In questo articolo affronteremo un episodio della storia tedesca che ha avuto un ruolo decisivo nella storia dell’Europa.
Analizzeremo l’assedio di Vienna da parte dell’esercito turco, avvenuto nel 1529.
Vienna di solito è considerata come la capitale della Mitteleuropa e potrebbe fare effetto pensare che i Turchi siamo arrivati fin lì. In realtà, se si analizza la cartina geografica, ci si rende conto che Vienna è una città di confine, sul confine fra l’Europa Centrale e i Balcani. Nel centro di Vienna c’è un grande viale che si chiama «Rennweg» che è diretto proprio verso sud-est, e il principe Klemens von Metternich era solito dire: «I Balcani cominciano al Rennweg!«
Non deve stupire quindi che i Turchi siano arrivati fino a Vienna e che l’hanno assediata per ben due volte, nel 1529 e nel 1683, senza però mai riuscire a conquistarla.
Nel 1529 la potenza ottomana era in piena ascesa e si era all’inizio del regno del più grande dei sultani ottomani, quello che i Turchi chiamano «Kanuni Süleyman«, ovvero «Solimano il Legislatore» e che gli occidentali chiamano «Solimano il Magnifico».
Gli assedi nel passato erano una tecnica di guerra molto importante. Dalla Guerra dei Cent’anni fino alle guerre del Re Sole, ci furono più assedi che battaglie campali, soprattutto perché gli eserciti si muovevano lentamente, era piuttosto difficile rifornirli, per cui prima di avanzare, tali eserciti dovevano assediare tutte le città che si trovavano sul loro cammino, a costo di impiegarci notevoli quantità di tempo. Le guerre d’assedio erano guerre strane, moderne, tecnologiche e molto sanguinose. Non si trattava di guerre gloriose con le grandi cariche della cavalleria e con le bandiere al vento. Erano guerre nelle quali non si combatteva solo contro il nemico, ma anche contro il terreno, contro la natura, contro il clima.
Proprio il clima, come analizzeremo ora nell’articolo, ebbe un ruolo decisivo nel far fallire l’assedio di Vienna.
All’alba del XVI secolo, Vienna era una delle maggiori città tedesche. Il confine occidentale dell’Impero Ottomano si trovava ad appena 150 km di distanza.
Il Sultano Solimano il Magnifico aveva proclamato la jihad, la guerra santa. Nel maggio del 1529, un messaggero riferì che un immenso esercito aveva lasciato Istanbul ed era diretto a Vienna. Nell’autunno del 1529 l’imponente esercito turco pose Vienna sotto assedio. Ventimila viennesi rimasero intrappolati, all’interno delle mura cittadine divamparono terrore e disperazione. Qualora Vienna fosse capitolata, l’Europa non sarebbe stata più al sicuro.

Solimano I (Solimano il Magnifico)
Tra gli abitanti terrorizzati della città vi era Peter Stern von Labach, il Segretario austriaco della Guerra il quale scrisse: «Nell’eventualità di una battaglia non sarò in grado di combattere, la mia vista è troppo debole, le mie ossa troppo fragili, quindi giorno dopo giorno compirò il mio dovere raccontando il destino di Vienna con dovizia di particolari.«
Nel 1529 Vienna era una città alla periferia del Sacro Romano Impero Germanico, un impero sul quale era consuetudine dire: «il sole non tramonta mai«. Il sovrano di questo sterminato impero era l’imperatore Carlo V d’Asburgo il quale, in Europa, era in aperto conflitto con l’Impero Ottomano per il controllo del Mediterraneo e dei Balcani.

Regno di Carlo V

Carlo V d’Asburgo
Già all’epoca, una normale disputa per il potere geopolitico era interpretata come uno scontro di cultura, la Cristianità contro l’Islam. L’assedio di Vienna fa parte di questo conflitto.
