Dopo la partenza dalla Sicilia dell’esercito cartaginese di Annibale Magone, il quale che aveva conquistato le città di Selinunte e di Himera, arrivò nell’isola Ermocrate di Siracusa. Egli era stato privato della carica di primo cittadino ed esiliato in Grecia dai suoi avversari politici, nonostante i Siracusani gli fossero riconoscenti per aver difeso la città durante la guerra contro Atene.
Ermocrate sbarcò a Messina ed organizzato un esercito di 2.000 soldati fra Messeni ed esuli della distrutta città di Himera, raggiunse Siracusa speranzoso che i suoi amici aprissero le porte della città. Ma non fu così, ed allora per suscitare ammirazione ed ottenere la fiducia dei Siracusani, lasciò la città ed andò ad occupare Selinunte, dove dopo aver richiamato da Agrigento (allora denominata “Akragas”) i Selinuntini scampati al saccheggio cartaginese, diede ordine di fortificare la parte di città che includeva l’Acropoli.
Poi, fece depredare dal suo esercito il territorio cartaginese ed elimo compreso fra Mozia e Panormos (l’attuale Palermo), ricavandone un discreto bottino.
Così facendo, si guadagnò l’ammirazione del popolo siracusano ma non la sua approvazione, perché infrangendo il trattato di pace vigente, Ermocrate aveva dato un pretesto a Cartagine per progettare una nuova spedizione in Sicilia.
L’assemblea democratica siracusana inviò ambasciatori in Africa per prendere le distanze dal comportamento aggressivo di Ermocrate, e per manifestare la precisa volontà di Siracusa di evitare la guerra. Ma i Cartaginesi, esaltati dalle recenti conquiste di Selinunte e di Himera, ritennero che i tempi erano ormai maturi per sottomettere Siracusa e tutte le città greche della Sicilia.
Pertanto, approfittando della situazione, scacciarono gli ambasciatori siracusani e deliberarono di preparare una grande armata che affidarono ancora una volta ad Annibale Magone, al quale però stavolta affiancarono anche il generale Imilcone.
Così, nella primavera del 406 a.C., furono radunati a Cartagine circa 120.000 uomini fra cartaginesi e mercenari iberici, libici, mauritani, numidi e campani. Alcuni di essi salparono con una prima flotta di 40 triremi che non appena giunse al largo di Erice, fu attaccata dalla flotta siracusana che ne affondò 15 e mise in fuga tutte le altre verso il mare aperto.
Annibale Magone allora, partì da Cartagine con altre 50 triremi e rintracciate le navi superstiti al primo scontro navale, riunificò la sua flotta e sbarcò in Sicilia.
Quando venne a sapere che il siracusano Ermocrate era già morto, occupò facilmente Selinunte e poi si diresse con tutto l’esercito verso l’opulenta città di Agrigento (Akragas). Il grosso delle sue truppe fu stanziato su un altipiano a sud della città, sulla strada per Gela, mentre la restante parte si stabilì in pianura ad ovest della città, sulla riva destra del fiume Belice, all’interno di un campo trincerato difeso da una robusta palizzata e da un fossato.
La città fu così posta sotto assedio, ma gli Agrigentini, avendo trasferito tutte le risorse di grano ed altri prodotti agricoli dentro le mura civiche ed avendo inoltre già allertato i Siracusani, rifiutarono la richiesta del messaggero cartaginese di aprire le porte della città ad Annibale Magone.
Allora, iniziò l’attacco cartaginese con due alte torri di legno unite nella sommità da un ponte levatoio che fu posato contro un piccolo tratto di mura che i Cartaginesi ritenevano essere più vulnerabile.
Gli Agrigentini resistettero per tutto il giorno e per di più, quando scese la notte, riuscirono con un’improvvisa sortita ad incendiare entrambe le due torri di legno che ponevano la città sotto assedio. L’indomani, Annibale Magone per poter avanzare più torri e arieti contemporaneamente, sebbene sconsigliato dai suoi indovini, ordinò di demolire i monumenti sepolcrali agrigentini per colmare con un terrapieno un tratto del fiume Belice adiacente alla città, che impediva l’avvicinamento delle macchine d’assedio alle mura. Ma durante la demolizione, i timori degli indovini cartaginesi si avverarono, e tra le fila dell’esercito cartaginese scoppiò un’epidemia di peste che uccise molti soldati ed anche lo stesso generale Annibale Magone.
Il generale Imilcone, rimasto solo al comando dell’armata cartaginese, constatato che i soldati che avevano profanato la necropoli agrigentina temevano l’ira degli dei greci, portò a termine sacrificando un bambino al dio dei Greci, Crono, e alcuni animali al mare annegandoli. Contestualmente interruppe la demolizione dei sepolcri, ma con terra e pietre fece comunque proseguire la realizzazione del terrapieno con cui ricoprì il fiume Belice e livellò un’ampia area a ridosso delle mura di Agrigento.
