Questa è la storia della potente famiglia Saud, da cui il nome «Saudita». L’Arabia Saudita è un paese centrale nella geopolitica mondiale, primo produttore al mondo di petrolio ma al contempo pieno di contraddizioni, focolaio di grandi tensioni e coinvolto nei finanziamenti al terrorismo.
Molti analisti geopolitici sono convinti che la potente famiglia Saud che governa l’Arabia, sia capace di condizionare totalmente la politica internazionale e l’economia su scala mondiale, tanto da influenzare gli equilibri dell’intero pianeta. Ma è proprio così?
Da un’attenta analisi storica, economica e soprattutto geopolitica, il Regno dei Saud appare come una confederazione tribale, una consociazione familiare, un’unione clanica in cui il potere è detenuto da alcune migliaia di consanguinei. Non uno Stato, tantomeno una nazione. La soggettività geopolitica dell’Arabia Saudita è tenue, gli equilibri tra i rami familiari influenzabili dall’esterno, la sua linea politica internazionale orientabile dal suo principale alleato, gli Stati Uniti.
La storia politica di questa famiglia nacque nel 1744 quando l’imam Muhammad ibn ʿAbd al-Wahhab e il principe Muhammad ibn Saud crearono un’alleanza per costituire un’entità politica e religiosa allo scopo, secondo il loro punto di vista, di ripulire la penisola Arabica da pratiche eretiche e deviazioni dall’ortodossia dell’Islam. Pratiche come l’offerta di preghiere a figure di santi, pellegrinaggi a tombe e moschee speciali, venerare alberi, grotte e pietre, furono eliminate. Dall’istituzione del primo stato saudita nessuna di queste pratiche fu più eseguita in Arabia Saudita. Nel 1744, sia Muhammad ibn ʿAbd al-Wahhab che Muhammad ibn Saud giurarono di raggiungere il loro obiettivo. Il matrimonio fra il figlio di Saud, Abd al-Aziz ibn Muhammed ibn Saud e la figlia dell’imam contribuì a suggellare il patto tra le loro famiglie. La dinastia saudita si insediò nella città di Dirʿiyya e si estese in Arabia dapprima conquistando il Najd, e quindi rafforzando la sua influenza su tutta la costa orientale, che va dal Kuwait fino ai confini settentrionali dell’Oman. Inoltre, Saud portò gli altopiani di ‘Asir sotto la sua sovranità, mentre Muhammad ibn ʿAbd al-Wahhab scrisse moltissimi messaggi agli studiosi per convincerli ad entrare nella jihad, attraverso il dibattito e il lavoro scientifico, allo scopo di rimuovere gli elementi di politeismo che esistevano nei loro paesi come Iraq, Egitto, India, Yemen e Siria. Dopo molte campagne militari, ibn Saud morì nel 1765, lasciando la leadership a suo figlio Abd al-Aziz.
Abd al-Aziz ibn Muhammad proseguì l’espansione del regno iniziata da suo padre, fino a prendere il comando degli sciiti nella città santa di Kerbela nel 1801. Qui distrussero lapidi di santi e monumenti, che l’ultra-conservatrice ala salafita dell’Islam considerava atti di politeismo. Alla sua morte, avvenuta nel 1803, undici anni dopo quella dell’imam Muhammad ibn ʿAbd al-Wahhab, la leadership del regno passò a suo figlio Saud.
Saud ibn Abd al-Aziz mise insieme un esercito per portare la regione dell’Hegiaz (costa occidentale della penisola arabica) sotto il suo governo. Ta’if fu la prima città ad essere conquistata, e successivamente caddero le città sante della Mecca e di Medina, sotto l’autorità dell’Impero Ottomano dal 1517. Pertanto gli Ottomani affidarono il compito di indebolire il potere dei Saud al potente viceré di Egitto, Mehmet Ali. Ciò diede avvio alla guerra ottomano-saudita, nella quale Mehmet Ali inviò le sue truppe nella regione dell’Hegiaz via mare, guidate da suo figlio, Ibrahim Pascià, fin nel cuore del Najd, conquistando città dopo città.
Abd Allah ibn Saud, figlio e successore di Saud, fu incapace di impedire la riconquista della regione. Alla fine, Ibrahim raggiunse la capitale saudita a Dirʿiyya e la pose sotto assedio per diversi mesi fino alla resa dell’inverno del 1818. Ibrahim fece prigionieri molti membri del clan al-Saud e Wahhabiti, e li inviò in Egitto e nella capitale ottomana. Prima di partire ordinò la distruzione sistematica di Dirʿiyya, le cui rovine rimasero intoccate per sempre. Abd Allah ibn Saud fu decapitato nella capitale ottomana di Istanbul e la sua testa mozzata gettata nelle acque del Bosforo, segnando così la fine dell’emirato di Dirʿiyya o primo stato saudita. Mushari ibn Saud, un fratello del re Abd Allah ibn Saud, tentò di riconquistare il potere nel 1819, ma fu catturato dagli egiziani e ucciso.
Turki ibn Abd Allah ibn Muhammad, un nipote del primo re saudita Muhammad ibn Saud, riuscì invece a sfuggire alla cattura dagli egiziani. Nel 1824 egli fu in grado di espellere le forze nemiche ed i loro alleati locali da Riad e dai suoi dintorni ed è considerato il fondatore della seconda dinastia saudita.