In veste di Segretario della Guerra al servizio degli Asburgo, Peter Stern von Labach redasse le cronache ufficiali della resistenza di Vienna, un documento unico: «Nell’anno di nostro Signore 1529, il Sultano Solimano, crudele tiranno e nemico giurato della fede cristiana, marcia su Vienna con l’esercito e tutte le forze a propria disposizione al fine di sconfiggere e soggiogare il mondo cristiano.» Nelle proprie cronache, Peter Stern von Labach descrisse la minaccia proveniente dall’Impero Ottomano, un regno immenso che si estendeva dai Balcani all’Africa Settentrionale, la cui organizzazione era decisamente all’avanguardia rispetto a qualunque stato europeo. Il sistema burocratico ottomano funzionava molto bene, il popolo poteva scrivere delle istanze e delle petizioni al Sultano e le necessità della popolazione erano prese in seria considerazione.
Nel maggio del 1529, i 150.000 (centocinquanta mila) uomini che componevano l’esercito Ottomano, partirono per Vienna. Il primo grande accampamento fu stabilito a Belgrado. Tuttavia la marcia non risultò semplice in quanto una inusuale pioggia torrenziale rese il terreno troppo soffice e costrinse i soldati ottomani ad abbandonare i cannoni pesanti. L’esercito Ottomano affondava nel fango, nella maggior parte delle regioni gli acquazzoni distrussero praticamente la totalità dei raccolti e il prezzo del grano aumentò di 20 volte.
Un segretario del Sultano inviato in missione con l’esercito, registrò tutti gli eventi in un diario: «E’ piovuto così forte che in molti sono affogati nel fiume. Alcuni cammelli e cavalli sono stati trascinati via dalle acque, gli uomini si sono arrampicati sugli alberi e vi hanno trascorso due giorni e due notti.» Il racconto del segretario ottomano è l’unica testimonianza oculare turca della campagna militare contro Vienna. Si tratta di un documento in copia unica nella quale non è riportato il nome dell’autore, tuttavia doveva trattarsi di qualcuno che visse la campagna a stretto contatto con il Sultano. Qualcuno che come Peter Stern von Labach ricevette l’incarico ufficiale di redigere un resoconto. Gli scritti del Segretario ottomano raccontano nel dettaglio le difficoltà incontrate durante l’avanzata turca. Infatti, l’avanzata dell’esercito turco si rivelò un’incredibile impresa logistica.
Dopo aver percorso quasi duemila chilometri in quattro mesi, nonostante le avversità affrontate le forze ottomane raggiunsero le porte di Vienna ma il terrore li aveva già preceduti.
All’ultimo istante, gli abitanti di Vienna cercarono di fuggire. Non credevano che la città avesse potuto resistere. Restarono solo i quattrocento cittadini in grado di imbracciare un’arma.
L’avanguardia dell’esercito turco era formata dagli Akinci, un corpo di cavalleria leggera utilizzato prevalentemente per operazioni di ricognizione e per la realizzazione di imboscate. Questi soldati — originariamente turcomanni di nobile provenienza — erano dotati di corazza leggera ed equipaggiati con armi da lancio, impiegate per danneggiare il nemico da lontano in modo da ritirarsi prima che potesse contrattaccare efficacemente: la tattica del «colpisci e fuggi».

