Livorno alla fine dell’Ottocento: una città operosa con un porto fiorente, una lunga tradizione di cultura, un popolo intelligente e spregiudicato. A ridosso del porto, nel quartiere mercantile della città, la famiglia Modigliani esercitava con alterne fortune un commercio di legno e carbone. I Modigliani appartenevano alla rigogliosa colonia ebraica della città livornese.
Amedeo Modigliani nacque a Livorno il 12 luglio 1884. Proprio nel giorno del parto, a seguito di un dissesto economico della famiglia, un ufficiale giudiziario si presentò nella casa dei suoi genitori per sequestrare tutti i mobili, compresi i quadri attaccati ai muri. Sul letto della partoriente, che per legge non poteva essere toccato, i familiari ammucchiarono allora tutti gli oggetti di valore, orologi antichi, l’argenteria di famiglia. Il piccolo Amedeo nasceva alla vita con questo non lieto presagio.
Tuttavia la sua infanzia scorse tranquilla fra un’abbondanza patriarcale di zie e di fratelli. Ultimo di quattro figli era il prediletto da sua madre Eugenia, una donna colta e intelligente. Quando Amedeo aveva circa dieci anni la mamma annotò sul suo diario: «Le sue maniere sono quelle di un bambino viziato che non manca di intelligenza. Vedremo poi cosa c’è in questa crisalide. Forse un artista!«
All’età di 14 anni Amedeo lasciò il ginnasio per dedicarsi alla pittura. Il suo primo maestro fu il pittore livornese Guglielmo Micheli, che fu l’allievo prediletto di Giovanni Fattori, il più grande dei macchiaioli toscani. La pittura dei macchiaioli costituì l’esperienza artistica più interessante dell’Ottocento italiano. E’ un’arte che s’ispirava direttamente alla natura, a piccole scene di vita familiare con un umile senso del vero, ravvivato da una sapientissima tecnica del colore. Come i macchiaioli, anche il giovane Modigliani si aggirava per la campagna livornese, munito di tavolozza e colori trasportati a tracolla e alla ricerca di quieti angoli da ritrarre dal vero. Ma guardando i contadini intenti alle loro faccende e i bovi all’aratro, Modigliani sentì crescere dentro di sé un irrequietezza sempre più forte. Quel mondo era troppo stretto per la sua ambizione. Così dopo aver frequentato per appena un anno a Firenze la scuola di nudo diretta dal vecchio Giovanni Fattori, non ancora ventenne si trasferì a Parigi, la capitale europea dell’arte d’avanguardia.
Allora, per i giovani artisti, Parigi rappresentava il simbolo e il centro delle esperienze più ardite. A Parigi sul finire dell’Ottocento era tutto un fermento di nuove idee. Si voltavano le spalle alla tradizione accademica, nasceva l’arte moderna. Spiccavano nuovi artisti come Picasso, già avviato verso le più audaci esperienze cubiste. Gli impressionisti inondarono le tele di luce e di colore, seguendo una libera e spontanea visione della realtà. Agli inizi del Novecento, il grande Renoir dipingeva ancora i suoi nudi rosati con le mani tremanti dalla vecchiaia, mentre Matisse scandalizzava i benpensanti con i suoi quadri Fauves. Monet dipingeva all’aperto traendo magici effetti di luce dai boschi della Francia. Ecco l’ambiente che trovò il giovanissimo Modigliani quando nel 1906 giunse a Parigi con in tasca una piccola somma, frutto dei risparmi della madre.
Andò a vivere a Montmartre, il quartiere preferito dagli artisti ribelli e squattrinati. Era gracile di salute, fin dall’infanzia aveva sofferto di tubercolosi. Era alla continua ricerca di un alloggio, di qualcuno che l’ospitasse e gli donasse qualcosa da mangiare. L’umanità che lo circondava era gente derelitta come lui.
Gli artisti sconosciuti vendevano poco e male. Trasportavano le tele su rustici carrettini, mescolandosi alla brulicante folla dei mercati rionali. Fu con queste privazioni ed in mezzo a questa umile gente che Modigliani maturò il suo mondo poetico, popolato soprattutto da volti di persone colti nella loro realtà più dolente.
Con gli altri artisti passava il tempo seduto ai tavolini dei bistrot. I temi delle loro conversazioni erano le correnti rivoluzionarie dell’arte, i cubisti, l’arte astratta. Modigliani trascorreva molto tempo seduto a quei tavolini bevendo vino di scarsissima qualità e disegnando. Offriva ai passanti un veloce ritratto a matita dei loro volti, in cambio di spiccioli per pagare la consumazione del vino. Poi si alzava, iniziava a camminare ed entrava nei locali tenendo i suoi disegni in mano e dicendo: «Modigliani, ebreo, italiano, 5 franchi un disegno«. Girava per i tavoli e ad ogni tavolo ripeteva la stessa frase. A tutti i tavoli, in ogni locale, tutti i giorni. Fu così che molti dei suoi disegni andarono dispersi e perduti per sempre. Ecco come lo descrisse una ragazza che lo conobbe in quegli anni: «Era un giovane molto bello, con in capo un gran feltro nero. Indossava sempre una giacca di velluto e una sciarpa rossa al collo. Dalle tasche della giacca gli uscivano le matite per disegnare. Portava sempre con se una grande cartella contenente disegni«.
Tuttavia, per questo giovane molto bello, la compagna più fedele era la fame, mentre la gloria sognata rimaneva un miraggio lontanissimo. Unica realtà quotidiana era il lavoro, al quale Modì, come lo chiamavano gli amici parigini, si dedicava con ardore, ma totalmente ignorato dai critici d’arte e dai mercanti di opere d’arte.
In questo periodo realizzò una delle sue opere più belle, «Il violoncellista» che in seguito fu esposto al Salone degli Indipendenti nel 1910.