Turki ibn Abd Allah ibn Muhammad, conquistata Riad agli egiziani, la stabilì come capitale del secondo stato saudita, e vi richiamò molti parenti che erano sfuggiti alla prigionia in Egitto, tra cui suo figlio Faysal. Anche questo Stato riconobbe la sovranità formale dell’Impero Ottomano, cui pagava un modesto tributo annuale. Nel 1834 Turki fu assassinato da Mishari ibn Abd al-Rahman, un lontano cugino, ma suo figlio Faysal cinse d’assedio Riad e lo fece giustiziare.
Faysal ibn Turki fu il sovrano più importante del secondo regno saudita. Nel 1838, tuttavia, egli dovette affrontare una nuova invasione del Najd da parte degli egiziani, la popolazione locale non fu disposta a resistere e Faysal fu sconfitto e portato in Egitto come prigioniero una seconda volta.
Gli egiziani misero al potere Khalid ibn Saud, l’ultimo fratello superstite di Abd Allah ibn Saud e pronipote di Muhammad ibn Saud, che aveva trascorso molti anni nella corte egiziana. Khalid si installò a Riad ed era sostenuto dalle truppe egiziane. Nel 1840, tuttavia, i conflitti esterni costrinsero gli egiziani a ritirare tutte le loro milizie dalla penisola araba, lasciando Khalid con poco sostegno. Visto dalla maggior parte degli abitanti del luogo come niente di più che un governatore egiziano, Khalid fu rovesciato poco dopo da Abd Allah bin Thuniyyan, appartenente al ramo Al Thuniyyan della famiglia Al Saud.
Faysal ibn Turki fu liberato in quell’anno e, aiutato dagli emiri di Ha’il, della dinastia al-Rashid, fu in grado di riconquistare Riad e tornare al potere. In seguito nominò suo figlio Abd Allah principe ereditario e divise i suoi domini tra i suoi tre figli: Abd Allah, Saud e Muhammad. Alla sua morte nel 1865, gli succedette suo figlio Abd Allah.
Abd Allah ibn Faysal succedette al padre Faysal, ma fu presto sfidato da suo fratello Saud ibn Faysal. I due fratelli combatterono una lunga guerra civile e la sovranità su Riad fu a lungo contesa, in seguito anche con un altro fratello Abd al-Rahman ibn Faysal.
Approfittando del conflitto dinastico in corso tra i figli di Faysal, l’emiro di Ha’il, Muhammad ibn Abd Allah ibn Rashid, in precedenza vassallo dello stato saudita, intervenne nel conflitto e aumentò il proprio potere. A poco a poco, ibn Rashid estese la sua autorità su gran parte del Najd, conquistando infine la capitale saudita Riad, con la battaglia di Mulayda del 1891, espellendo definitivamente dal Najd l’ultimo re saudita, Abd al-Rahman ibn Faysal.
A causa delle lotte dinastiche tra i figli di Faysal, la dinastia saudita soccombette alla dinastia al-Rashid degli emiri di Ha’il, fondatori dell’emirato del Jebel Shammar, che incorporò l’emirato del Najd. I Rashid furono alleati dell’Impero Ottomano, mentre i Saud fuggirono in esilio in Kuwait.
Nel 1902 Abd al-ʿAziz ibn Saud (che per comodità chiameremo «re Aziz»), bisnipote del fondatore della dinastia, si pose a capo di una fazione composta da quaranta tra fratelli e cugini, decisi a restaurare Il potere della famiglia. Il primo passo fu la presa di Riad, l’antica capitale del Regno Saudita.

Re Aziz
Re Aziz aveva una visione chiara, desiderava che il suo paese diventasse una nazione, uno stato universalmente riconosciuto, dotato di ospedali, strade, scuole, industrie, tutto ciò che caratterizza uno stato moderno. Re Aziz desiderava che il paese cessasse di essere una grande regione senza alcun peso politico internazionale e preda delle scorribande delle varie tribù. Voleva costituire uno stato in grado di giocare un ruolo fondamentale nello scacchiere mondiale.
Ma per conquistare l’intera penisola arabica Re Aziz sapeva di aver bisogno di validi guerrieri, per questo motivo si alleò con la tribù beduina degli Ikhwan, detti anche Fratelli Musulmani, che erano e sono degli integralisti. Le truppe degli Ikhwan furono inarrestabili, grazie a loro Aziz conquistò l’interno del paese, provincia dopo provincia dell’ immenso deserto. Il suo unico obiettivo era mettere le mani sulla zona costiera dell’Hegiaz e la sua capitale, La Mecca. Il luogo più santo dell’Islam avrebbe rappresentato il gioiello più prezioso della corona. Il suo sogno, la conquista della città santa, si avverò nel 1926.
Ma con la vittoria finale, per Re Aziz arrivarono anche i primi problemi. Gli Ikhwan infatti ruppero l’alleanza, gli si rivoltarono contro accusandolo di essere un infedele, aver traditore dell’Islam, lo incolparono di aver abbandonato la religione per la sete di potere.