Akinci
Gli Akinci furono avvistati per la prima volta in prossimità di Vienna il 21 settembre 1529. Autori di violenze e saccheggi, rasero al suolo qualunque cosa gli si fosse proposta dinanzi. In molti tra coloro che cercarono rifugio a Vienna, caddero nelle loro mani. Le donne e i bambini furono catturati e consegnati all’esercito turco per farne schiavi. La maggior parte degli uomini fu decapitata senza troppi indugi e le teste impalate come trofei. Il segretario ottomano scrisse nelle sue cronache: «I nostri guerrieri sono entrati in una fattoria, al grido di battaglia musulmana hanno sguainato le scimitarre ed hanno abbattuto tutti gli infedeli, hanno catturato giovani donne e uomini, assicurandosi così un congruo bottino. Anche questo è un segno della grandezza di Allah!«
I cittadini di Vienna confidavano in un aiuto, ma Carlo V non poteva intervenire di persona in quanto impegnato nella guerra contro la Francia. Tuttavia, inviò all’ultimo istante una forza di 17.000 (diciassette mila) Lanzichenecchi per difendere la città. Fu così, che a Vienna in quel periodo si contarono più soldati che abitanti. Militari per professione, cosiddetti mercenari, i Lanzichenecchi mettevano a rischio le proprie vite per denaro. Erano gente presuntuosa, dai modi rozzi, persino il loro modo di vestire lasciava trasparire il disprezzo per le convenzioni sociali. Un primo aspetto dei loro modi provocatori era la quantità eccessiva di tessuto utilizzato per l’abbigliamento. Volevano fare bella mostra delle proprie ricchezze e sperperavano il loro denaro alla stessa velocità in cui lo guadagnavano. Anche le spalle larghe avevano un senso provocatorio. Spalle larghe e vita snella erano aspetti caratteristici dei Lanzichenecchi. Desideravano dimostrare a tutti la propria appartenenza a una forza di élite in grado di permettersi qualunque cosa. Tuttavia, l’aspetto più provocatorio dell’abbigliamento di un Lanzichenecco era la «brachetta» ovvero una sporgenza dell’abbigliamento in prossimità dei genitali come se all’interno vi fosse un pene eretto, simbolo di costante virilità. La «brachetta» veniva utilizzato per vari scopi, anche come borsa. Per loro era decisamente spassoso camminare all’interno di una città e tirare fuori le monete dalla propria «brachetta».
Per pagare i 17.000 Lanzichenecchi, i tesori delle chiese di Vienna furono fusi per battere moneta.

Lanzichenecchi
Il 24 settembre del 1529, tre giorni dopo il primo avvistamento degli Akinci, il resto dell’esercito ottomano raggiunse Vienna. Circondata da 150.000 turchi, la città era isolata.
Solimano sperava che l’ostentazione dello splendore orientale e la vastità del proprio esercito fossero sufficienti a intimidire i cittadini di Vienna e a persuaderli ad arrendersi senza combattere. I comandanti ottomani inviarono il seguente messaggio agli abitanti della città: «Al comandante e a tutti gli abitanti della fortezza di Vienna, sappiate che qualora vi convertiate all’Islam, nulla vi accadrà. Tuttavia, se opporrete resistenza, per volere del Sublime Allah, la vostra città verrà ridotta in cenere e i giovani e i vecchi saranno massacrati.«
Solimano non aveva alcun interesse nel prendere d’assalto la città, poiché secondo la legge marziale islamica avrebbe dovuto consentire ai propri soldati tre giorni di saccheggi. Solo nel caso in cui Vienna si fosse arresa, tutti i suoi tesori sarebbero appartenuti solamente al Sultano. Pertanto inviò quattro prigionieri in città con un messaggio. Tale messaggio era una richiesta di resa, solo in questo caso la città sarebbe stata risparmiata.
Scrisse Peter Stern von Labach: «Solimano sta cercando di concludere un accordo con i nostri rappresentanti. Ha giurato che non consentirà a nessuno dei suoi uomini né di entrare in città né di mettere in pericolo i suoi abitanti. Tuttavia se non dovessimo arrenderci, non si fermerà fino alla conquista di Vienna e finirà per massacrare i giovani e i vecchi.«
La resa però era fuori discussione e così l’assedio ebbe inizio, con grande ostentazione di potenza militare. In fatto di disciplina e abilità nell’uso delle armi erano ben pochi gli eserciti europei in grado di competere con i Turchi.
L’enorme accampamento ottomano era possibile vederlo nella sua interezza solo dalla guglia della Cattedrale di Santo Stefano, il punto più elevato della città di Vienna. Fu da lì che un artista disegnò ciò che vedeva. Quello che fu raccontato da Peter Stern con le parole, fu riprodotto dall’artista nei propri disegni. La sua intera raccolta forma, giunta fino ai giorni d’oggi e attualmente custodita al Museo di Vienna, costituisce un documento unico che illustra tutti gli orrori dell’assedio.
