Un convinto sostenitore del Papa, poi anticlericale, poi mazziniano e infine garibaldino. Ma chi era Angelo Brunetti detto anche Ciceruacchio? Questa è la storia di una delle figure di maggior spicco della Repubblica Romana, distintasi per coraggio e carisma, capace di radunare ed arringare ingenti masse di individui nella città di Roma. Uno dei personaggi romani più celebri di sempre .
Figlio di un maniscalco del rione Campo Marzio, il soprannome di Ciceruacchio gli fu dato dalla madre Cecilia e dalle comari, amiche della stessa madre, per via del fatto che sin da piccolo era un bimbo paffutello. Il soprannome «Ciceruacchio», deriva dal romanesco «ciruacchiotto», cioè «grassottello».
Scrisse a tal proposito lo scrittore e patriota Raffaello Giovagnoli: «Il bambino era bianco, roseo, biondo, dagli occhi azzurri, grosso e rotondo più dell’ordinario. Per quella abbondante rotondità di forme infantili, le comari del vicinato, togliendolo delle braccia della sora Cecilia e vezzeggiandolo e palleggiandolo, cominciarono, in coro a dire: Oh che bel Ciccio!… O che bel Ciccio!… e altre ad aggiungere: È grasso come un rocchio, oh che bel rocchio! Oh che bel ruacchio! E di lì derivò, fin dalla infanzia, il soprannome di Ciceruacchio» . Da notare che «ruacchio», in dialetto romanesco, indica un bel taglio di carne di manzo.
Alla parrocchia romana dove fu battezzato, fu registrato come Angelo Brunetti, nato il 27 settembre 1800 a Trastevere, nel quartiere di Campo Marzio, presso Piazza dell’Oca.
Ora purtroppo la sua casa natale non esiste più. La casa di Ciceruacchio era probabilmente nel limitrofo Vicolo delle Scale, non più esistente, alterato fortemente dai lavori per la costruzione del Lungotevere e della Passeggiata di Ripetta e che, in onore di Ciceruacchio, ha cambiato il proprio nome in Via Angelo Brunetti.
Qualora vi trovaste a passeggiare nel centro di Roma, percorrete Via di Ripetta e fate attenzione all’altezza del civico N. 248. Qui, presso un’area limitrofa alla casa in cui Ciceruacchio abitò e nei pressi della quale aveva la sua rivendita di vino e foraggi, nel 1871 il Comune di Roma pose una targa in ricordo dell’oste e patriota Angelo Brunetti, detto Ciceruacchio. Nel 1872, come ricordato da una seconda targa posta sotto la prima, i cittadini decisero di far porre anche un busto di Ciceruacchio sopra la targa.
Dotato di natura vivacissima e di eccezionale vigoria fisica, Angelo Brunetti visse una giovinezza contrassegnata da risse e baruffe. Iscritto alla scuola dei Padri Carissimi, non ne trasse grande profitto, in quanto apprese a mala pena a saper leggere e fare i conti. Angelo Brunetti parlava esclusivamente in dialetto romanesco e il suo livello culturale restò sempre assai modesto.
Avendo però una certa inclinazione per la poesia, lesse alcuni versi della Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso ed imparò a memoria molti melodrammi di Pietro Metastasio. Così, iniziò presto a improvvisare versi che declamava, con un certo successo, agli amici buontemponi seduti all’osteria intorno a fiaschette di vino.
Dalle litografie che sono rimaste e dalle testimonianze che ci hanno tramandato i coetanei suoi amici, è facile ricavare il profilo fisico di Ciceruacchio adulto. Di statura appena al di sopra della media, di corporatura solida e robusta, di fisionomia piacevole e simpatica, aveva occhi azzurri ed espressivi, collo taurino, folta chioma bionda, fronte regolare, naso profilato, carnagione chiara.
Vestiva in modo curioso ed eccentrico. Quando non era in maniche di camicia, indossava una corta giacca sopra un panciotto e calzoni stretti al ginocchio e larghi al collo del piede. Un fazzoletto di seta disegnato a fiori gli avvolgeva il collo e una sciarpa, egualmente di seta, gli correva intorno alla vita; sul capo portava un cappello a cencio un po’ a punta, di tipo calabrese. Nei lobi di entrambi gli orecchi portava un orecchino a forma di anello.
