Dopo l’esperienza rivoluzionaria e napoleonica, l’Italia e nel complesso anche l’Europa, non erano più la stesse di prima. L’Antico Regime era crollato. Nel campo culturale e quindi anche in quello letterario fu una stagione di sconvolgimenti radicali, all’interno della quale Manzoni rappresentò un fenomeno del tutto particolare: l’unione tra il Risorgimento e il Romanticismo.
Infatti, troppo spesso sui libri di scuola, Manzoni è in maniera fin troppo semplicistica definito uno scrittore esponente del Romanticismo. E questo è vero, ma solo in parte, perché nella valutazione occorre tenere ben presenti le sue origini familiari, che risalgono alla grande tradizione dell’illuminismo milanese. E allora scopriamo le sue origini.
Alessandro Manzoni nacque a Milano il 7 marzo 1785. Sua madre, Giulia Beccaria era una fanciulla abbastanza disinvolta e soprattutto era la figlia di Cesare Beccaria, l’autore di «Dei delitti e delle pene» la celebre denuncia della tortura e della pena di morte. Il padre legale di Alessandro era il conte Pietro Manzoni, ma il padre naturale quasi certamente era Giovanni Verri, fratello minore di Pietro e Alessandro Verri, animatori di due importanti spazi di rinnovamento culturale: l’Accademia dei Pugni, istituzione culturale nella quale parteciparono molti degli intellettuali illuministi lombardi dell’epoca, e la rivista «Il Caffè», il principale strumento di diffusione del pensiero illuminista in Italia, portavoce delle istanze culturali, sociali e politiche delle classi emergenti che puntavano allo svecchiamento delle istituzioni e alla razionalizzazione dell’apparato statale.
Quando Alessandro Manzoni aveva 7 anni, i suoi genitori si separano. Giulia Beccaria divenne la compagna di Carlo Imbonati, un nobiluomo milanese il quale ebbe come istruttore Giuseppe Parini, il poeta che fu uno dei massimi esponenti del Neoclassicismo e dell’Illuminismo in Italia, autore del poemetto «Il Giorno», una raffinata satira dell’aristocrazia e della nobiltà, una denuncia della brutalità e condanna di una cultura stantia. Tutti temi tipicamente illuministici che si ritrovano anche nei Promessi Sposi.
Alessandro Manzoni fu affidato al padre e crebbe nei collegi dei preti, ma aveva idee poco adatte a quell’ambiente, idee giacobine, idee da rivoluzionario. Si tagliò il codino aristocratico e anche in seguito non amò mai essere chiamato «conte». Forse, Carlo Imbonati era il padre che lui avrebbe voluto avere e che non ebbe. Imbonati un giorno lo invitò a Parigi, dove viveva con Giulia Beccaria. Manzoni aveva vent’anni ed accettò l’invito, ma Imbonati morì improvvisamente. Manzoni si recò ugualmente a Parigi e vi rimase per cinque anni. In Francia, poco tempo dopo il suo arrivo, scrisse una poesia dal titolo «In morte di Carlo Imbonati». Nella poesia Imbonati appare in sogno al Manzoni per dargli consigli di vita. Ecco alcuni stupendi versi:
Sentir, riprese, e meditar: di poco
Esser contento: da la meta mai
Non torcer gli occhi: conservar la mano
Pura e la mente: de le umane cose
Tanto sperimentar, quanto ti basti
Per non curarle: non ti far mai servo:
Non far tregua coi vili: il santo Vero
Mai non tradir: né proferir mai verbo,
Che plauda al vizio, o la virtù derida.
Durante il colloquio che si svolge fra i due, Manzoni, per bocca del nobile interlocutore e maestro, ha modo di esprimere le sue idee. Questi versi sintetizzano l’ideale di vita di Manzoni, come uomo e come scrittore: comprendere profondamente (sentir), rispettare (riprese) e interpretare (meditar) la realtà, avere abitudini semplici (di poco Esser contento), non distogliere lo sguardo dall’obiettivo che ci si prefigge (da la meta mai Non torcer gli occhi), rimanere onesti nelle azioni (conservar la mano Pura) e nei pensieri (e la mente), sperimentare con moderazione le cose del mondo (de le umane cose Tanto sperimentar, quanto ti basti Per non curarle), non sottometterti mai (non ti far mai servo) e opponiti sempre (Non far tregua) a chi si comporta da vile (coi vili), non tradire mai la Verità, (il santo Vero Mai non tradir), non pronunciare parole che esaltino il vizio e deridano la virtù (né proferir mai verbo,Che plauda al vizio, o la virtù derida.)