Re Aziz era in difficoltà. Per realizzare il suo sogno di uno stato moderno doveva eliminare i suoi forti guerrieri, gli Ikhwan. Ma com’era possibile per colui che voleva ergersi a difensore dell’Islam, dichiarare guerra a degli alleati musulmani? L’unica via percorribile consisteva nel portare dalla sua parte le autorità religiose: gli ulema, i garanti dell’integrità del regno. Re Aziz si rivolse ai capi religiosi a Riad e disse loro: «Dovete decidere, o me o gli Ikhwan!» Gli ulema allora consultarono la legge, il Corano e l’Hadith, e capirono che re Aziz aveva ragione. A quel punto emisero la fatwa contro gli Ikhwan: «Avete sbagliato e non avete alcun diritto di ribellarvi all’autorità del Re«.
Da quel momento la famiglia al-Saud si dimostrò maestra nell’arte del compromesso. Il potere che gli ulema hanno di benedire un’azione politica o di sanzionarla con una fatwa, divenne la pietra angolare della reggenza dei Saud. Gli ulema diedero il loro consenso, re Aziz poteva schiacciare i guerrieri ribelli. Ma gli Ikhwan furono sottomessi solo temporaneamente, ad ogni crisi nella storia saudita riemergono i loro discendenti e i loro epigoni.
A quel punto re Aziz poteva dedicarsi completamente al suo progetto. Nel 1932 il Re diede ufficialmente al paese il nome della sua famiglia: era nata l’Arabia Saudita. Tuttavia, tenere unita questa immensa landa desertica fu tutt’altro che semplice. Uno dei metodi più efficaci per riuscirvi era il matrimonio. Re Aziz sposò la figlia di ognuno dei capi tribù delle zone da lui conquistate. Da queste mogli, il monarca ebbe 45 figli legittimi, dunque ogni re saudita è un diretto discendente del fondatore.
Ma costruire uno stato dal nulla richiede molti fondi. Fino a quel momento le uniche entrate provenivano dai pellegrinaggi a La Mecca. Troppo poco. Il problema più grave del paese era la mancanza d’acqua. A re Aziz il petrolio non interessava affatto. Insomma i sauditi scoprirono le loro immense riserve petrolifere quasi per caso, in realtà stavano cercando delle falde acquifere. Le riserve di petrolio furono scoperte negli anni Venti, ma estrarle non era semplice, c’era bisogno dell’aiuto degli occidentali e questo costituiva un problema per la legge islamica e per gli ulema.
Allora il Re convocò gli ulema a corte. Quando si presentava colui che lo criticava gli disse: «Voglio che tu mi spieghi perché non dovrei fare un’azione del genere. E perché sarebbe contraria all’Islam? il profeta Mohammed Salem utilizzava ebrei e cristiani e non ha mai detto: «Questi non sono musulmani, non posso venire a patti con loro». Dimmi, li ha utilizzati, sì o no?» Gli ulema risposero di sì, a quel punto lui concluse: «Bene, allora io farò lo stesso!«
Nel 1933, in Arabia Saudita sbarcarono le prime compagnie petrolifere straniere. A re Aziz non interessava da quale paese provenissero, l’importante era che pagassero immediatamente. I primi a mostrare interesse per i nuovi giacimenti furono gli inglesi e i giapponesi, ma a presentarsi con il denaro in contante furono gli statunitensi.
Nel 1944 nacque l’ARAMCO (Arabian American Oil Company), creata allo scopo di esplorare e mettere sul mercato le risorse petrolifere dell’Arabia Saudita. Ma fino 1945, per gli Stati Uniti il petrolio non era affatto una priorità. Fu la Seconda Guerra Mondiale a cambiare tutto, anche nella società statunitense. D’improvviso il petrolio era al primo posto nelle priorità ai fini della sicurezza nazionale, così per il presidente Roosevelt, il monarca Saudita divenne un prezioso alleato da corteggiare.
Fu così che i due si incontrarono. Roosevelt e re Aziz iniziarono a discutere di tre argomenti di estrema importanza: il petrolio, l’eventualità di stabilire una base militare statunitense in Arabia Saudita, e la spinosa questione palestinese. Roosevelt gli disse: «Maestà, vorrei chiederle un consiglio riguardo ad una questione interna. Molti dei miei elettori premono perché io riconosca lo stato israeliano in Palestina. Mi piacerebbe sapere qual è il suo pensiero al riguardo«. Re Aziz gli rispose: «Signor Presidente, ciò che Hitler ha fatto gli ebrei è stato terribile, davvero è la peggiore cosa che un uomo possa fare ad un suo simile. Detto questo, non capisco perché voi vogliate togliere della terra a noi per darla agli ebrei. Noi non abbiamo fatto nulla agli ebrei. Se davvero volete fare qualcosa di utile per loro, perché non gli date una parte della Germania?«
Dopo che re Aziz gli ebbe esposto la sua posizione, Roosevelt disse: «Maestà, le posso promettere fin d’ora che non verrà presa alcuna decisione senza prima aver consultato sia voi che gli ebrei. Prima di un qualsiasi accordo dovranno essere consultate entrambe le parti«. Quella di Roosevelt sarà solo la prima di una serie di promesse mai mantenute, d’altronde stiamo parlando di statunitensi.
Il Re saudita e il Presidente statunitense si scambiarono lettere per sigillare gli accordi presi. Ma Roosevelt morì il 12 aprile 1945 e alla Casa Bianca fu eletto Harry Truman. Nel novembre del 1947 le Nazioni Unite si apprestarono a votare sulla spartizione della Palestina. Il principe Faysal, secondogenito di Aziz, arrivò a New York sicuro che la promessa di Roosevelt fosse onorata anche dal suo successore.