Intraprese il mestiere di carrettiere di vino, quando, intorno ai venti anni, sposò Anna (detta Annetta) una graziosa popolana del suo quartiere, la cui dote, unita ai suoi risparmi, gli consentì di estendere il raggio della sua attività e di accrescere il volume dei suoi affari. Acquistò altri due cavalli e altri due carretti e aggiunse al trasporto del vino, quello dei cereali e del fieno. In un secondo tempo, prosperando gli affari e crescendo la clientela, al trasporto per conto di altri sostituì il commercio diretto e in proprio delle stesse merci.
Gli affari andavano decisamente bene e la popolarità fu favorita dal fisico, dal temperamento, dalla professione e dalla stessa agiatezza. Già capo della «Vendita di Trastevere» sin dal 1831, associazione vicina alla Carboneria, beneamato dal popolo romano per il suo comportamento durante l’epidemia di colera del 1837, quando gli eventi del 1846-1849 ne portarono il nome anche fuori dello Stato Pontificio, Brunetti dal viso largo e aperto, dalla parola facile e dal carattere socievole e generoso, ebbe sempre più numeroso il suo seguito di folla tra il popolo che aiutava, comprendeva e rappresentava.
Il 1° giugno del 1846, morì, scarsamente compianto dalla generalità dei sudditi, il pontefice Gregorio XVI, al secolo Bartolomeo Alberto Mauro Cappellari. Mezzo mese più tardi, dopo appena tre giorni di conclave, le caratteristiche fumate bianche annunciano al popolo l’Habemus Papam. I cardinali di Santa Romana Chiesa, con trentasei voti su quarantanove, elessero l’ex-vescovo di Imola, Giovanni Maria Mastai Ferretti, il quale assunse il nome di Pio IX.
Questo fu l’evento che impresse alla vita di Ciceruacchio una svolta decisiva. L’elezione del nuovo Papa, avente fama di liberale e l’immediato avvio di alcune riforme, destarono una risonanza immensa. Il mito ventilato dal filosofo Vincenzo Gioberti, di una confederazione di Stati italiani sotto la presidenza del pontefice, sembra avviato a diventare realtà.
Da questo fervore, entusiasmo ed euforia fu preso il generoso Ciceruacchio, il quale in Pio IX trovò l’idolo da venerare e la bandiera da seguire. Così, quando nel trigesimo dell’elezione al pontificato, Pio IX concesse l’amnistia ai detenuti politici, Ciceruacchio manifestò il suo giubilo con un gesto spettacolare di schietto stampo popolano. Fece trasportare in Piazza del Popolo undici barili di vino e li mise a disposizione dei cittadini.
L’8 settembre 1846, Papa Pio IX si recò in visita alla chiesa di Santa Maria del Popolo e, su iniziativa di Ciceruacchio, che faceva parte del comitato organizzativo della celebrazione dell’evento, il percorso dal Quirinale fu adornato di bandiere, arazzi, epigrafi, fiori e fiaccole. Alla Porta del Popolo fu allestito un arco di trionfo sul quale campeggiava la scritta: “Onore e gloria a Pio IX, cui bastò un giorno per consolare i sudditi e meravigliare il mondo”.
L’11 novembre 1846, nel Teatro Alibert, seicento romani offrirono a trecento patrioti non romani un solenne banchetto. Ciceruacchio, alzatosi con il bicchiere in mano, manifestò la sua vena di poeta estemporaneo, improvvisando una applauditissima ottava, altrettanto approssimativa nella forma, quanto sincera nel contenuto:
Oggi per il gran Pio semo felici
Né dai briganti più saremo offesi;
Oggi per il gran Pio siam tutti amici,
E amici avemo pure i Bolognesi.
Se alcun, corpo di Dio, dei rei nemici
Fa un passo avanti… noi già semo intesi.
Evviva la provincia e Roma madre,
Evviva Italia con il Santo Padre!
A metà dicembre del 1846, Pio IX ricevette in udienza privata i promotori della festa dell’8 settembre. Ciceruacchio, alla sua presenza, si commosse e perse momentaneamente la sua facile popolana eloquenza.
Intanto la fama del Pontefice si propagò in Italia e all’estero. “Viva Pio IX» divenne uno slogan molto di moda. L’entusiasmo dei romani fu espresso attraverso frequenti dimostrazioni popolari, nelle quali Ciceruacchio risultò sempre tra gli organizzatori.
Così, quando il 25 marzo 1847, Pio IX si recò alla Basilica di Santa Maria sopra Minerva, il capopopolo Angelo Brunetti condusse, più volte, sul suo cammino acclamanti squadre di trasteverini, di monticiani e di regolanti.
Quando un mese dopo il Papa si recò in carrozza a Subiaco, Ciceruacchio lo accompagnò per un buon tratto alla testa di cento popolani a cavallo.