Il violoncellista — opera di Amedeo Modigliani — 1909 — Collezione privata
Il suonatore allampanato, tutto assorto e proteso sul violoncello, era in realtà un povero diavolo che approfittava delle pose per esercitarsi al calore della stufa presente nel laboratorio. Questa era la vita dell’artista livornese emigrato a Parigi.
A volte, lo assaliva la nostalgia di Livorno, dei luoghi della sua adolescenza. Ma nella sua città non trovò mai la considerazione e la stima che si aspettava. Faceva ritorno a Livorno ogni estate, ma in quella del 1912 ebbe un’esperienza molto scoraggiante. Si era portato dietro delle fotografie di sculture e le fece vedere agli amici pittori che avevano lavorato con lui allo studio Micheli. I suoi ex colleghi livornesi furono assolutamente scandalizzati e gli consigliarono di buttare quelle opere a mare, nel fosso famoso Fosso degli Olandesi di Livorno.
Dopo aver trascorso le estati a Livorno, Modigliani tornava a Parigi sempre più deluso. La miseria e gli stenti non lo scoraggiarono, tanto che in una lettera indirizzata alla madre scrisse: «Sento che un giorno o l’altro finirò col farmi strada. Mamma mia cara, lascio passare troppo tempo senza scriverti ma non ti dimentico, non ti impensierire, tutto va bene, lavoro e se mi tormento a volte, non sono più imbarazzato come prima. Volevo mandarti delle fotografie ma non sono troppo ben riuscite«.
Furono quelli gli anni di lavoro più fervidi ma anche gli ultimi della sua vita. Lo aiutava l’unico amico che aveva, il poeta polacco Leopold Zborowski, il quale gli aveva offerto come laboratorio una stanza della sua casa. Ogni mese inoltre gli corrispondeva una piccola somma di denaro in cambio di alcuni suoi dipinti.

Ritratto di Leopold Zborowski — opera di Amedeo Modigliani — 1916 — Museo dell’Arte di San Paolo (Brasile)
Grazie a questa stabilità e all’aiuto del suo amico poeta Leopold Zborowski, l’ignoto Modì cominciò a farsi conoscere.
Nel 1917, in occasione di una festa mascherata, incontrò la donna della sua vita, la diciannovenne Jeanne Hébuterne. Era anch’essa una pittrice, era una ragazza minuta, dalla carnagione chiara, dal carattere chiuso e forte. Jeanne Hébuterne divenne la compagna dei suoi ultimi giorni e la sua modella preferita.