L’assedio di Vienna del 1529 va anche interpretato come un confronto fra quella che era ancora una città medioevale e un ordine sociale del tutto differente. Da una parte c’era la Cristianità occidentale, dall’altra l’Islam degli Ottomani con la straordinaria qualità della loro civiltà. In poche parole, il livello di conoscenza raggiunto da quest’ultima nei campi più disparati, meritava il più assoluto rispetto. In netta contrapposizione vi era il sistema occidentale che viveva un periodo instabilità. Lo spirito intellettuale dedito all’apprendimento e all’assorbimento di influenze esterne, non era all’epoca così avanzato come quello turco.
A Vienna tutti gli orologi delle chiese furono fermati. Inoltre, con la sola eccezione della piccola campana della Cattedrale di Santo Stefano, tutte le campane della città non toccarono più fino alla fine dell’assedio. Il tempo dunque era stato fermato.
La decisione di combattere fu descritta da Peter Stern von Labach come una specie di giuramento per Vienna. «Davanti ai suoi magnifici cannoni, i nobili e i semplici compagni d’armi giurano di non abbandonare la città fino a quando la vita scorrerà ancora nei loro corpi, fino a morire l’uno affianco all’altro in nome della fede cristiana.«
Tuttavia i soldati che prestarono un simile giuramento erano mercenari al servizio degli Asburgo. Non erano guerrieri «sacri» pronti a morire in nome della propria fede.
La battaglia ebbe inizio. Durante la propria avanzata, causa maltempo i Turchi erano stati costretti a liberarsi dei loro potenti cannoni che avrebbero potrebbero abbattere le mura, pertanto Vienna fu presa di mira con pezzi di artiglieria più piccoli i quali non rappresentarono una seria minaccia per le mura cittadine. Il pericolo era rappresentato dalle palle di cannone che piovevano al loro interno, in quanto rimbalzando sulla dura pavimentazione provocavano danni enormi. Gli abitanti di Vienna quindi dissestarono di proposito le strade di modo che le palle di cannone che sarebbero cadute all’interno delle mura, sarebbero affondate nel terreno più soffice.
Tuttavia i Turchi erano esperti nell’assedio di fortezze come Vienna. I cannoni avevano il solo scopo di incutere terrore e impedire agli abitanti della città di prendere fiato. In realtà erano impegnati a preparare la loro vera offensiva: per mezzo di fossati e tunnel si aprirono la strada verso la città con il fine ultimo di far detonare delle cariche di esplosivo proprio ai piedi delle mura della fortezza.
Inizialmente i Viennesi non capirono perché i Turchi insistevano a scavare. Ignari di tutto, restarono immobili all’interno della città in attesa di un attacco, un attacco però a loro insaputa già iniziato sottoterra. Il piano consisteva nello scavare un’ampia camera alla fine di ogni tunnel per riempirla di polvere da sparo. Ogni camera sarebbe stata successivamente murata per sviluppare il massimo della pressione possibile e per proteggere le truppe turche dal ritorno di fiamma causato dalle esplosioni. Così, lentamente ma inesorabilmente i Turchi avanzarono verso la città. Con il passare delle ore e dei giorni la minaccia diveniva sempre maggiore.
Mentre le squadre impegnate negli scavi continuavano la propria avanzata, nei dintorni di Vienna si andava consumando una tragedia: gli Akinci continuavano a seminare il terrore. La loro arma principale era l’arco, tanto che errano temuti in tutta Europa per la loro grande maestria con l’arco in quanto rappresentavano una seria minaccia anche per i cavalieri dotati di armatura. Aspettavano che l’avversario sguainasse la spada e l’alzasse al cielo per lanciare la carica, in quel momento con estrema precisione scoccavano la freccia proprio sotto l’ascella, oppure miravano al volto in quanto erano capaci di colpire all’interno della piccola fessura per occhi presente negli elmi. La loro mira era talmente precisa anche in sella a un cavallo al galoppo tanto da riuscire a colpire con estrema precisione la fessura dell’elmo o sotto le ascelle del nemico.