Nel 1807, all’età di 22 anni, Manzoni incontrò Enrichetta Blondel, una sedicenne di famiglia calvinista. L’anno dopo si sposarono con matrimonio calvinista, nel 1810 Manzoni si convertì al cattolicesimo, e con lui la moglie e la madre. Nel percorso spirituale furono seguiti da sacerdoti cattolici di orientamento giansenista. Il Giansenismo, che risale al XVII secolo, ha punti di contatto con il Calvinismo e considera l’uomo integralmente peccatore, ammette la salvezza solo per predestinazione divina, esige dai fedeli una morale rigorosa, diffida dell’idea di progresso storico. E’ probabile che Manzoni ne sia stato in parte influenzato. Più o meno nello stesso periodo della conversione, Manzoni iniziò a soffrire di fobie e di disturbi nervosi che lo accompagnarono per il resto della sua vita.
Manzoni infatti per il resto della sua esistenza fu un uomo molto riservato, insofferente di condividere gli stessi luoghi con altre persone, impaurito di trovarsi in mezzo alla folla. I coniugi Manzoni andarono a vivere a Milano e l’estate la trascorrevano in periferia, a Brusuglio, in una villa ereditata da Carlo Imbonati.
Con la moglie Enrichetta ebbero dieci figli ma purtroppo nel corso della vita ne persero otto. Nel 1833, per via della tubercolosi, morì anche la moglie. Nel 1837 si risposò con una vedova nobildonna italiana, Teresa Borri, la quale poi morirà nel 1861, dodici anni prima della morte dello scrittore. Manzoni nella villa si sentiva tranquillo. Scrisse moltissimo, scrisse poesie, opere teatrali, tragedie e infine scrisse «I Promessi Sposi», dopo i quali non scrisse più nulla. Gli anni passarono, per via delle sue opere divenne famoso, anni dopo sorse il Regno d’Italia e Manzoni fu nominato senatore. Accettò la carica ma non si trasferì. Tranne qualche breve viaggio in Toscana, rimase sempre tra Milano e Brusuglio. Negli ultimi anni della sua vita, ormai molto invecchiato si recò in Senato per due volte: la prima volta per votare il trasferimento della capitale del Regno d’Italia da Torino a Firenze, e poi la seconda volta per votare il trasferimento della capitale da Firenze a Roma, nonostante la contrarietà del Pontefice.
L’anno 1873 fu però l’ultimo della sua vita: il 6 gennaio cadde battendo la testa su uno scalino all’uscita dalla chiesa di San Fedele di Milano, procurandosi un trauma cranico. Manzoni si accorse, già dopo qualche giorno, che le sue facoltà intellettive cominciavano lentamente a scemare, fino a cadere in uno stato catatonico negli ultimi mesi di vita. Le sofferenze furono acuite dalla morte del figlio maggiore Pier Luigi, avvenuta il 28 aprile, e quasi un mese dopo, all’età di 88 anni, il 22 maggio alle ore sei e quindici del pomeriggio, spirò per una meningite contratta a seguito del trauma. Il corpo fu poi imbalsamato da sette medici incaricati del processo da parte del Comune di Milano tra il giorno 24 e il 27 maggio. Ai solenni funerali del Senatore, celebrati nel Duomo di Milano il 29 maggio 1873, parteciparono le massime autorità dello Stato, tra cui il futuro re Umberto I, il ministro degli esteri Emilio Visconti Venosta e le rappresentanze della Camera, del Senato, delle province e delle città del Regno.
Dal 1812 al 1827, è questo il periodo in cui si concentrò tutta la migliore creatività di Manzoni. Appena quindici anni e durante questi, tre sono eccezionali. Dal 1820 al 18223 pubblicò «Il Conte di Carmagnola», l'»Adelchi», «Marzo 1821», «Il cinque maggio», completa «La Pentecoste», scrive «Lettre à monsieur Chauvet sur l’unité de temps et de lieu dans la tragédie», la lettera a D’Azeglio sul Romanticismo e anche il Fermo e Lucia, che fu la prima versione dei Promessi Sposi. La conversione certamente innescò una nuova stagione di creatività. Manzoni rifiutò tutto quello che aveva scritto prima, nella sua vita era entrato qualcosa di grande, e ricorda Renzo, l’eroe dei Promessi Sposi, quando per la prima volta vide la grandezza del Duomo di Milano: «Renzo, salito per un di que’ valichi sul terreno più elevato, vide quella gran macchina del duomo sola sul piano, come se, non di mezzo a una città, ma sorgesse in un deserto; e si fermò su due piedi, dimenticando tutti i suoi guai, a contemplare anche da lontano quell’ottava maraviglia, di cui aveva tanto sentito parlare fin da bambino«.