Poi, diede ordine di attaccare con tutte le torri e gli arieti disponibili, ma proprio quando gli Agrigentini iniziavano a temere il peggio, i tanto attesi aiuti da Siracusa superarono il fiume Salso e si avvicinarono alla città assediata. L’esercito era capitanato dal generale siracusano Dafneo ed era composto da 30.000 opliti (fanti) e circa 5.000 cavalieri che erano stati reclutati fra Siracusani, Italioti, Messeni, Gelesi e Camarinesi.
Imilcone interruppe l’assalto alla città e mandò contro di loro il grosso del suo esercito, ma vincitori della battaglia risultarono i Siracusani ed i loro alleati, i quali uccisero una moltitudine di soldati Cartaginesi ed inseguirono quelli che fuggirono. Ma proprio quando potevano chiudere definitivamente la guerra a proprio favore annientando le forze nemiche, ebbero ordine di frenare il loro slancio e di tornare indietro per non correre rischi, dando così modo ai Cartaginesi di salvarsi presso il campo trincerato posto in pianura accanto alla città.
L’esercito cartaginese, già sconfitto e provato dalla peste, cominciò a soffrire la grave mancanza di cibo. Così, Imilcone, venuto a sapere che gli Agrigentini attendevano un grosso carico di grano inviato via mare da Siracusa mandò la flotta ad intercettare quelle imbarcazioni e, dopo aver affondato le navi di scorta siracusane, si impadronì di quel vitale bottino, rovesciando le sorti della guerra.
In quel momento infatti, erano gli Agrigentini ad essere privi di rifornimento per superare l’inverno, ed insieme a loro anche l’intera armata siracusana, tanto che iniziarono le defezioni degli alleati. Quando i mercenari Italioti abbandonarono il campo siracusano per tornare sulla penisola, Dafneo e i generali agrigentini decisero che non era più possibile difendere l’assedio per mancanza di cibo. Così deliberarono di abbandonare Agrigento (Akragas). Tutti si diedero da fare per sgomberare la loro antica e celebre città. Nottetempo si misero in marcia scortati dall’esercito fino a Gela, per poi proseguire fino a Leontini. Lì, si stabilirono nella città quasi disabitata sin da quando il popolo era stato allontanato ed i ricchi oligarchi si erano trasferiti a Siracusa.
All’alba del giorno dopo, Imilcone entrò nella città di Agrigento (Akragas) dove fece uccidere tutti i vecchi ed i feriti che non poterono unirsi agli Agrigentini in fuga, poiché inabili alla marcia. Poi saccheggiò le case, i templi, ma non distrusse ancora la città perché la utilizzò per far alloggiare il suo esercito durante l’inverno.
Nel frattempo, a Siracusa, dove era ritornato l’esercito, c’era un clima di paura e di incertezza e per via dell’abbandono di Agrigento (Akragas) ai Cartaginesi. Allora, l’assemblea civica democratica proclamò Dionisio generale con pieni poteri, in quanto costui si era particolarmente distinto durante la guerra combattuta nei pressi di Agrigento (Akragas).
Dionisio, sfruttando tale circostanza, organizzò una propria guardia personale con 600 mercenari che in cambio della protezione venivano pagati molto più degli altri soldati. Con i suoi fidati mercenari si stabilì nell’inespugnabile Isola di Ortigia e dichiarò apertamente ai Siracusani di avere ristabilito la tirannia in città.

Dionisio di Siracusa
Con l’arrivo della primavera del 405 a.C., Imilcone diede ordine di demolire le mura civiche ed incendiare Agrigento (Akragas), poi lasciata la città deserta, marciò al comando del suo esercito ed arrivo a Gela dove si accampò poco fuori la città. All’alba del giorno seguente fece avanzare le macchine d’assedio, ma i Gelesi battendosi per la loro stessa vita resistettero eroicamente. Per quanto i Cartaginesi riuscirono con gli arieti ad abbattere in più punti alcuni tratti di mura civiche, i Gelesi riuscirono a respingere gli attacchi nemici e, grazie all’aiuto di donne e bambini, riuscirono anche a ricostruire le parti diroccate della cinta muraria. Durante uno di quelli assalti cartaginesi, sopraggiunse Dionisio di Siracusa con un esercito di 50.000 uomini che si accampò sul litorale, mentre nelle acque antistanti si radunò la flotta di 50 triremi siracusane. Dionisio ordinò subito alla fanteria leggera e alla cavalleria di perlustrare il territorio e di uccidere chiunque fra i nemici si trovasse fuori dal loro campo in cerca di rifornimenti. Poi, divise il suo esercito in tre divisioni per attaccare i nemici con una manovra di accerchiamento. La prima divisione, composta da sicelioti alleati, fu inviata contro il campo trincerato nemico, procedendo a monte della città. La seconda divisione, composta da mercenari Italioti, la fece avanzare lungo la costa, mentre gli con la terza divisione entrò a Gela e si diresse dalla parte opposta della città, dove si trovavano le torri e gli arieti cartaginesi intenti ad abbattere le mura civiche. I soldati Italioti raggiunsero e assaltarono il campo fortificato nemico, aiutati anche da un contingente di Gelesi usciti appositamente dalla città per dare loro manforte. Ma l’arrivo del grosso dell’esercito cartaginese, li costrinse a ritirarsi dentro la città.