Il 17 giugno, anniversario dell’ascesa di Pio IX al pontificato, dalla provincia accorsero migliaia di cittadini e rappresentanze municipali con bandiere, stendardi, gonfaloni e concerti musicali. I romani, riuniti nel Foro, si ordinarono in rioni attorno al proprio vessillo e al proprio capopopolo. Ciceruacchio era il capopopolo e vessillifero del quarto rione, vale a dire il Campo Marzio. Era anche il capo supremo del Popolo che, preceduto dalla banda musicale e seguito dalle magistrature civiche, salì al Campidoglio e di là mosse al Quirinale per ricevere la benedizione papale.
Ciceruacchio era ormai divenuto l’idolo di moltissimi cittadini romani. Uno scultore lo rappresentò in una statuetta, un poeta lo esaltò in nove sestine, uno scrittore contemporaneo ne pubblicò una succinta biografia. Sui giornali dell’epoca erano pubblicati articoli che lo elogiavano, il giorno del suo onomastico, al banchetto offerto in suo onore, intervennero più di duecento persone.
Addirittura Gioberti, in un’occasione affermò che la Roma moderna poteva vantarsi del suo Ciceruacchio come l’antica di Cicerone, e a tal proposito scrisse a un amico: “Abbraccia in mio nome Menenio Agrippa dell’età nostra, voglio dire il Ciceruacchio, che io stimo più di Cicerone.”
Si giunse al Capodanno del 1848. Il Circolo Romano e Ciceruacchio deliberano una dimostrazione di popolo per porgere a Pio IX gli auguri del nuovo anno, ma la manifestazione fu proibita. La folla era contrariata: si alzarono grida di sdegno. Ciceruacchio, in nome del popolo, pregò il principe Tommaso Corsini, senatore di Roma, di farsi interprete dei desideri della cittadinanza e il principe ricevette l’assicurazione che, l’indomani, il Pontefice sarebbe uscito senza la scorta delle guardie svizzere per le vie della città.
Il giorno successivo il Papa mantenne la promessa. Una folla immensa ed entusiasta fece ala al seguito del corteo pontificio, agitando una bandiera bianca e gialla sulla quale si leggeva il significativo invito: “Coraggio, Santo Padre, fidatevi del Popolo!”, mentre la folla urlava festante: “Viva Pio IX solo!”
I festeggiamenti proseguirono tutto il giorno, ma ad un certo punto iniziò a circolare la voce che il Papa stesse male. Pio IX, pallido come un cadavere, si affrettò a tornare al Quirinale. Iniziò a piovere copiosamente ma la folla non abbandonò la strada, lo accompagnò al Quirinale ed attese invano la benedizione. Dal balcone si affacciò un prelato, il quale annunciò che il Pontefice era malato.
Al termine di quella famosa giornata si comprese che comunque era accaduto qualcosa di storico. Il vero trionfatore di quelle giornate fu Ciceruacchio, il quale mostrò la sua grande influenza sulla folla da lui guidata. Uno storico degli avvenimenti di quei giorni scrisse perentoriamente: “Da quel momento Ciceruacchio fu il re di Roma.”
Intanto, nel popolo prese sempre più piede l’aspirazione verso un regime liberale e si sviluppò sempre più la coscienza nazionale.
Nel frattempo accaddero anche eventi politicamente e storicamente rilevanti. Ferdinando II, re di Napoli, fu costretto a concedere la Costituzione, dando un esempio che Carlo Alberto e Pio IX saranno poi obbligati ad imitare.
Nel mese di febbraio del 1848 scoppiarono una serie di rivolte rivoluzionarie a Parigi. Nel mese di marzo, nel Lombardo-Veneto, Milano insorse e scacciò gli austriaci. Il re di Sardegna dichiarò guerra all’Austria e da ogni parte d’Italia accorsero volontari a dare man forte alle truppe regolari dell’esercito piemontese.
A Roma, la risonanza degli avvenimenti parigini e milanesi fu immensa. Alla notizia della cacciata degli austriaci la folla accorse al palazzo d’Austria e abbatté gli stemmi dall’aquila bicipite. Le campane suonarono a festa e su alcuni edifici sventolò il tricolore. Nel pomeriggio, dinanzi a molte migliaia di persone assiepate tra i resti maestosi del Colosseo, la parola infuocata e trascinante del padre barnabita Alessandro Gavazzi provocò un’ondata impetuosa di entusiasmo patriottico.