Il primo progetto che Manzoni intraprese furono gli «Inni sacri». Avrebbero dovuto essere dodici, dedicati ai momenti più alti dell’anno liturgico, come il Natale, la Resurrezione, la Pentecoste ecc. Manzoni ci lavorò per anni ma ne realizzò solo cinque.
Anno 1820: sull’Europa calò la cappa della Restaurazione, la Rivoluzione Francese la sua eredità di libertà e di diritti furono spazzati via. Ma all’improvviso qualcosa cominciò ad accadere: una rivolta in Spagna, un’altra del Regno delle Due Sicilie, e i due re dovettero concedere la Costituzione. Nel 1821 toccò al Piemonte, qui i rivoltosi chiesero ai Savoia qualcosa di più: passare il fiume Ticino, invadere la Lombardia e sconfiggere gli austriaci. Non accadde, la rivolta fallì, ma intanto Manzoni aveva già scritto l’ode «Marzo 1821», un ode in cui si celebra l’Italia come:
Una gente che libera tutta,
O fia serva tra l’Alpe ed il mare;
Una d’arme, di lingua, d’altare,
Di memorie, di sangue e di cor.
E’ una poesia politica davvero straordinaria, anche perché è stata scritta come se la guerra di liberazione fosse davvero avvenuta, come se la Lombardia fosse stata davvero invasa. Manzoni arrivò addirittura ad immaginarsi un futuro in cui chi non si era battuto nel 1821, si pentirà di essere rimasto a casa.
Oh giornate del nostro riscatto!
Oh dolente per sempre colui
Che da lunge, dal labbro d’altrui,
Come un uomo straniero, le udrà!
Che a’ suoi figli narrandole un giorno,
Dovrà dir sospirando: io non c’era;
Che la santa vittrice bandiera
Salutata quel dì non avrà.
«Io non c’era«. Infatti l’invasione del 1821 non c’è mai stata! Ma allora Manzoni che cosa stava facendo? Stava immaginando il Risorgimento, credeva che immaginarlo fosse un modo per farlo accadere. Quanto la rivolta fallì, Manzoni distrusse l’ode «Marzo 1821». Ma la ricordava perfettamente a memoria per intero e la pubblicò molti anni dopo, nel 1848, quando sembrò che Lombardia potesse essere liberata davvero.
Appena due mesi dopo l’ode «Marzo 1821» una notizia fece il giro del mondo: Napoleone era morto nel suo esilio di Sant’Elena. Quindi Manzoni scrisse un’altra ode «Il cinque maggio»:
Ei fu. Siccome immobile,
dato il mortal sospiro,
stette la spoglia immemore
orba di tanto spiro,
così percossa, attònita
la terra al nunzio sta,
muta pensando all’ultima
ora dell’uom fatale;
né sa quando una simile
orma di piè mortale
la sua cruenta polvere
a calpestar verrà.
Egli fu (è morto, è trapassato, non c’è più). Ecco perché ora giace immobile, avendo esalato l’ultimo respiro, il suo corpo è rimasto senza più ricordi, privato della sua anima: chiunque nel mondo ha saputo la notizia di questa morte è sconvolto.
Tutti restano muti, senza niente da dire, pensando alle ultime ore di quest’uomo inviato dal fato e nessuno sa dire quando un uomo simile tornerà di nuovo a calpestare la terra che lui stesso ha calpestato, lasciando un cammino sanguinoso.
Poi alcuni versi dopo Manzoni aggiunse:
Tutto ei provò: la gloria
Maggior dopo il periglio,
La fuga e la vittoria,
La reggia e il tristo esiglio:
Due volte nella polvere,
Due volte sull’altar.
Ei si nomò: due secoli,
L’un contro l’altro armato,
Sommessi a lui si volsero,
Come aspettando il fato;
Ei fe’ silenzio, ed arbitro
S’assise in mezzo a lor.
Provò di tutto, Napoleone: la gloria, tanto più grande dopo il pericolo, la fuga e la vittoria, il potere regale e l’esilio. Due volte cadde, fu sconfitto, e due volte fu vincitore.
