Si parla spesso di Kosovo ma in genere si conosce solo la verità vista da una prospettiva distorta.
Per comprendere gli eventi occorre sempre partire da un’analisi storica. Il dittatore albanese Enver Halil Hoxha ha sempre sognato di costruire quella che chiamava la «Grande Albania» e finanziava il primo nucleo di «guastatori» kosovari albanesi. La memoria cortissima dei mezzi d’informazione occidentali ha ignorato alcuni illuminanti reportage pubblicati in epoca non sospetta dal… «New York Times», cioè lo stesso giornale che più tardi avrebbe capeggiato la campagna in favore dell’invasione della Jugoslavia. Nel 1982 l’inviato David Binder descriveva una situazione con termini sorprendentemente simili rispetto a quella che diciassette anni dopo avrebbe scatenato la guerra, ma diametralmente opposta: la minoranza serba risultava vittima di ogni sorta di soprusi da parte della maggioranza albanese, mentre il governo centrale si guardava bene dall’intervenire per non alimentare il nazionalismo di entrambe le parti e non fornire pretesti alla bellicosità di Tirana. Scriveva Binder il 9 novembre dell’82, dopo l’ennesima aggressione con tentativo di bruciare vivo un bambino serbo: «Incidenti di questo genere hanno spinto molti degli abitanti del Kosovo di origine slava a fuggire dalla provincia, favorendo così la richiesta dei nazionalisti di un Kosovo etnicamente puro e albanese. Secondo le stime di Belgrado, 20.000 serbi e montenegrini hanno abbandonato per sempre il Kosovo dopo i tumulti del 1981«. Riguardo i quali, il New York Times del 28 novembre pubblicava quanto segue: «In una spirale di violenza iniziata con gli scontri all’università di Pristina nel marzo 1981, un gran numero di persone sono state uccise e centinaia ferite. Con frequenza settimanale, si sono registrati casi di stupri, incendi, saccheggi e sabotaggi con lo scopo di espellere dalla provincia gli slavi ancora rimasti nel Kosovo«. Nel 1986 un altro inviato, Henry Kamm, riportando il clima di aggressione ai danni dei serbi sottolineava che «le autorità locali, di etnia albanese, coprivano i crimini dei nazionalisti«. Va ricordato che risale ad allora la coniazione del termine «stupro etnico«, largamente usato dai kosovari albanesi per indurre i serbi ad abbandonare le loro terre e le loro case. Il giornalista Binder tornò in Kosovo nel 1987, e l’11 gennaio scrisse: «Gli albanesi nel governo locale hanno dirottato fondi pubblici e modificato regolamenti per impadronirsi di terre appartenenti ai serbi, sono state attaccate chiese ortodosse, hanno avvelenato pozzi e bruciato raccolti. Molti giovani albanesi sono stati istigati dagli anziani a stuprare le ragazze serbe«. Tutto questo non viene mai spiegato e ricordato in una seria analisi di quanto accaduto nella ex Jugoslavia. L’ex presidente serbo Slobodan Milošević fu molto abile nello sfruttare l’esasperazione della minoranza serba per raccogliere voti e giurò alla folla che non avrebbe mai più subito soprusi e violenze dalla maggioranza albanese. Era pressoché scontato il successo politico di Milošević, data la serie di orrori praticati per anni con quotidiano accanimento dai criminali albanesi, gli stessi che anni dopo sventoleranno bandiere a stelle e strisce, con plauso degli ipocriti mezzi d’informazione occidentali.1
Dopo la morte di Enver Hoxha, i nazionalisti albanesi specializzati in stupri e saccheggi trovarono, un bel giorno, il più potente protettore che il destino potesse loro riservare: George Tenet, direttore quarantaseienne della CIA. Tenet veniva da una famiglia albanese, sua madre fuggì dalla dittatura di Hoxha a bordo di un sommergibile inglese, e nel luglio del ’97 divenne uno degli uomini più potenti del mondo per volere di Clinton, che lo mise a capo della centrale di spionaggio statunitense. Da allora, George Tenet lavorò in modo assiduo per gli ex connazionali. E individuò nel Kosovo il punto nevralgico di una strategia che con i nazionalismi non c’entra nulla, ma che riguarda esclusivamente il controllo delle risorse energetiche