Il 29 novembre 1947, le Nazioni Unite decisero la spartizione della Palestina. In prima fila a sostenerla c’erano gli Stati Uniti. Per Faysal fu un tradimento, per il resto dei suoi giorni coltivò una profonda diffidenza nei confronti degli Stati Uniti. Re Aziz rilasciò delle dichiarazioni molto nette esprimendo tutto il suo disappunto. In realtà le sue principali preoccupazioni riguardavano la sicurezza. Il Re saudita si sentiva accerchiato: gli Hashemiti in Iraq e Giordania, gli inglesi in Kuwait, per non parlare di tutti gli stati del golfo. Insomma era facile immaginare che qualcuno avrebbe potuto approfittare di una debolezza dell’Arabia Saudita e perciò della sua scarsa capacità di difendersi e puntare a tutte le sue ricchezze. Il paese aveva bisogno di una protezione. Ecco perché si rivolse agli Stati Uniti e sull’altare della sicurezza del suo paese, sacrificò inevitabilmente l’interesse e la preoccupazione per la questione palestinese.
Giungiamo al 1952. Il fondatore del regno saudita aveva ormai più di 70 anni e giunse il momento delicato della successione. Convocò i due figli e gli disse: «La vostra capacità di comprensione e di unità sarà alla base della continuità per il Regno, della conservazione della nostra famiglia, dell’unità e del benessere del nostro Paese. Non dovete lottare tra di voi, ne esasperare le differenze«. Il passaggio di potere insomma fu il meno traumatico possibile e avvenne in modo molto naturale. Il successore di re Aziz fu suo figlio Saud bin Abd al-Aziz Al Saud, che in questo articolo per semplicità chiameremo re Saud.

Re Saud
Quando nel 1953 re Aziz morì, la popolazione saudita ebbe paura per quello che sarebbe potuto accadere. Il Re era una forza trainante, un simbolo, l’incarnazione del potere, tutto doveva passare per lui perché era lui che aveva fatto nascere l’Arabia Saudita.
Re Saud, il successore di re Aziz, risultò però un pessimo amministratore, spese in maniera dissennata e ogni volta che si trovava in difficoltà chiedeva dei prestiti all’ARAMCO. Inoltre soffriva di un grave problema di alcolismo che gli statunitensi nascosero appositamente; per loro il monarca saudita era un alleato fondamentale. Infatti, dal 1954 , con il colpo di stato di Nasser in Egitto, tutti gli equilibri della regione erano saltati e il riavvicinamento di Nasser verso l’Unione Sovietica, costituiva per Washington fonte di notevole preoccupazione. Il pericolo che i sovietici riuscissero ad imporre la loro influenza anche nella penisola arabica, che riuscissero ad impossessarsi di quell’enorme riserva di petrolio, era una prospettiva terrificante per gli Stati Uniti.
Alla Casa Bianca c’era Eisenhower, il quale riteneva che re Saud potesse divenire un esponente di punta del mondo arabo, tale da contendere la leadership a Nasser. Così, nel febbraio 1957 il re Saud fu il primo monarchia saudita ad essere invitato per una visita ufficiale negli Stati Uniti. Eisenhower si recò all’aeroporto per accogliere re Saud di persona, un fatto alquanto insolito per il cerimoniale della presidenza degli Stati Uniti. Il presidente statunitense fece di tutto affinché la circostanza apparisse come l’incontro tra due vecchi amici.
Oggetto principale della visita di re Saud negli Stati Uniti, era la permanenza della base aerea militare statunitense di Dhahran, in Arabia Saudita. Quella base per gli Stati Uniti costituiva un avamposto strategico fondamentale per contrastare la presenza sovietica nella regione. Re Saud comprendeva bene questa necessità degli Stati Uniti ed aveva le idee molto chiare sul prezzo da esigere. In cambio dell’utilizzo gratuito della base aerea di Dhahran chiese ed ottenne carri armati, aerei militari, addestramento delle truppe saudite. L’accordo fu celebrato con il massimo risalto è re Saud fu trattato come un importante capo di stato.
Ma quando l’entusiasmo per l’accordo raggiunto lasciò spazio alle riflessioni e alle considerazioni, a Washington ci si rese conto che re Saud, per via della sua irrefrenabile passione per gli alcolici, non era certo l’uomo giusto al posto giusto. Risultò chiaro che le speranze dell’ARAMCO e del governo degli Stati Uniti erano riposte in Faysal, il fratello del re Saud. Ma la questione non era così semplice da risolvere. Rimuovere un re dal suo incarico non è cosa facile, soprattutto in Arabia Saudita dove gli elementi centrali sono la famiglia reale, gli ulema e la leadership economica. Era necessario quindi che tutti e tre questi segmenti della società fossero d’accordo sul passo da intraprendere. Tutti i fratelli della dinastia si coalizzarono contro Saud, quella era l’unica cosa da fare. Nel novembre del 1964 incontrarono gli ulema e con la loro approvazione decisero di procedere verso la destituzione del Re. Gli ulema emanarono una fatwa nei confronti di re Saud, indicando Faysal ibn Abd al-Aziz Al Saud quale prossimo re del paese.