Il governo romano fu costretto ad autorizzare l’arruolamento dei volontari: a Piazza del Popolo e al Colosseo si aprirono i registri per le iscrizioni e migliaia di cittadini accorsero per arruolarsi volontari. Ciceruacchio fu tra i primi ad arruolarsi. Ma nella famosa allocuzione del 29 aprile 1848, il Papa affermò che, in qualità di vicario in terra di colui che è autore di pace, non poteva accogliere l’invito dei suoi popoli che lo avrebbero voluto in armi contro l’Austria.
Tale affermazione del Papa creò un malessere enorme tra la popolazione romana. Si gridò al tradimento.
Nel mese di luglio del 1848, il Papa fu ancora applaudito a Trastevere, che era il rione dove l’autorità di Ciceruacchio era maggiormente sentita, ma nei primi di settembre dello stesso anno, mentre era di ritorno da San Carlo al Corso, fu oggetto di manifestazioni ostili da parte della folla, guidata da Luigi Brunetti, il figlio maggiore di Ciceruacchio.
Luigi, giovane e robusto, biondo e di bell’aspetto, fu coinvolto nelle spire di una congiura politica e accettò, o si offrì, di assassinare lo statista pescarese Pellegrino Rossi, da Pio IX chiamato a reggere la politica dello Stato Pontificio e fermamente intenzionato a non deludere le aspettative del Papa.
Il 15 novembre 1848, mentre Pellegrino Rossi saliva le scale del Palazzo della Cancelleria, il giovane Luigi Brunetti uscì dalla folla assiepata tutta intorno, gli si avvicinò e gli vibrò un violento colpo di pugnale. Lo statista stramazzò al suolo con la carotide recisa.
Ciceruacchio risultò estraneo alla congiura, ma il delitto compiuto dal figlio lo sconvolse letteralmente. Allo storico Luigi Carlo Farini, che subito dopo l’uccisione di Pellegrino Rossi, lo incontrò in Campo de’ Fiori, disse tristemente: “Queste sono infamie che io vorrei lavare con il mio sangue; tanta è la vergogna e il dolore che ne provo!”
L’assassinio del ministro accelerò i tempi. Pio IX, sentendosi ormai sfuggire di mano il controllo della situazione e paventando mali peggiori, il 24 novembre 1848, travestito fuggì da Roma in carrozza per recarsi a Gaeta, ospite del re di Napoli.
Alla notizia della fuga del Papa, il popolo romano si agitò. Ciceruacchio arringò la folla in Trastevere gridando: “Er Papa vada dove je pare. Volemo l’Italia; L’Italia volemo.”. Eppure tra le fiorite espressioni, che colorarono il suo comizio in romanesco, quelle che si riferiscono al Pontefice furono le meno pesanti e le più pudiche. Ne trapelò, più il cruccio, che lo sdegno, più il rammarico che il rancore, più il dolore che l’odio.
Venuta meno la speranza di far tornare il Papa a Roma, gli uomini che tenevano in mano le redini politiche dello Stato si orientarono verso la proclamazione della Repubblica, circostanza che implicava la dichiarazione di decadenza dello Stato temporale dei papi.
Fu così che il 9 febbraio 1849, a capo delle sue schiere di seguaci, Ciceruacchio salì le scale del Campidoglio per assistere alla proclamazione della Repubblica.
Nel marzo del 1849, Giuseppe Mazzini, capo del Triumvirato, lo inviò in Toscana per un’importante missione politica.
Ma il destino della Repubblica Romana era segnato. Per abbatterla si mobilitarono gli eserciti delle potenze straniere che risposero all’appello del Pontefice. Spettò al corpo di spedizione francese comandato dal generale Nicolas Charles Victor Oudinot il compito – e l’onta – di travolgere la resistenza eroica dei difensori di Roma. Inutili risultarono i prodigi di valore compiuti dai bersaglieri di Luciano Manara, dai garibaldini di Giuseppe Garibaldi, nonché dai soldati dell’esercito regolare comandato dal generale Pietro Rosselli.
La forza militare prevalse sul coraggio e l’eroismo.