e un attacco agli interessi geopolitici della Federazione Russa. Gli oleodotti e i gasdotti che dalla Russia e dall’Iran — via Mar Nero-Romania-Serbia — avrebbero potuto rendere meno dipendenti i Paesi dell’Europa mediterranea dai giacimenti del Mare del Nord (controllati da Gran Bretagna e Stati Uniti), sono uno dei motivi principali dell’invasione militare NATO, voluta con forza proprio dal governo di Washington. Infatti gli Stati Uniti considerano il Caucaso parte della propria sfera di intervento politico e militare ed hanno sostenuto la costruzione dell’oleodotto Baku-Supsa (in Georgia) proprio ai danni della Russia, diminuendone l’influenza geopolitica nell’area: l’apertura è avvenuta dopo una serie di manovre militari congiunte tra Azerbaigian, Ucraina e Georgia.1
Ma prima di far decollare i bombardieri occorreva conquistare l’opinione pubblica, compito non certo difficile, considerando la pressoché totale inesistenza di organi d’informazione indipendenti. E così fu messo a capo dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE) il famigerato agente della CIA William Walker, senza che nessun organo di informazione si chiedesse perché un’agente dell’intelligence statunitense dovesse mai comandare un organismo prettamente europeo. Walker non era un personaggio qualunque, ma godeva di un curriculum degno del compito assegnatogli. Entrato in «diplomazia» nel 1961, specialista di questioni latinoamericane, tra il ’74 e il ’77 diresse la sezione politica dell’ambasciata statunitense in Salvador, ai tempi delle famigerate formazioni paramilitari di «Orden», addestrate dalla CIA e dai Berretti Verdi. Nel 1982, fu inviato in Honduras, paese strategico in funzione anti-Nicaragua sandinista, dove vennero dislocati i contras. Walker lavorò a stretto contatto con il colonnello Oliver North, quello dello scandalo Iran-Contras per i fondi occulti al terrorismo anti-sandinista. Nonostante il successivo scandalo dei fondi, con Walker che compare in ben 13 passi del rapporto della commissione d’inchiesta, la sua stella non sarebbe mai tramontata. Nel 1988 fu nominato ambasciatore in Salvador, dove, l’anno seguente, in occasione dell’elezione di Alfredo Cristiani a presidente, diede un party per festeggiarlo al quale invitò anche il maggiore Roberto D’Aubuisson, l’organizzatore degli squadroni della morte e mandante, tra gli innumerevoli eccidi, anche dell’assassinio del vescovo Oscar Romero. Nel ’92 lasciò il Salvador per occuparsi di Croazia e quindi degli interessi statunitensi nei Balcani. Infine, fu inviato in Kosovo, per creare i presupposti di un conflitto a scopo preventivo che limitasse una futura espansione economica russa e permettesse agli Stati Uniti di costruire la più grande base militare nei Balcani, l’odierna Bondsteel, nei pressi di Orahovac. Il pretesto all’intervento «umanitario» a suon di missili e proiettili all’uranio fu inventato proprio da Walker il 15 gennaio 1999 a Racak.1 Nel febbraio del ’99 Bill Clinton in televisione disse al mondo: «Noi dovremmo ricordare quello che è accaduto di nuovo nel villaggio di Racak a gennaio, uomini innocenti, donne e bambini presi dalle loro case, costretti ad inginocchiarsi nell’immondizia, crivellati di colpi, non a causa di qualsiasi cosa loro avessero fatto, ma a causa di ciò che erano, cioè albanesi«.2
Quella che Clinton, la NATO, i media hanno raccontato come il «massacro di Racak», è una delle tante bugie colossali che media e governi occidentali hanno raccontato relativamente ai 78 giorni di selvaggi bombardamenti contro un Paese sovrano, sotto la meschina copertura dell’intervento umanitario.
In pratica, nel piccolo villaggio kosovaro di Racak nei pressi di Pristina, furono rinvenuti 40 cadaveri di etnia albanese, in fila in un unico luogo. Subito, Walker, lo statunitense allora capo dell’OSCE si affrettò si affrettò a dichiarare che si trattava di un orribile massacro perpetrato dai serbi al fine della pulizia etnica. Tale episodio fu preso a pretesto per giustificare l’invasione della Jugoslavia.