Re Faysal
Re Faysal (come per comodità lo chiameremo nel corso dell’articolo) aveva davanti a sé sfide decisive, il suo regno era poco più che una landa desertica, mancavano scuole, strade e infrastrutture. Re Faysal era deciso a modernizzare il paese, il suo problema però era come farlo senza offendere i valori e le tradizioni islamiche. Solitamente nei paesi arabi, modernizzare significa occidentalizzare. Dunque per modernizzare il paese c’era bisogno di guardare all’Europa e agli Stati Uniti, ma il problema che sorgeva era che per migliorare il proprio tenore di vita, la popolazione non intendeva rinunciare alle proprie tradizioni e alla propria cultura ed in questo la popolazione era supportata dagli ulema.
Ma re Faysal era un esperto di Islam almeno quanto lo erano gli ulema e quindi riuscì progressivamente ad influenzarli e ad imporgli la modernizzazione. Un esempio su tutti riguardò la televisione. Gli ulema ritenevano che trasmettere programmi televisivi fosse peccato. Allora Re Faysal chiese a un imam di recitare il Corano in televisione. Poi il Re disse al popolo: «La televisione è come una spada, la si può usare per scopi malvagi oppure a fin di bene«. Gli fece capire che era solo uno strumento.
Nel 1967 tra arabi e israeliani iniziò la Guerra dei Sei Giorni. Il conflitto fece passare in secondo piano tutti i problemi interni all’Arabia Saudita. Benché fosse stata attaccata di sorpresa, Israele riuscì a capovolgere le sorti della guerra, sbaragliò gli eserciti arabi, occupando per giunta territori quattro volte più vasti di quelli di cui disponeva al momento della costituzione dello stato ebraico. La Guerra dei Sei Giorni rappresentò per re Faysal una ferita particolarmente dolorosa. Per quasi mezzo secolo da quando aveva 14 anni ed era andato a rappresentare il padre alla Conferenza di Pace di Parigi del 1919 e fino al 1967, si era posto come il rappresentante dei palestinesi e il difensore delle loro terre. Proprio per via della questione palestinese, l’amicizia tra Washington e l’Arabia Saudita non era mai stata facile, dopo il 1967 però divenne quasi impossibile. Nel mondo arabo c’era la convinzione che la sconfitta fosse dovuta al fatto che gli israeliani avevano ricevuto la copertura aerea degli Stati Uniti. Dopo la guerra del 1967, la Lega Araba accusò i sauditi di essere dei burattini nelle mani degli statunitensi, e di non essere neanche in grado di gestire il loro petrolio.
Re Faysal, spaventato e preoccupato scrisse una lettera al Presidente degli Stati Uniti, invitandolo a gestire la crisi palestinese e minacciando un deterioramento grave dei rapporti tra Arabia Saudita e Stati Uniti. A Washington quella lettera non fu presa sul serio.
Nell’ottobre del 1973 la regione fu ancora sconvolta da un conflitto: la Guerra dello Yom Kippur. Siria ed Egitto attaccarono Israele di sorpresa. In una settimana, l’esercito egiziano guadagnò importanti posizioni. Gli israeliani chiesero immediato aiuto agli Stati Uniti e il presidente Nixon non desiderava affatto passare alla storia come il responsabile della rovina di Israele. Siria ed Egitto ricevevano armi dall’Unione Sovietica e questo rendeva ancor di più insopportabile la situazione per la russofobica amministrazione statunitense. Non era ammissibile per gli Stati Uniti che le armi sovietiche avessero prevalso su quelle statunitensi.
Israele in quel momento aveva un’urgente necessità di rifornimenti di armi statunitensi e così Washington decise di organizzare un ponte aereo. Per re Faysal, ciò rappresentava l’ennesimo oltraggio. La situazione fu descritta dalle parole rilasciate durante un’intervista da Frank Jungers, all’epoca Presidente dell’ARAMCO: «La mattina dopo la decisione di organizzare un ponte aereo, ricevetti una telefonata. Il Re mi voleva vedere a Riad il prima possibile. Faysal era furibondo, a quel punto per lui l’unica risposta era il boicottaggio. Io risposi: «Maestà, non so come riuscirà a metterlo in pratica!». E lui mi disse: «Semplicemente, sarete voi a farlo!».
Fu così che il 17 ottobre del 1973, l’Arabia Saudita, il maggior produttore di petrolio al mondo, ritirò ingenti quantità di greggio dal mercato. L’improvvisa scarsità di petrolio ne fece schizzare il prezzo alle stelle e provocò un terremoto nelle economie di mezzo mondo. Re Faysal rese chiara la sua posizione, l’amministrazione statunitense si rese conto che non poteva più ignorare le sue richieste. Il petrolio divenne un’arma, Faysal cambiò per sempre l’equilibrio delle relazioni internazionali.
Nel 1974 l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti raggiunsero un accordo di massima per la definizione del confine, a tutt’oggi mai perfezionato, mentre non fu mai definito il confine con l’Oman.