Secondo la mentalità europea era considerata un’arma da vigliacchi più che da cavalieri.
Gli archi dai Turchi erano armi all’avanguardia, infatti nonostante le dimensioni contenute erano dotati di una straordinaria forza penetrante. Tuttavia non erano armi semplici da usare ed erano necessari anni d’addestramento per utilizzare con velocità e precisione gli archi. Una truppa di moschettieri poteva essere arruolata e addestrata piuttosto rapidamente, ma erano necessari anni per diventare un valido arciere.
Ciò che stupiva e terrorizzava maggiormente gli europei era l’abilità dei Turchi nel colpire i nemici in groppa a un cavallo lanciato al galoppo. Quando un cavallo è al galoppo c’è un momento in cui tutte e quattro le zampe restano sollevate da terra ed è proprio quello l’istante giusto in cui scoccare la freccia, altrimenti il sobbalzo del cavallo nel momento dell’urto a terra anche di uno solo degli zoccoli, causa che la freccia scoccata in quel momento si allontani di molto dall’obiettivo. Gli Akinci erano maestri assoluti in questa abilità, tanto che non fallivano mai il bersaglio.

Akinci
Gli Akinci saccheggiarono l’hinterland di Vienna nel raggio di un centinaio di chilometri. Il destino dei contadini rappresentava solo un terribile presagio di quanto attendeva i cittadini di Vienna. Furono pochissimi i sopravvissuti che riuscirono a rifugiarsi in città, in genere muovendosi di notte.
Nelle sue cronache Peter Stern von Labach scrisse: «Migliaia sono le persone massacrate o rapite. I bambini sono stati letteralmente strappati dal ventre delle loro madri e fatti annegare o impalati. Le fanciulle violentate fino alla morte. Che l’Onnipotente possa avere pietà delle loro anime e che gli omicidi commessi da queste bestie assetate di sangue possano essere vendicati.«
Quanto raccontato da Peter Stern sui massacri e sui saccheggi commessi dagli Akinci, condizionerà per secoli l’immagine che gli Europei avranno dei Turchi. L’espressione di Stern, «bestie assetate di sangue«, sarà utilizzata per i due secoli successivi. L’immagine dei neonati impalati è solo una delle tante che si trovano nelle cronache dell’epoca. Si incidevano nel legno delle scene in cui si cercava di rappresentare le barbarie commesse dai Turchi, dai neonati strappati alle madri e infilzati in lunghe lance alle immagini di stupro di giovani donne.
Le atrocità commesse all’esterno di Vienna, trovano conferma nei rapporti degli Ottomani. Le cronache turche diffusero in tutta Europa queste notizie le quali rappresentavano per i popoli europei la maggior fonte di informazioni sull’Impero Ottomano. Nacque così l’immagine dei Turchi come persone crudeli per natura, un’immagine ulteriormente diffusa dalla Chiesa cristiana che vedeva in loro una minaccia al proprio potere. Uno dei più fervidi accusatori dei Turchi fu Martin Lutero il quale li considerò come la personificazione dell’anticristo: «Siate quindi certi che il turco è la furia più demoniaca scatenata dal diavolo contro la Cristianità. Vediamo tutti in quale modo agisca, con tanta crudeltà quasi fosse gli stesso il diavolo furioso fatto uomo.«
Nel frattempo, in Germania la Guerra dei Contadini si era appena conclusa. Stanchi delle privazioni che dovevano sostenere, i contadini si erano ribellati. Non era affatto raro in questo periodo trovare soldati e contadini che si erano ristabiliti nell’Impero Ottomano. Erano fuggiti da un sistema sociale che non offriva alcuna prospettiva di miglioramento. L’Impero Ottomano era una realtà estremamente dinamica, un contadino poteva anche diventare pascià o gran visir, e questa rappresentava una grande attrattiva per chiunque avesse delle ambizioni. All’interno dell’Impero Ottomano si poteva diventare qualcuno molto più in fretta che in Occidente. Ecco cos’era a renderlo tanto affascinante. Infatti non erano solamente i soldati a disertare, l’intera popolazione cristiana di alcune isole greche aveva giurato ad esso fedeltà. Sostenevano che preferivano vivere sotto il Sultano piuttosto che sotto il Papa. Si presentava quindi un enorme rischio per l’intera società occidentale, per la nobiltà e il clero. Fu proprio il clero a reagire con più forza cogliendo l’opportunità di creare un nemico esterno con il quale distrarre l’attenzione dalle dispute interne, come il caso di Martin Lutero e lo scisma della Chiesa.