Si diede il nome da solo: due epoche (secoli) tra loro opposte guardarono a lui sottomesse, come se lui avesse in mano il destino. Egli impose il silenzio e si sedette tra loro come un arbitro.
La migliore tragedia di Manzoni è l'»Adelchi». Purtroppo al giorno d’oggi non la legge più nessuno e questo è certamente un male. L'»Adelchi» è di una bellezza impressionante e in un’epoca dove vige il politicamente corretto e l’assenza di coraggio, l'»Adelchi» testimonia di una crudità di cui la maggior parte degli scrittori contemporanei non sono più capaci. Quanti scrittori oggi sarebbero in grado di scrivere: «vana di ciance è la sconfitta!«, cioè che quando uno è sconfitto diventa un chiacchierone, per cui l’umiliazione della sconfitta ti fa diventare anche più cretino. L’opera tratta il dramma della caduta del regno longobardo dell’Italia centro-settentrionale retto da re Desiderio, sotto l’attacco dei Franchi di Carlo Magno. Al centro della scena la crisi dei due figli di Desiderio: Ermengarda moglie ripudiata di Carlo Magno, e Adelchi animo nobile, valoroso, ma destinato alla sconfitta. Lei morirà in convento, lui per le ferite riportate in battaglia. Prima di morire Adelchi pronuncia parole durissime, di impressionante attualità. Il mondo è dominato dal potere, una forza schiacciante che a volte si compiace di farsi chiamare diritto, ma che in realtà è una maschera. Perciò non c’è il minimo spazio operazioni innocenti, si può solo far torto o patirlo. Chi ha fede deve patirlo o al massimo chiamarsi fuori come Ermengarda, e consegnarsi al Signore.
Infatti Manzoni ha una visione pessimistica della società e della storia e lo si evince dall’affermazione presente nell’Adelchi: «Ancor ruine sopra ruine ammucchierem«.
La questione risorgimentale, la fede, la conversione, il pessimismo, sono tutti elementi che ritorneranno nei Promessi Sposi. Manzoni però attende ad inserirli tutti in un’opera unica. Perché? Il motivo consisteva nel fatto che per Manzoni c’era ancora una questione da affrontare: è lecito inventarsi dei personaggi, una storia? Può sembrarci uno scrupolo assurdo, si sono sempre inventate storie da che esiste l’umanità, ma per Manzoni era una questione di importanza vitale, in fondo «inventare» è un modo elegante per dire «mentire». L’atteggiamento di sospetto verso la fantasia letteraria ha una lunghissima storia alle spalle, soprattutto nella cultura cristiana. Manzoni affrontò la questione dell’invenzione artistica in diversi testi di quegli anni, il principale è la «Lettre à monsieur Chauvet sur l’unité de temps et de lieu dans la tragédie». La sua soluzione? Distinguere tra una verità storica che va sempre rispettata è una verità di invenzione, il vero poetico che però deve essere rigorosamente attendibile, cioè il raggiungimento della verità storica con altri mezzi. Era la risposta che gli occorreva per cominciare a scrivere I Promessi Sposi.
«Quel ramo del lago di Como….«, è l’incipit del romanzo. Basta pronunciare queste pochissime parole che subito si comprende che stiamo parlando dei Promessi Sposi.
«Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, vien, quasi a un tratto, a ristringersi, e a prender corso e figura di fiume, tra un promontorio a destra, e un’ampia costiera dall’altra parte; e il ponte, che ivi congiunge le due rive, par che renda ancor più sensibile all’occhio questa trasformazione, e segni il punto in cui il lago cessa, e l’Adda rincomincia, per ripigliar poi nome di lago dove le rive, allontanandosi di nuovo, lascian l’acqua distendersi e rallentarsi in nuovi golfi e in nuovi seni«. Potremmo vedere in queste prime righe l’immagine dell’intero romanzo. I promessi sposi raccontano le vicende di alcuni individui che però sono soprattutto parte di un epoca. A Manzoni interessava sempre la dimensione collettiva, e quindi allo stesso modo, l’ampia distesa del lago si trova costretta, serrata e assume le forme di un fiume, di una specifica storia. Ma si tratta pur sempre di un lago, pur sempre di un mondo.