Il 2 luglio 1849, alla vigilia dell’ingresso delle truppe di Oudinot a Roma, Giuseppe Garibaldi riunì i soldati e i cittadini in Piazza San Pietro. Era mezzogiorno. L’immensa piazza era gremita. L’arrivo di Garibaldi fu salutato da entusiastiche acclamazioni. Il generale, giunto al centro della piazza, rivolse alla folla un breve, conciso, disincantato e storico discorso: «Da chi mi segue pretendo amore gagliardo di Patria, prove di cuore ardentissime. Non prometto paghe, non ozi molli. Acqua, pane quando se ne avrà. Chi non sia da tanto rimanga. Varcata la porta di Roma, un passo fatto indietro, sarà passo di morte.«
Nonostante queste prospettive, al pomeriggio, a Piazza San Giovanni, accorsero diverse migliaia di uomini. All’appello risposero tutti i migliori. Si notava padre Ugo Bassi con la camicia rossa e il crocifisso sul petto. Si ammirava Anita Garibaldi nella divisa della gloriosa Legione Italiana. Si distinguevano tutti i fedelissimi di Garibaldi.
Vi era anche un fanciullo di non più di tredici anni, che rappresentava una nota di disarmata gentilezza e di inconsapevole temerità tra una folla di prodi induriti nell’aspro mestiere delle armi, pronti a ogni rischio, votati a ogni audacia. Questo fanciullo era insieme con suo padre, il romano Ciceruacchio, che in abiti borghesi, montato su di un piccolo cavallo, non aveva anche lui un piglio militare, piuttosto, l’aria di un buon padre di famiglia, che eventi turbinosi e imprevisti avevano sottratto alla propria famiglia ed al proprio lavoro.
La sera stessa la colonna iniziò l’epica marcia. Intendeva raggiungere Venezia per sostenerla contro il tenace assedio austriaco. In quella strana colonna la figura di Ciceruacchio era una delle più importanti. I soldati lo rispettavano e lo ascoltavano, Garibaldi gli manifestava un’amicizia e una fiducia particolari; la gente dei paesi, nei quali si sostava, lo indicava con il dito, mentre le più importanti famiglie gareggiavano nell’offrirgli ospitalità.
Ma Ciceruacchio non mostrava solo la sua fama: serbava anche i suoi difetti, l’impulsività e l’irascibilità, pronte a esplodere a ogni minima provocazione.
Il 5 luglio 1849, Giuseppe Mazzini proclamò un discorso ai cittadini romani:
«Romani!
La forza brutale ha sottomesso la vostra città; ma non mutato o scemato i vostri diritti. La Repubblica Romana vive eterna, inviolabile nel suffragio dei liberi che la proclamarono, nella adesione spontanea di tutti gli elementi dello Stato, nella fede dei popoli che hanno ammirato la lunga nostra difesa, nel sangue dei martiri che caddero sotto le nostre mura per essa.
Tradiscano a posta loro gl’invasori le loro solenne promesse. Dio non tradisce le sue. Durate costanti e fedeli al voto dell’anima vostra, nella prova alla quale Ei vuole che per poco voi soggiacciate; e non diffidate dell’avvenire. Brevi sono i sogni della violenza, e infallibile il trionfo d’un Popolo che spera, combatte e soffre per la Giustizia e per la santissima Libertà.
Voi deste luminosa testimonianza di coraggio militare; sappiate darla di coraggio civile!
Dai municipii esca ripetuta con fermezza tranquilla d’accento la dichiarazione ch’essi aderiscono volontari alla forma repubblicana e all’abolizione del governo temporale del Papa; e che riterranno illegale qualunque governo s’impianti senza l’approvazione liberamente data dal Popolo; poi occorrendo si sciolgano.
Per le vie, nei teatri, in ogni luogo di convegno, sorga un grido: «Fuori il governo dei preti! Libero Voto!»
I vostri padri, o Romani, furon grandi non tanto perché sapevano vincere, quanto perché non disperavano nei rovesci.
In nome di Dio e del Popolo siate grande come i vostri padri. Oggi come allora, e più che allora, avete un mondo, il mondo italiano in custodia.
La vostra Assemblea non è spenta, è dispersa. I vostri Triumviri, sospesa per forza di cose la loro pubblica azione, vegliano a scegliere a norma della vostra condotta, il momento opportuno per riconvocarla.
Giuseppe Mazzini
Roma, 5 luglio 1849«
Il 31 luglio 1849, la colonna armata proveniente da Roma entrò nella Repubblica di San Marino, dove Garibaldi decise di scioglierla, lasciando a tutti la libertà di andarsene. Garibaldi, invece, decise di proseguire la marcia verso Venezia e manifestò il suo proposito a Ciceruacchio e a pochi altri.