Da quell’evento in poi, nel corso degli anni, più voci si sono alzate per smascherare la miserabile messa in scena, ma a queste voci dai media non è stato mai consentito di avere il giusto ascolto, anzi le hanno represse ed ignorate.
Il giornalista tedesco Jürgen Rainer Elsässer nel suo libro «Menzogne di guerra» ha sollevato molti dubbi sull’episodio, asserendo che in realtà si trattò di una montatura. Ci sono molte prove infatti che inducono a pensare che i 40 morti potessero essere in realtà guerriglieri dell’UCK morti in combattimenti contro l`esercito jugoslavo nei dintorni e radunati dai loro stessi commilitoni nel villaggio disabitato di Racak per simulare un massacro di civili, con la regia dell`abile William Walker.2
Secondo il prof. Slavisa Dobricanin, ex Direttore dell’Istituto di Medicina Legale di Pristina, uno degli esperti incaricati all’epoca di svolgere le autopsie sui 40 cadaveri, le vittime sono state tutte uccise da colpi di arma da fuoco e nessuno è stato accoltellato o sgozzato, come invece sostenuto dagli albanesi. Contrariamente a quanto sostenuto e dichiarato sul fatto che gli albanesi furono picchiati prima di essere «giustiziati», l`esperto ha affermato che le uniche ferite oltre i colpi di arma da fuoco sono quelle causate dagli animali che si sono accaniti sui corpi senza vita. Inoltre i proiettili provenivano da diverse direzioni ed angolazioni e solo in un caso un uomo è stato colpito da breve distanza. I test del «guanto di paraffina» hanno evidenziato che 37 dei 40 morti avevano sparato prima di essere uccisi, ma i media tutto questo non l’hanno mai reso noto. In più il professore ha detto che i cadaveri vestivano con molti strati di abiti ed erano equipaggiati in modo da soggiornare a lungo all’esterno e vestendo in quel modo è del tutto incompatibile con l’asserzione che si trattasse di civili strappati dalle loro case.2
Altre indicazioni smentiscono il fatto che le vittime fossero civili innocenti e accreditano invece l’ipotesi che si trattasse di combattenti armati morti in battaglia. Per esempio dei documenti video mostrati in precedenza hanno dimostrato la presenza di trincee e bunker dell’UCK nelle immediate vicinanze del villaggio di Racak e i fori d’ingresso delle pallottole trovate nei morti fanno pensare a persone che si proteggevano all’interno di una trincea. Infatti solo le parti superiori dei corpi sono state colpite.2
Il 17 gennaio 2011, il quotidiano tedesco «Berliner Zeitung» anticipò il contenuto di un articolo di tre patologi dell’equipe finlandese della dottoressa Helena Ranta, che fu poi pubblicato dalla rivista Forensic Science International. I tre medici, riassumendo le conclusioni del rapporto ufficiale dell’equipe — tenuto tutt’ora sotto chiave dall’Unione Europea — confermarono la mancanza di prove a sostegno della tesi del massacro di «civili». Infatti non si riuscì né a identificare le vittime, né la loro provenienza da Racak, e nemmeno a ricostruire la posizione delle vittime nel luogo dell’incidente. Il ministro della difesa tedesco Rudolf Scharping fu tempestivamente informato di queste incongruenze. Nei rapporti riservati del suo ministero si parlava dei combattimenti tra UCK e truppe serbe a Racak. E si riferiva che lo stesso Walker, il 22 gennaio, aveva ammesso di non conoscere «tutte le circostanze». Ciò non gli impedì di pronunciare a caldo il suo verdetto attorniato da una trentina di giornalisti e fotografi che confusero le tracce, arrivando a spostare i corpi per ottenere inquadrature più scioccanti.3