Ma il braccio di ferro attuato con gli Stati Uniti, culminato con l’affronto della crisi petrolifera del 1973, compromise per sempre il regno di Faysal. Infatti, nel 1975 re Faysal fu assassinato da un nipote, il quale poi fu giustiziato dopo un’inchiesta che lo vide come unico responsabile. Che ruolo giocò la CIA in questo omicidio? Impossibile saperlo, ma ciò che è chiaro è l’atteggiamento di sfida ed irriverenza adottato da re Faysal nei confronti degli Stati Uniti. Negli eventi di questi due anni, dal 1973 con la crisi petrolifera al 1975 con l’omicidio di re Faysal, c’è tutta l’essenza dei rapporti anche odierni ed attuali tra Arabia Saudita e Stati Uniti.
Nel 1975 salì al trono Khalid bin ʿAbd al-ʿAziz Al Saud (re Khalid, come lo chiameremo per comodità), fratello del defunto Faysal.

Re Khalid
Il 7 gennaio 1975 fu revocato il blocco della vendita del petrolio, il cui prezzo maggiorato a seguito della crisi, aumentò notevolmente le entrate saudite dalla vendita dello stesso, con gran beneficio per la ricchezza interna nazionale. Così, grazie agli ingenti introiti petroliferi, si ebbe il «miracolo economico» dell’Arabia Saudita, un rapido sviluppo economico e sociale, durante il quale le città e le infrastrutture assunsero un aspetto occidentale, e l’educazione fu modernizzata.
Nel 1979 a seguito della Rivoluzione islamica in Iran, il nuovo regime iraniano cominciò ad accusare i governi della penisola araba di essere corrotti ed alleati degli occidentali, facendo presa anche su alcuni sudditi sauditi, soprattutto nella provincia sciita orientale (che è anche l’area in cui si trova la maggior parte dei pozzi di petrolio), dove vi furono rivolte nel biennio 1979-1980. Anche a La Mecca alcuni estremisti islamici protestarono contro il regime, che accusavano di essere corrotto, occupando la Grande Moschea. Lo sgombero degli occupanti pose dei problemi religiosi, perché non era lecito combattere nello spazio più sacro dell’Islam, tuttavia dopo che gli occupanti spararono i primi colpi, gli ulema emisero una fatwa che autorizzava il governo ad usare la forza per liberare la Moschea. Il governo saudita fu accusato anche di aver chiesto l’aiuto di forze speciali francesi (dunque non musulmane) per liberare la Moschea, fattore che avrebbe costituito una profanazione, ma il governo negò il fatto.
Di fronte all’affermazione dell’islamismo radicale, re Khalid reagì imponendo una maggiore osservanza dei precetti islamici, ad esempio ordinando la chiusura dei cinematografi, ed affidando agli ulema un ruolo importante nello Stato. In tal modo, l’islamismo radicale continuò a crescere.
Nel 1980 il governo saudita divenne l’unico proprietario della compagnia petrolifera monopolista ARAMCO, che fu ribattezzata SAUDI ARAMCO.
Nel giugno 1982 re Khalid morì, lasciando come successore designato il fratello Fahd bin ʿAbd al-ʿAziz Al Saud, che per comodità chiameremo re Fahd.

Re Fahd
Sotto il regno di re Fahd l’economia saudita subì un netto arresto a causa del calo mondiale del prezzo del greggio. Il regno si mantenne neutrale nel conflitto Iran-Iraq, sebbene abbassò il prezzo di vendita del greggio saudita, su pressione degli Stati Uniti, scontrandosi ripetutamente con l’Iran in seno all’OPEC, e finanziò l’Iraq per evitare una vittoria iraniana, che avrebbe portato alla rivolta degli sciiti della provincia orientale. Nel 1982, re Fahd si propose come mediatore nel conflitto, ma giustamente l’Iran non accettò questa mediazione.
Nell’agosto 1990 le truppe di Saddam Hussein invasero il Kuwait e si ammassarono lungo il confine tra Kuwait ed Arabia Saudita, lasciando temere una successiva invasione del Paese. Re Fahd permise alle truppe statunitensi e di utilizzare il territorio saudita come base delle operazioni contro la minaccia irachena, sebbene molti musulmani radicali sauditi furono contrariati dalla scelta di permettere a degli infedeli l’accesso a un territorio islamico.
Re Fahd giocò un ruolo fondamentale durante il conflitto nel Golfo e nelle fasi successive ad esso. L’Arabia Saudita accolse nel suo territorio la famiglia reale kuwaitiana e circa 400 mila profughi in fuga dai combattimenti. Nel frattempo l’azione diplomatica di re Fahd consentì di rafforzare le forze della coalizione contro l’Iraq e di definire il loro intervento come un’azione multilaterale volta al ripristino della sovranità territoriale del Kuwait. Egli agì diplomaticamente come portavoce della coalizione, contribuendo a tenerla insieme in un fronte unico, e si servì del suo ruolo di Custode delle due sacre moschee per persuadere le altre nazioni arabe e di religione islamica a sostenere lo sforzo della coalizione anti-irachena.
La presenza dei contingenti occidentali in territorio saudita sollevò feroci proteste da parte di molti musulmani radicali sauditi. Uno dei più noti fu Osama bin Laden, un miliardario saudita espulso nel 1991 dall’Arabia Saudita per la sua opposizione pubblica alla monarchia del Regno e che era stato in precedenza un alleato-chiave degli Stati Uniti per il suo sostegno anti-sovietico in Afghanistan, dove con l’appoggio saudita, pakistano e statunitense furono create organizzazioni terroristiche come al-Qaeda, nate per terrorizzare l’Unione Sovietica. Ogni qualvolta si parla di terrorismo islamico, occorre sempre ricordare chi lo ha creato, supportato e finanziato. Soprattutto quando, in modo ipocrita, ci si addolora perchè l’obiettivo di turno dell’attentato terroristico, si trova in Occidente.