A Cesenatico, il drappello superstite fu posto dinanzi a una ferrea alternativa: o arrendersi al nemico, oppure tentare di sfuggire alla morsa del nemico e di raggiungere Venezia. Decisero per la seconda alternativa e si imbarcarono su tredici barconi. Ma questi, appena al largo, si trovano accerchiati da navi austriache. Quattro barconi riuscirono escono a toccare terra, a Magnavacca; ma i centosessantadue garibaldini imbarcati sugli altri barconi caddero nelle mani degli austriaci. Tra l’equipaggio dei barconi scampati alla cattura vi furono Giuseppe Garibaldi, Ugo Bassi e Ciceruacchio. La presenza di numerose pattuglie nei dintorni e le gravi condizioni di Anita Garibaldi, che, fin dalla prima parte della marcia, era malata, indussero Garibaldi a frazionare il gruppo sparuto dei superstiti.
“Addio Angelo”, esclamò Garibaldi accomiatandosi da Ciceruacchio. “Speriamo di rivederci presto sui campi di battaglia, speriamo di combattere insieme per la libertà italiana.”
“Oh, sì, speriamo!”, esclamò melanconicamente Angelo Brunetti, presago degli eventi funesti.
Il corpo dei volontari garibaldini, che era andato sempre più assottigliandosi mentre avanzava nel suo cammino, in quel momento si disperse in piccoli gruppi.
Garibaldi riuscì a raggiungere Genova, da dove, poi si imbarcherà per l’America; ma, nelle paludi di Comacchio, il 4 agosto 1849, perderà la sua amatissima Anita.
Il gruppo capeggiato da Ciceruacchio, composto da otto persone, dopo avere vagato tra le paludi di Mesola per alcuni giorni, con l’aiuto di alcuni abitanti locali riuscì a passare il Po. Ma nella frazione di Donzella situata nell’odierno comune di Porto Tolle in provincia di Rovigo, entrati nell’osteria di Fortunato Chiarelli, detto il Capitin, furono denunciati dallo stesso oste agli austriaci, che li catturarono e li condussero a Ca’ Tiepolo, dove era di stanza una guarnigione croata dell’esercito austriaco, comandata da un giovane tenente croato di nome Luka Rokavina.
Al momento dell’arresto, i fuggitivi erano inermi, ma inermi o armati, per lo spietato tenente croato non faceva differenza. Tra quella comitiva di uomini logori e sfiniti, vi era anche un bambino, il figlio tredicenne di Ciceruacchio.
I prigionieri furono interrogati in caserma e subito dopo il tenente croato Luka Rokavina sentenziò la condanna a morte per tutti gli otto membri del gruppo di Ciceruacchio.
I croati fecero scavare da sei contadini precettati nella zona, otto fosse lungo l’argine della riva destra del Po. Poi, in fila per due, gli otto prigionieri repubblicani furono scortati verso il luogo scelto per la loro fucilazione.
Nella tarda sera del 10 agosto 1849, le bianche giubbe dei soldati croati facenti parte dell’esercito austriaco, al riflesso della diffusa luce lunare, conferivano a tutto il plotone in marcia un aspetto fantasmagorico e irreale. Ciceruacchio, che nel frattempo aveva ritrovato la sua vena oratoria, marciava impavido in prima fila sorreggendo il figlio.
Si giunse alla meta fu dato l’alt. Mentre il plotone di esecuzione si schierava per l’esecuzione, ai condannati furono apposte le bende agli occhi. Ciceruacchio le rifiutò ed esortò i suoi compagni a dimostrare agli austriaci e ai croati come i romani sapessero morire impavidamente.
A mezzanotte del 10 agosto 1849, una secca scarica di spari pose fine alla gloriosa iniziativa degli otto sfortunati fuggitivi. Angelo Brunetti fu fucilato insieme al figlio Lorenzo di tredici anni, a Luigi Bossi di Terni (che era, in realtà, il figlio maggiore di Angelo Brunetti, Luigi Brunetti, e aveva cambiato nome dopo l’assassinio di Pellegrino Rossi), al sacerdote Stefano Ramorino, a Lorenzo Parodi di Genova, a Francesco Laudadio di Narni, a Paolo Baccigalupi e a Gaetano Fraternali, ambedue di Roma.
La strage di Ca’ Tiepolo restò sconosciuta a Roma per circa dieci anni. In città circolarono varie voci sulla sorte di Ciceruacchio. Chi lo voleva rifugiato a Marsiglia, chi invece trasferitosi in Crimea, intento al commercio. Certamente fu creduto vivo in quanto il tribunale della Sacra Consulta imbastì due processi contro di lui contumace. Solo il 28 ottobre 1859, dopo che Giuseppe Garibaldi fece pubblicare sul Monitore di Bologna una lettera di don Luigi Rivalta, cappellano di Goro, fu noto a tutta l’Italia il martirio subito dall’eroico Angelo Brunetti.