Anche la patologa finlandese Helena Ranta, coordinatrice del team che esaminò 40 dei 44 corpi trovati a Racak da Walker (l’atto d’accusa del tribunale dell’Aja parla di 45 vittime, cinque furono portate via dalle famiglie), non se la sente di escludere «una messa in scena». La dottoressa Ranta accettò di farsi intervistare e le sue dichiarazioni furono trasmesse la sera dell’8 febbraio 2001 nell’ambito della trasmissione Monitor, sulla prima rete televisiva tedesca «Ard»: «So bene che si potrebbe arrivare alla conclusione che tutta la scena in quella valletta a Racak sia stata preparata. Ne sono consapevole. E’ di fatto possibile. E’ questa la conclusione che suggerivano sia i nostri primi referti, sia gli esami successivi che abbiamo effettuato sul posto nel novembre 1999. E questa conclusione l’abbiamo subito comunicata anche al tribunale dell’Aja. L’ambasciatore Walker arrivò sabato a Racak, e fu una sua decisione personale parlare di un ‘massacro’. Io ho sistematicamente evitato l’uso di questo termine«.3
La dottoressa Ranta non volle nemmeno escludere che almeno una parte delle vittime fossero combattenti dell’UCK, l’armata indipendentista kosovara: «Allora Racak era una roccaforte dell’UCK. Ci sono informazioni certe sui combattimenti che vi hanno avuto luogo tra militari serbi e miliziani dell’UCK, non se ne può dubitare. Inoltre mi è stato detto, e ho anche potuto leggere informazioni a riguardo, che quel giorno a Racak sono stati uccisi combattenti dell’UCK«.3 La dottoressa Ranta dichiarò a B92 (Belgrado) che aveva ricevuto notizie sulla morte di truppe serbe in Racak nel 1999. «Mi dissero che c’erano state vittime tanto tra le forze serbe come nell’Esercito di Liberazione del Kosovo, e che morirono a Racak il venerdì 15 gennaio 1999. Non vidi la lista delle vittime serbe. Mi mostrarono solo una lista di vittime dell’Esercito di Liberazione del Kosovo. Sfortunatamente, non sapremo mai il numero esatto di soldati serbi che morirono quella notte. Sarebbe interessante domandare al Tribunale dell’Aja perché non sono interessati a quel numero«. Si è anche chiesta perché le foto scattate prima dell’arrivo degli osservatori internazionali non furono pubblicate. Foto dalle quali si evince la mancanza di alcuni corpi e dalle quali si deduce chiaramente che alcuni corpi furono portati in seguito. Invece, diventarono solo pubbliche quelle che avevano preso gli osservatori dell’OSCE.4
Nell’aprile del 2017 la notizia della montatura mediatica delle vittime di Racak, trovò inaspettatamente due minuti di spazio in un programma televisivo italiano. La giornalista Maria Latella nel suo programma su Sky stava intervistando l’allora Ministro degli Esteri Angelino Alfano per la questione riguardante gli eventi in Siria. Da un collegamento in esterna era stato invitato ad esprimere un suo commento il generale italiano Vincenzo Camporini, vicepresidente dell’Istituto Affari Internazionali, il quale tra l’evidente imbarazzo della giornalista e del ministro degli esteri, pronunciò queste parole: «In passato siamo stati spessissimo vittime di operazioni di comunicazione che hanno indotto le potenze occidentali ad una serie di operazioni che poi ci hanno fatto penare molto. Mi ricordo ad esempio la strage di Racak in Kosovo attribuita alla polizia serba che avrebbe sterminato un villaggio inerme, mentre i serbi sostenevano che fossero guerriglieri che l’avessero attaccati. Ci fu un’indagine delle Nazioni Unite condotte dalla dott.ssa finlandese Helena Ranta la quale si espresse in termini abbastanza dubitativi. Si, sostenendo la tesi occidentale ma con molti punti di domanda. In seguito la stessa Ranta confidò ad un giornalista che mentre era impegnata nella redazione del suo rapporto, il cui testo finale non è mai stato pubblicato e ci tengo a sottolinearlo, aveva ricevuto pressioni molto forti da Walker, l’americano che si occupava della questione«.5 A questo punto la giornalista si affrettò ad interrompere il generale Camporini cambiando immediatamente discorso in quanto tale affermazione dovendosi parlare di Siria non era assolutamente prevista. Nel frattempo l’imbarazzato Ministro degli Esteri italiano non proferì parola.
Luca D’Agostini
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Fonti
(2) Racak
(3) Massacro o bugie
(4) Michel Collon, Monopoly. NATO à la conquète du monde, EPO, Brussels 2000
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