Uno degli esempi delle possibilità di avanzamento sociale all’interno dell’Impero Ottomano era rappresentato dai Giannizzeri, i soldati d’élite che costituivano la fanteria dell’esercito privato del Sultano ottomano e che superavano le 12 mila unità. Dei bambini cristiani di età compresa fra i 12 e i 18 anni, sottratti alle loro famiglie dei villaggi dei Balcani, venivano convertiti all’Islam e posti al servizio dell’Impero Ottomano. Chi era abbastanza forte da superare la propria esperienza traumatica, avrebbe potuto intraprendere una carriera negli uffici governativi più importanti.
Altro esempio di una simile carriera, è rappresentato dal più importante consigliere di Solimano di quel periodo. Rapito da bambino in un villaggio dell’Albania, Ibrāhīm Pascià scalò tutte le posizioni sociali fino a diventare il gran visir.
Torniamo alle cronache dell’assedio. Per i Viennesi la situazione appariva disperata, ma poi arrivò la pioggia. Un’ondata di freddo decisamente in anticipo per quel periodo dell’anno, restituì loro la speranza. Scrisse Peter Stern von Labach: «E’ piovuto per l’intera giornata e così abbiamo sperato che quei babbuini al di là delle nostre mura, potessero congelarsi fino alla morte. Purtroppo, l’erbaccia ricresce rapidamente!«
In tali condizioni climatiche, un assalto era fuori discussione. Le trincee turche si riempirono d’acqua e la polvere da sparo delle cariche esplosive divenne totalmente inutilizzabile. Fintanto sarebbe continuato a piovere, Vienna era al riparo da qualunque attacco.
Il morale delle truppe turche iniziò a scendere. Nei due giorni successivi non smise di diluviare e il campo ottomano si trasformò in un mare di fango. Scrisse il Segretario di Solimano: «Fa molto freddo, sia di giorno che di notte c’è così tanto fango che per diversi giorni gli animali da soma non hanno potuto sdraiarsi per riposare. E’ impossibile descrivere quanta pioggia stia venendo giù!«
Per l’esercito turco il tempo stava ormai per scadere. L’inverno era alle porte, in largo anticipo sul previsto. Ma, inaspettatamente, il 1 ottobre 1529 smise di piovere e per Vienna il breve periodo di pausa si concluse poiché l’estenuante guerra sotterranea riprese a pieno ritmo.
I cittadini erano ormai a conoscenza delle gallerie sotterranee e delle cariche esplosive. Alle prime luci dell’alba, i Lanzichenecchi progettarono una sortita per impedire ai Turchi di continuare gli scavi. Duemila uomini si prepararono all’attacco. Si trattava di un’operazione carica di rischi, ma qualora i soldati non fossero riusciti a localizzare le cariche posizionate dai Turchi, Vienna sarebbe andata perduta. Improvvisamente, come dal nulla, i Lanzichenecchi comparirono nelle trincee turche. Colti di sorpresa, i Turchi cercarono di fuggire, ma in molti furono uccisi. Tuttavia, anche le perdite tra i Lanzichenecchi risultarono elevate.
