino 1979
Вы должны авторизоваться чтобы опубликовать комментарий.