I Sicelioti che non erano riusciti a convergere sul campo nemico perché impegnati lungo il tragitto dagli africani che gli erano andati incontro, dovettero ritirarsi. Dionisio, nel frattempo, si trovò anche in gravi difficoltà per attraversare con il suo esercito le strette vie della città e, quando giunse sulle mura minacciate dai Cartaginesi, dovette a malincuore constatare che il suo piano strategico di accerchiamento era fallito.
Il tiranno siracusano allora, convocò in città un consiglio di guerra con gli alleati e giacché Gela non era nelle condizioni di resistere a lungo per via della malconcia cinta muraria, fu deciso di abbandonare la città quella notte stessa. Compiuto lo sgombero, tutti i cittadini ed i soldati si misero in marcia verso Camarina. Solo alcuni soldati Gelesi, prima di fuggire anch’essi, passarono la notte ad alimentare fuochi ed a fare baccano al fine di illudere i Cartaginesi che Dionisio e i suoi alleati fossero ancora in città.
L’indomani, il generale Imilcone entrò nella città di Gela ormai disabitata. Vi trasferì il proprio quartier generale e fece depredare quanto lasciato dai cittadini gelesi.
Nel frattempo Dionisio, obbligò anche gli abitanti di Camarina a lasciare la propria città, poiché non avrebbe potuto resistere all’armata nemica. Dionisio, con quella grande quantità di profughi, si diresse verso Siracusa. Però, durante il tragitto, i Gelesi e i Camarinesi non volendo sottostare al tiranno Dionisio che si era ritirato lasciando al nemico le loro città, deviarono la loro marcia e si andarono a stabilire a Leontini, dove erano precedentemente giunti gli Agrigentini. Anche gli italioti abbandonarono Dionisio e fecero ritorno sulla penisola, mentre il resto dell’esercito raggiunse Siracusa. Ma la città, che voleva liberarsi della tirannide, non concesse a Dionisio di entrare. Allora, egli fece dare fuoco ad una porta civica sulla terraferma e fece entrare i fedelissimi mercenari della sua guardia personale che trucidarono i ribelli e riconsegnarono la città al tiranno.
Imilcone, nel frattempo, avendo già ottenuto le città di Agrigento (Akragas), Gela e Camarina, soddisfatto delle sue imprese inviò a Siracusa dei messaggeri con la proposta di cessare le ostilità. La proposta fu accolta con grande favore da Dionisio.
Il trattato di pace del 405 a.C., stabilì che ai Cartaginesi restava il dominio sulle loro antiche colonie della costa occidentale della Sicilia, ed anche sugli Elimi e sui Sicani. I Siculi invece restavano liberi. Alle popolazioni di Agrigento (Akragas), Gela e Camarina, fu concesso di tornare nelle loro città che restavano comunque tributarie di Cartagine, purché non venissero riedificate le mura civiche abbattute dai Cartaginesi.
Gli Imeresi, la cui città Himera era stata rasa al suolo da Annibale Magone qualche anno prima, poterli invece andare ad abitare la piccola città di Terme, l’attuale Termini Imerese, che era sorta per volere del generale cartaginese.
Infine, il tiranno Dionisio fu riconosciuto dai Cartaginesi come unico signore di Siracusa.
Concluso il trattato di pace, Imilcone imbarcò il suo esercito unitamente al ricco bottino di guerra depredato e lasciò definitivamente la Sicilia. Come scrisse Diodoro Siculo: “I Cartaginesi salparono per l’Africa dopo aver perso oltre la metà dei soldati a causa della peste, che continuò a mietere vittime fra loro ed i loro alleati anche in Africa.”
Luca D’Agostini
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Fonti
Paul Bentley Kern, Ancient Siege Warfare, Indiana University Press, 1999
Edward A. Freeman, History of Sicily, vol. I, Forgotten Books, Londra 2018
Brian Caven, Dionysius I: Warlord of Sicily, Yale University Press, 1990
Diodoro Siculo, Bibliotheca historica, I secolo a.C.
Alfred J. Church, Story Of Carthage, Kessinger Publishing, Whitefish 2010
John Warry, Warfare in the classical world, Barnes & Noble Books, New York 1993
Lancel Serge, Carthage A History, Blackwell Publishers, Hoboken 1997
Bath Tony, Hannibal’s Campaigns, Barnes & Noble Books, New York 1992
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