Jeanne Hébuterne

Ritratto di Jeanne Hébuterne con la collana — opera di Amedeo Modigliani — 1917 — Collezione privata

Ritratto di Jeanne Hébuterne con cappello — opera di Amedeo Modigliani — 1918 — Collezione privata giapponese
Dall’unione di Modigliani e della sua compagna, nacque l’unica figlia che chiamarono Jeanne, come la madre, ma per Modì la vita stava volgendo al termine.
Il sistema nervoso fragile, la tubercolosi, l’abuso smoderato di alcool e hashish, l’assillo di lavorare sempre più in fretta, come nel presagio di una fine incombente, minarono inesorabilmente la sua salute.
Appena in tempo per godere di un laboratorio tutto suo allestito a Montparnasse, appena in tempo per ricevere la notizia del successo di alcune sue tele esposte a Londra, che durante l’inverno del 1919 fu nuovamente ricoverato all’Hôpital de la Charité di Parigi, a causa di una nuova crisi polmonare. In una corsia dell’ospedale riservata ai poveri, Modigliani morì il 24 gennaio 1920, all’età di soli 35 anni.
Al suo funerale partecipò tutta la Parigi intellettuale, gli amici, gli artisti, i poeti. Qua e là nella folla i mercanti contrattavano furtivamente l’acquisto di sue tele. Passerà poco tempo e quelle stesse tele saranno rivendute per milioni.
Jeanne Hébuterne, che era stata portata nella casa dei suoi genitori ed era incinta del secondo figlio, all’indomani della morte di Amedeo Modigliani si gettò da una finestra al quinto piano. Aveva solo 36 anni.
Questa è la commovente lettera che Jonas Netter, un mercante d’arte scrisse al più grande amico di Modigliani, il poeta Leopold Zborowski, il quale in quel periodo si trovava momentaneamente in Polonia e non era a conoscenza dell’avvenuta morte di Amedeo Modigliani: «Parigi, 27 gennaio 1920. Mio caro Leopold, solo ora che mi sono un poco ripreso, trovo la forza di scriverLe. Sono stati giorni particolarmente difficili e tristi per me, ma oserei dire per tutta Parigi e per l’arte che sia io che Lei amiamo. Il giorno 24, Modigliani, il nostro caro Modì, è morto. Fu trovato agonizzante da un inquilino del suo stabile e nonostante il rapido trasferimento all’Hôpital de la Charité non c’è stato nulla che i medici abbiano potuto fare.
Stamane si sono svolti i funerali. Sono state esequie magnifiche a cui hanno presenziato pittori, scultori, poeti e modelle. Il loro straordinario corteo scortava il carro funebre coperto di fiori. Al suo passaggio, a tutti gli incroci, gli agenti della polizia si mettevano sull’attenti e facevano il saluto militare. Modigliani salutato proprio da coloro che l’avevano tanto spesso ingiuriato: che beffa e che rivincita!
Confesso che la mia pena maggiore, non è quella di aver perso un amico, che veramente amici non siamo mai stati. Come artista era eccellente, ma come uomo era brusco, scostante, al limite dell’offensivo. Quando gli portavo da mangiare o pagavo i suoi conti, o acquistavo le sue opere, mi guardava torvo, come dire: «il tuo denaro mi serve, ma puoi comprare i miei quadri, non puoi comprare me!». No, quello che veramente mi mancherà, è non poterlo più vedere al lavoro.
Anche l’ultima volta che mi sono trovato nel suo studio, proprio qualche giorno prima della sua morte, sono rimasto incantato. Ora, anche Lei conosce bene il caotico squallore in cui vivono questi artisti, eppure quando Amedeo dipingeva, ogni più piccolo gesto lo elevava al di sopra dell’odore irrancidito di porri, tabacco di poco prezzo e vino scadente. Ad ogni tocco di pennello, spariva lo sporco delle pareti, svaniva il tappeto giallastro e unto. La luce smorta che spioveva dal lucernario si faceva chiara e netta, e con un unico scopo preciso: accendere quei colori e farli splendere di vita. Quella stessa vita che Modigliani dissipava, la potevi quasi vedere raggrumarsi, penetrare e fondersi nelle sue tele. Per questo ho acquistato tanti quadri di Modigliani, e se avessi potuto li avrei comprati tutti. Perché sono magici, contengono la pura essenza dell’esistenza. Per tutti, io sono solo Jonas Netter, il timido e modesto collezionista ebreo. Tutti sanno che ho dei quadri, nessuno sa che possiedo un miracolo!»
Luca D’Agostini
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