La lotta alla presenza occidentale in suolo saudita si organizzò in una campagna terroristica iniziata nel novembre del 1995 con un attentato dinamitardo contro una base della Guardia Nazionale Saudita che causò la morte di sette persone. Nel giugno 1995 un veicolo bomba uccise 19 cittadini statunitensi nelle torri Khobar di al-Khobar.
Nel luglio 2005 re Fahd morì, lasciando come successore designato il fratello Abd Allah bin ʿAbd al-ʿAziz Al Saud, che per comodità chiameremo re Abd Allah.

Re Abd Allah
Re Abd Allah realizzò alcune riforme in diversi campi, come un programma di borse di studio governative che permise di inviare 70 mila studenti all’estero in più di 25 Paesi, tra cui ai primi posti Stati Uniti, Regno Unito e Australia. Inoltre rinnovò il Ministero dell’istruzione, nominando un’ex-insegnante formatasi negli Stati Uniti, Nora al-Fayez, come vice ministro e responsabile dell’istruzione femminile. Ecco che l’influenza degli Stati Uniti fu portata così anche all’interno del sistema dell’istruzione saudita.
Nel 2007 re Abd Allah si recò in visita istituzionale a Roma e fu il primo monarca saudita a fare visita al Pontefice. Di ritorno dalla visita a Roma, tenne una conferenza a La Mecca per sollecitare i capi musulmani al dialogo con ebrei e cristiani, e discutendo con studiosi islamici sulla necessità di stabilire un dialogo interreligioso.
L’Arabia Saudita co-organizzò anche una conferenza sul dialogo interreligioso svoltasi a Madrid nel luglio 2008. Nel novembre 2008 presiedette una discussione all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite sulla promozione del dialogo tra le civiltà, che vide la partecipazione dell’ex primo ministro britannico Tony Blair, del presidente israeliano Shimon Peres, del presidente statunitense George W. Bush e del re Abd Allah II di Giordania.
Nel 2011, a seguito delle proteste svoltesi nel regno, il sovrano annunciò la concessione del diritto di voto alle donne nelle elezioni municipali del 2015, e a gennaio 2013 nominò trenta donne nell’Assemblea Consultiva o Consiglio della Shura, modificando la relativa legge di mandato, stabilendo che almeno il 20 % dei componenti dell’assemblea dovessero essere di sesso femminile.
Nel gennaio 2015 re Abd Allah morì, lasciando come successore designato il fratello Salman bin ʿAbd al-ʿAziz Al Saud, che per comodità chiameremo re Salman. Re Salman è l’attuale monarca dell’Arabia Saudita.

Re Salman
Re Salman è ritenuto di tendenza conservatrice, a differenza del suo predecessore, che amava essere conosciuto come un modernizzatore.
Appena salito al trono, il Re si occupò di snellire la burocrazia dello Stato, istituendo due soli dicasteri, il Consiglio per gli affari politici e la sicurezza, che affidò al nipote Muhammad bin Nayef, e il Consiglio per gli affari economici e di sviluppo, che affidò al figlio Muhammad bin Salman, già Ministro della Difesa. Entrambi ebbero carta bianca nella riorganizzazione completa del governo.

Muhammad bin Nayef

Muhammad bin Salman
Nel marzo 2015, il re Salman ordinò di bombardare lo Yemen per combattere gli sciiti Huthi, appoggiati dall’Iran, assumendo un ruolo di primo piano nella guerra civile dello Yemen.
Nell’aprile 2015 re Salman modificò la linea di successione, nominando il nipote Muhammad bin Nayef, già Ministro dell’Interno, come Principe ereditario, e il figlio Muhammad bin Salman, già Ministro della Difesa, come vice Principe ereditario.
Nel 2016, Muhammad bin Salman, il figlio del re Salman presentò un piano strategico di riforme economiche denominato «Vision 2030», i cui punti centrali erano la trasformazione della SAUDI ARAMCO in una holding e la costituzione di un fondo sovrano di 2 mila miliardi di dollari per il lancio di progetti di investimento nei settori del turismo e intrattenimento, per rendere l’economia del regno indipendente dalla produzione e dal prezzo del petrolio.
Nel 2017, re Salman modificò nuovamente la linea di successione, nominando suo figlio Muhammad bin Salman come Principe ereditario.
Nel 2016, Muhammad bin Salman si proponeva baldanzosamente a Washington come reggente del vicereame mediorientale dell’impero statunitense; oggi si rifugia tra le braccia degli statunitensi per proteggere i confini stessi del Regno. Circostanza che rafforza ulteriormente la capacità degli Stati Uniti di orientare l’uso delle risorse saudite in linea con le priorità della propria geopolitica mediorientale, fondata in primo luogo sull’imperativo di evitare che la Turchia o l’Iran acquisiscano uno status egemonico nella regione, o peggio che le due potenze si accordino su una spartizione consensuale delle loro sovrapponibili profondità strategiche.