Garibaldi stesso scrisse a don Luigi Rivalta:
«È gran tempo che una voce vaga e misteriosa aveva recato novella agli Italiani come sulle rive dell’Adriatico avesse avuto luogo una luttuosa tragedia. Dicevasi, infatti, come Ciceruacchio, l’egregio popolano di Roma, dopo la presa della patria città si avviasse con due figli giovanetti alla volta di Venezia, e nell’atto d’imbarcarsi fosse preso dagli Austriaci, e, insieme ai figli, barbaramente fucilato. Non mancarono né allora né adesso giornali prezzolati dall’Austria o dai preti, che negassero colla più sfacciata pertinacia il fatto surriferito, tentando di mascherarlo colle più sottili menzogne.
Alcuni, infatti, accertavano essere Ciceruacchio annegato nell’Adriatico, mentre si recava a Venezia; altri, più recentemente, assicurano che il mio sventurato compagno seguì le armate guerreggianti in Crimea, facendo commercio di viveri.
Volendo io svelare all’Europa un’ultima vergogna dell’Austria, e bramando con tutto il cuore di conoscere la sorte di persona a me cara cotanto e sì lungamente cercata, incito tutti coloro, che ne avessero contezza, a farmene partecipe.
In replica alle mie premure, ricevo la seguente lettera, la quale sparge luce incontestabile sul fatto in questione, e che raccomando alla vostra gentilezza di pubblicare.
Giuseppe Garibaldi«
Don Luigi Rivalta rispose a Garibaldi scrivendo questa lettera:
«A Sua Eccellenza il Generale Giuseppe Garibaldi.
Vostra Eccellenza si compiacerà di far sapere a tutti coloro che hanno osato di scrivere che Angelo Brunetti detto Ciceruacchio e i suoi figli erano in Crimea a fare i vivandieri, ch’essi hanno troppo solennemente ingiuriato alla verità. Invece quei generosi italiani furono senza alcun dubbio fucilati dagli austriaci a Ca’ Tiepolo.
Latitanti per alcuni giorni nel bosco di Mesola sette de’ vostri soldati, verso i primi di agosto del 1849, riuscirono con l’aiuto di alcuni goresi a passare il Po, e ad entrare nel Veneto coll’idea di recarsi a Venezia. Era tutto disposto per condurveli, quando l’infame oste, che li aveva alloggiati, li tradì, consegnandoli inermi nelle mani di un barbaro capitano austriaco, che li fece immediatamente fucilare, subito che conobbe che erano vostri soldati.
Vi era fra essi un giovine di circa 15 anni e un prete. Questi da tutti i connotati che potei rilevare, era il vostro cappellano Stefano Ramorino, nativo del circondario di Genova, quello stesso che insieme al vostro segretario capitano Guglielmo Cenni mi fece nominare dal campo presso Sarliano vostro aggiunto all’Uditorato di Guerra. Nel mentre che col più profondo dolore del mio cuore annunzio all’Eccellenza Vostra un fatto così barbaro, assicurandola che il nome di quell’infame oste è già segno della comune esecrazione fra i popolani di Ca’ Tiepolo e di Contarina, mi procuro il bene di proferirmi coi sensi della più distinta considerazione dell’Eccellenza Vostra Illustrissima.
Devotissimo ed affezionatissimo
don Luigi dott. Rivalta
ex-arciprete di San Martino presso Rovigo
cappellano curato di Goro
Bologna, lì 15 di ottobre 1859«
Nel 1892, si formò un comitato popolare per un monumento all’eroico Angelo Brunetti. Lo scultore siciliano Ettore Ximenes realizzò un gesso che fu anche presentato durante l’esposizione di Torino del 1880. Nelle intenzioni del comitato, il monumento doveva essere collocato in una posizione tale che lo sguardo di Ciceruacchio fosse rivolto – come per Giordano Bruno – verso il Vaticano, simboleggiando una dichiarata accusa contro il potere temporale dei papi.
Nel 1900, il gesso di Ximenes venne fuso in bronzo e, nel 1907, fu collocato vicino al Ponte Margherita sul Lungotevere Flaminio, ora Arnaldo da Brescia, ma con il volto non già rivolto a guardare la Basilica di San Pietro, bensì verso la città. Sul lato anteriore figura, questa dedica: “A CICERUACCHIO – IL POPOLO –”.