I Lanzichenecchi non riuscirono a trovare le cariche, ma riuscirono a catturare un prigioniero turco il quale fu sottoposto a quello che all’epoca era definito «il rigoroso esame«, termine eufemistico dell’epoca sinonimo di tortura. Data l’urgenza di conoscere la posizione delle cariche di esplosivo, il prigioniero non fu sottoposto ad una scala di torture graduali, ma fu immediatamente vittima della più terribile delle torture e così confessò la posizione ove erano state poste le cariche esplosive. Nel suo resoconto, Peter Stern von Labach annotò senza emozione: «Una volta sottoposto al rigoroso esame, l’uomo ha infine ammesso che le cariche sono state collocate alla destra e alla sinistra della Porta di Carinzia. Nessuno prima d’ora ne aveva idea e quando le nostre truppe ne sono state informate, hanno riempito d’acqua dei bacini e posizionato delle guardie.«
Le informazioni ottenute dal prigioniero però non risultarono sufficientemente precise. Da quel momento, i cittadini di Vienna non potevano far altro che stare rinchiusi in guardia nelle loro cantine giorno e notte, in quanto l’acqua avrebbe rivelato qualunque movimento della terra prima che l’orecchio umano avesse potuto percepire i rumori. Quando sulla superficie dell’acqua si formavano delle increspature, i soldati scavavano in prossimità del bacino.
Per prendere d’assalto la città i Turchi intendevano innescare un’enorme carica esplosiva per far crollare le mura cittadine. I Turchi lavorarono in più punti contemporaneamente, spesso con il solo scopo di confondere il nemico.
Tuttavia, i Viennesi riuscirono a localizzare le cariche, ma occorreva comunque affrettarsi nell’organizzazione della difesa. I Lanzichenecchi si radunarono nelle sezioni minacciate delle mura cittadine. Nel frattempo gli Ottomani portarono a termine gli ultimi preparativi prima di dare il via alla detonazione. Le cariche di polvere da sparo furono fatte rotolare nelle camere sotterranee. La grande offensiva turca era imminente.
La breccia aperta nelle mura era ampia trenta metri, ma i Viennesi si fecero trovare pronti. I Lanzichenecchi erano già schierati davanti alle brecce e i Turchi corsero dritti contro le loro picche. Sconfitti, i Giannizzeri si ritirarono nel loro campo dove ad attenderli ci furono i comandanti che appresero sgomenti dell’inattesa disfatta. Scrisse il Segretario di Solimano: «Dopo le preghiere del pomeriggio, è stata fatta detonare una carica esplosiva. Alcuni degli infedeli hanno combattuto nella breccia che si è aperta e la lotta è stata feroce. Tuttavia, dal momento che il varco non era abbastanza grande, non siamo riusciti a impadronirci della città.«
Gli ufficiali Turchi si riunirono per decidere come procedere. L’esercito ottomano era allo stremo delle forze, le truppe erano demoralizzate e praticamente senza più riserve di cibo. Si prospettava anche una possibile ribellione dei Giannizzeri. Scrisse ancora il Segretario di Solimano: «La scarsità di provviste è stata fonte di grande preoccupazione, pertanto i comandanti hanno deciso di sferrare l’attacco finale. Qualora la fortezza non dovesse capitolare, l’esercito farà ritorno a casa.«
I comandanti dell’esercito turco comunicarono ai loro soldati l’intenzione di sferrare l’assalto finale. Per rivitalizzare lo spirito battagliero tra i propri uomini, Solimano promise che il primo soldato semplice che fosse riuscito a scavalcare le mura di Vienna, sarebbe stato promosso al grado di capitano è premiato con trentamila asper, una ricompensa principesca.
Solimano progettò di attaccare la città con tre colonne, tuttavia, anche in questa circostanza, i Giannizzeri finirono dritti contro le picche e le alabarde dei Lanzichenecchi. Il massacro dei Giannizzeri si protrasse per più di due ore e alla fine i soldati turchi, non obbedendo più ai loro comandanti, decisero autonomamente di ritirarsi. Ormai non avevano più alcuna motivazione per continuare a combattere e non erano più convinti di poter vincere la battaglia.