Per guidare l’Arabia Saudita nel futuro che immagina, il principe ereditario Mohammed bin Salman reputa necessario un potere assoluto. Come in ogni transizione illiberale, questo significa soprattutto spazzare via l’establishment pre-esistente, alzare il costo del fare opposizione, sfaldare i gruppi di potere precostituiti e in grado di sfidare la sua autorità e ostacolare la sua definitiva ascesa al trono. Tra questi, uno dei gruppi più insidiosi è stato individuato in quello degli individui vicini al defunto re Abd Allah.
Altrettanto ostili sono considerati i simpatizzanti dell’Islam politico, spesso, ma non sempre, legati al movimento «Sahwa» che sotto Mohammed bin Salman, la retorica di regime identifica con una semplificazione eccessiva come la branca saudita della Fratellanza Musulmana. Infine, particolarmente insidiose possono essere quelle voci influenti e critiche vicine alle orecchie dei potenti. Jamal Khashoggi, ucciso il 2 ottobre del 2018 dopo essere entrato nel consolato saudita a Istanbul, gravitava intorno a tutti e tre questi gruppi.
Khashoggi è stato molto più di un giornalista, come si definiva. Dagli anni Ottanta all’era di Mohammed bin Salman, ha scritto per tutti i principali giornali sauditi, da Okaz ad Al Sharq, da Al Awsat ad Arab News e Al Watan, di cui è stato caporedattore. Durante l’intervento a contingente limitato sovietico in Afghanistan, era inviato speciale nel paese e aveva accesso privilegiato a fonti di al-Qaeda. Raccoglieva informazioni che erano poi passate ai servizi segreti sauditi e occidentali. Ultimamente Khashoggi veniva spesso allontanato dai giornali sauditi per le sue prese di posizione scomode. Dopo uno di questi episodi, nei primi anni duemila, era diventato addirittura consulente del principe Turki al-Faysal, già capo dei servizi segreti sauditi e poi ambasciatore a Londra e Washington. Ritornato nel regno saudita, Khashoggi aveva ricominciato la sua attività di opinionista fino all’esilio volontario a Washington a settembre del 2017.
Khashoggi non era un dissidente nel senso tradizionale del termine. I suoi scritti non hanno mai invocato la fine della monarchia o della dinastia degli al-Saud, sono stati però sempre caratterizzati da aspre critiche verso la famiglia Saud. Contrario all’assolutismo religioso wahhabita, alla corruzione del capitalismo in stile saudita e alla sua politica economica completamente dipendente dal petrolio. E, dal 2015, era particolarmente critico della guerra in Yemen.
L’inquietante scomparsa di Jamal Khashoggi, ha dominato per settimane il racconto giornalistico di molti media occidentali, racconto tutto incentrato nella narrazione binaria «libertà contro oppressione». Ma a i rapporti tra Arabia Saudita e il resto del mondo occidentale non subiranno alcuna modifica, alcuna scossa. Infatti, già nei giorni successivi, durante e dopo la visita a Riad del segretario di Stato statunitense Mike Pompeo, si è capito che la retorica massimalistica di Washington si sarebbe gradualmente sgonfiata quando si è iniziato a parlare di «inchieste indipendenti» e della necessità di ulteriori indagini.
D’altro canto, come è stato ampiamente riportato dai media, nel giorno in cui Pompeo incontrava i vertici del sistema di potere saudita, Riad eseguiva il tanto atteso bonifico agli Stati Uniti di 100 milioni di dollari per la «stabilizzazione» della Siria orientale. Per quei livelli, 100 milioni non sono una grossa cifra. Ed è forse riduttivo e semplicistico vedere una relazione diretta tra le pressioni statunitensi – col pretesto della difesa del diritto di libertà di stampa ed espressione a partire dal caso Khashoggi – e il trasferimento di denaro saudita per il rafforzamento delle posizioni statunitensi in Medio Oriente.
Ma è difficile pensare che improvvisamente gli Stati Uniti – e con loro la Turchia e la stessa Unione Europea – siano così interessati al rispetto dei diritti fondamentali di giornalisti sauditi. Nelle carceri dell’Arabia Saudita, nel 2018 sono scomparsi 15 giornalisti. In nessuno di questi casi le cancellerie occidentali e i loro media si sono mobilitati come avvenuto per l’inquietante vicenda di Jamal Khashoggi.
A leggere il curriculum vitae di Jamal Khashoggi non si legge di un impegno politico e di una coerenza intellettuale pari a quella di molti altri intellettuali, dissidenti, giornalisti arabi, uccisi barbaramente dai regimi negli ultimi decenni. Khashoggi a lungo è stato un uomo del sistema saudita. Ha diretto media schierati apertamente con Riad. Portavoce della narrazione saudita. Certamente, per la sua formazione e per la sua sensibilità, non può essere descritto come un megafono passivo del potere forte. Ma non può essere certo considerato un paladino della difesa della libertà soltanto perché la sua corrente politica è stata esclusa dal gioco interno di Riad.
Evidentemente c’è dell’altro. Senza essere complottisti, è forse semplicemente una questione di soldi e di potere. Khashoggi era ormai entrato nel mirino e la sua uccisione è un messaggio chiaro a chiunque pensi di uscire dal seminato tracciato dal principe ereditario Mohammed bin Salman.
Luca D’Agostini
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