La scultura fu spostata, nel 1959, sul Lungotevere in Augusta. Nel marzo 2011, in occasione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, il monumento a Ciceruacchio, già spostato nel 1960 in occasione della creazione del sottovia di Passeggiata di Ripetta, è stato trasferito al Gianicolo. La nuova collocazione, poco prima dell’uscita verso San Pancrazio, accanto al viale intitolato al figlio Lorenzo, ha restituito al monumento a Ciceruacchio, prima sistemato ai margini di un’arteria di rapido scorrimento, il giusto decoro, trasferendolo nel luogo simbolo del Risorgimento romano. Solo nel 1879, su espressa volontà di Garibaldi, del Comune di Roma e della Società Veterani del 1848-49, i resti dei patrioti furono uniti agli altri caduti del 1849, nell’ossario al Gianicolo a Roma.
Questa è la storia di Ciceruacchio, che rappresentò, per forza, carattere e per l’attiva partecipazione alla vita politica della sua città, una figura cara ai romani. L’amore per la sua città e per la patria è stato reso in modo magnifico nel film «In nome del popolo sovrano» di Luigi Magni (1990), che racconta l’epopea della seconda Repubblica Romana. Ciceruacchio è impersonato da Nino Manfredi e queste sono le parole della commovente scena del film antecedente la fucilazione: “Come ti chiami? Angelo Brunetti, Eccellenza, detto Ciceruacchio: gonfaloniere de Campo Marzio, di professione carrettiere (si sente da come parlo)… dice… Allora perché ti sei impicciato de cose che non te riguardano? … dico… Perché… io so’ carrettiere ma a tempo perso so’ omo… e l’omo si impiccia Eccellenza. Difatti vie’ Garibaldi e dice: “Famo l’Italia”, e io che fo’? Nun m’empiccio? Io so’ romano, Eccellenza, ma a tempo perso so’ italiano: è colpa? …dice… Sì… Ah! mo’ è colpa esse’ italiano?… No… dice lui. E’ colpa perché tu hai difeso l’anarchia e la rivoluzione. Ma nossignore, Eccellenza! Io ho difeso Roma, er paese mio. E lei ce lo sa meglio de me… Ma come, i francesi me pijano a cannonate e io nun m’empiccio? Nun me riguarda? Insomma, Eccellenza, se annamo a strigne, che avemo fatto de male? Sta creatura manco a dillo… ma io? Io c’ho fatto? Ho voluto bene a Roma, embè? E da quanno in qua l’amor de patria è diventato un delitto? Però se nella legge vostra è un delitto volé bene ar paese proprio… allora io so’ corpevole… anzi so’ reo confesso… e m’offenderebbe pure se me rimandaste assorto. Per cui, Eccellenza, spero che lei si sia persuasa… e così voi che mi sembrate… Oh! Ma me state a sentì? No… dicevo… spero che pure voi ve siete appersuasi… No ma che fate?… Il ragazzino no!”
La figura di Ciceruacchio è storicamente molto importante ma purtroppo, anche nei libri di testo di storia adottati nelle scuole italiane, tale figura è praticamente ignorata. Si riporta il suo nome come uno degli esponenti della storia della Repubblica Romana, ma oltre il nome purtroppo nient’altro. Invece la storia dovrebbe essere insegnata agli studenti facendo comprendere loro anche il tessuto sociale dove i personaggi studiati si collocavano. È infatti proprio nel suo ruolo di congiunzione tra le schiere di nobili illuminati e borghesi pensatori che affollavano i caffè di Roma da una parte, e le masse del popolo più misero dall’altra, quello che si destreggiava tra bevute in osteria e risse al coltello, che la figura di Ciceruacchio trova la più degna collocazione. Senza personalità come la sua, in grado di tradurre in azione la teoria, capace tanto di sedare quanto di accendere gli animi delle schiere analfabete e indisciplinate che lottarono in difesa della Repubblica assediata, non avremmo effettiva testimonianza di quale ruolo fondamentale giocarono le masse popolari nei moti rivoluzionari che costituirono il Risorgimento.
Masse, soprattutto quelle urbane, molto più politicizzate e consapevoli di quanto non si consideri in certi ambienti storiografici.
Luca D’Agostini
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Fonti
Domenico Demarco, Una rivoluzione sociale. La repubblica Romana del 1849, Mario Fiorentino Editore, Napoli 1944
Raffaello Giovagnoli, Ciceruacchio e Don Pirlone: ricordi storici della rivoluzione romana dal 1846 al 1849, Internet Archive, San Francisco 2015
Claudio Modena, Ciceruacchio. Angelo Brunetti, capopopolo di Roma, Ugo Mursia Editore, Milano 2011
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