Al contempo i Viennesi non osarono credere nel proprio trionfo ed ignorarono che l’assedio era giunto al termine. Nel proprio resoconto Peter Stern von Labach scrisse: «Il nemico ha organizzato un assalto feroce ma questo è stato rapidamente respinto. Le perdite del nemico ammontano a circa 350 (trecentocinquanta) morti, mentre dalla parte nostro solo un ispanico è stato colpito a morte e diversi Lanzichenecchi sono rimasti feriti. Sia lodato il Signore!«
Il pericolo fu allontanato ma la paura ancora serpeggiava in città. Il giorno dopo l’assalto finale, tre uomini furono catturati e sotto tortura confessarono di essere spie turche e di aver avuto ordine da Solimano di appiccare il fuoco alla città in cinque punti diversi. Successivamente, egli stesso avrebbe attaccato la città in fiamme mentre i suoi abitanti sarebbero stati impegnati a domare gli incendi.
Scrisse Peter Stern von Labach: «I tre fattorini che erano arrivati in città e che si sono successivamente rivelati essere spie turche, sono stati squartati in pubblico e le loro membra appese alle mura cittadine.«
Per l’esercito Ottomano la campagna terminò allo stesso modo di come era iniziata, nella pioggia e nel fango. Il racconto del Segretario di Solimano non fornisce indicazioni su quanto i soldati turchi siano morti di fame o congelati durante la marcia di ritorno verso casa e anche lo stesso destino del segretario è ignoto. Le sue parole sul viaggio di ritirata furono le seguenti: «E’ piovuto incessantemente dall’alba al tramonto. Alcuni soldati hanno perduto il proprio equipaggiamento durante il diluvio interminabile. Alcuni dei loro cavalli sono affondati nel pantano. Le sofferenze sono indescrivibili!«
Quanto abbandonato dai turchi finì nelle mani dei viennesi. Tuttavia l’euforia del trionfo ebbe vita breve. Scrisse Peter Stern von Labach: «Tutti i sobborghi sono stati rasi al suolo, ci sono sporcizia ed escrementi dappertutto, la fame e la miseria sono onnipresenti. E’ praticamente impossibile percorrere la distanza di una freccia scagliata da un arco senza incappare in un cadavere, o nella carcassa di un maiale, di un cavallo o di una mucca.«
La battaglia per Vienna fu vinta dai Viennesi, tuttavia la rivalità tra gli Asburgo e l’impero Ottomano era ancora viva. Come avamposto orientale, Vienna visse i successivi 150anni nel pericolo costante. Solo dopo il secondo fallito assedio del 1683, l’Impero Ottomano affrontò il proprio declino.
L’inverno immediatamente successivo all’assedio del 1529 portò alla carestia. Il clima risultò più freddo del solito, era difficile trovare qualcosa da utilizzare per riscaldarsi tanto meno qualcosa da mangiare, anche perché l’assedio impedì il raccolto autunnale.
In quel periodo, Nicolas Meldemann un tipografo di Norimberga arrivò in città. Meldemann intendeva pubblicare le cronache dell’assedio di Vienna. Incontrò Peter Stern, il cronista dell’assedio il quale gli consegnò una copia del proprio racconto. Inoltre Meldemann raccolse le tavole disegnate dall’artista sconosciuto dalla Cattedrale di Santo Stefano. Tornato nel proprio laboratorio di Norimberga unì le due opere per produrre un quadro generale degli avvenimenti. Solamente nella prima stampa menzionò il nome di Peter Stein come autore, successivamente pubblicò ancora le cronache arricchite dalle proprie esperienze, ma con il suo nome, mentre quello dell’artista che produsse i disegni rimase segreto per sempre. Il risultato di tutto questo fu che i due testimoni oculari della battaglia furono presto dimenticati. Non esistono tracce delle loro vite dopo l’assedio.
Quello stesso inverno, Nicolas Meldemann fece ritorno a Norimberga. Il suo racconto consegnò al mondo il quadro della resistenza viennese contro il pericolo turco-islamico. Questo contribuì non solo a creare l’immagine dei turchi come venne percepita in Europa, ma anche ad innalzare Vienna come baluardo dell’Europa cristiana.
Luca D’Agostini
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Fonti
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