Il luogo: la Lombardia. Il tempo: il Seicento. E tanti personaggi. Lucia Mondella, operaia in una filanda, modesta, ma armata di una istintiva purezza. Renzo Tramaglino, anche lui operaio filatore, promesso sposo di Lucia, uomo generoso e impulsivo. il parroco don Abbondio, un pauroso però molto astuto. Fra Cristoforo, un frate cappuccino umile ed impetuoso, incarnazione delle virtù cristiane. Don Rodrigo, signorotto del paese, crudele e arrogante. Il Griso, capo dei suoi sgherri: i bravi. Gertrude, la monaca di Monza, suora senza vocazione e intimamente corrotta. L’Innominato, un nobile che mette a disposizione di chi lo paga, la sua vocazione criminale e la sua banda di bravi. Federigo Borromeo, un porporato in odore di Santità. Poi Agnese, Azzeccagarbugli e tanti altri personaggi.
Ma insomma, ridotta all’osso, la trama dei Promessi Sposi è tutto semplice, è come un dramma in «4 atti». «Atto primo»: il matrimonio ostacolato. Renzo e Lucia stanno per sposarsi e don Rodrigo, incapricciato di lei, vieta a Don Abbondio di celebrare il matrimonio. I «promessi» scoprono la verità e cercano una soluzione con l’aiuto di Fra Cristoforo, il quale però deve rinunciare e li aiuta a lasciare il loro paese.
«Atto secondo»: l’avventura di Lucia. Lucia si rifugia nel monastero di Monza, ma l?innominato su richiesta di don Rodrigo e con l’appoggio di Gertrude (la monaca di Monza), rapisce la ragazza. Lei per salvarsi offra alla Madonna la sua verginità. L’Innominato intanto, vive la profonda crisi morale e con l’appoggio del cardinal Federigo, la libera. Lucia si rifugia a Milano.
«Atto terzo»: l’avventura di Renzo. Renzo intanto è andato Milano, ma invece di trovare rifugio in un convento è rimasto coinvolto, per la sua ingenuità, nei tumulti dovuti alla carestia. Viene arrestato, ma riesce a liberarsi e a rifugiarsi nella Repubblica di Venezia.
«Atto quarto»: il matrimonio. Un’epidemia di peste colpisce la regione. Renzo va a Milano a cercare Lucia, la trova e con lei don Rodrigo morente e Fra Cristoforo il quale scioglie il voto di castità di Lucia. I due possono sposarsi.
Ci sono tanti romanzi dentro I Promessi Sposi. C’è quello politico e civile: la Lombardia del passato, dominata dagli spagnoli e simile a quella del presente, sottomessa agli austriaci. C’è un romanzo sociale: il popolo non è mai stato raccontato con tanta partecipazione. C’è anche il romanzo di formazione: quello che segue la crescita umana di Renzo. C’è ovviamente il romanzo storico. E poi c’è anche il romanzo realista: I Promessi Sposi sono il primo romanzo realista dell’Ottocento, prima ancora dell’arrivo di Balzac e di Stendhal. Infine c’è un romanzo di sentimenti, tutti analizzati con straordinaria finezza ma sempre molto controllati, è una storia d’amore, ma senza l’ombra di un bacio.
Attenzione però, I Promessi Sposi sono un romanzo scritto in tre fasi. Quella che leggiamo è l’edizione del 1840-42. Prima ci fu l’edizione del 1827, diversa quasi solo sul piano linguistico, e prima ancora ci fu il cosiddetto «Fermo e Lucia» scritto tra il 1821 e il 1823.
Nel Fermo e Lucia, Renzo si chiama Fermo, ma ci sono differenze ben più sostanziali. In moltissime pagine, poi rimosse, Manzoni indulge ancora al gusto dei romantici nord-europei che amavano l’eccessivo, l’avventuroso, il passionale, il morboso, tutto ciò che Manzoni definisce «il romanzesco«.
A differenza degli altri scrittori romantici, i quali preferirono quale sfondo per i loro romanzi il Medioevo o il Rinascimento, Manzoni si distinse perché fu l’unico a scegliere il Seicento quale teatro del suo romanzo storico. Manzoni compie questa scelta in modo geniale, spiazzando le tradizioni e le esperienze contemporanee, proprio perché individua nella Lombardia sotto la dominazione spagnola, una sorta di esempio di tutto ciò che rappresenta emblematicamente il rapporto tra gli uomini e il potere. Un potere arrogante e violento e gli umili che devono misurarsi con esso confidando ovviamente nella lungimiranza della provvidenza. Risulta evidente dentro il romanzo questo quadro di istituzioni spagnole deboli, la violenza rissosa dei signorotti di provincia, e poi c’è la grande istituzione, la sola che tenga e da fiducia che è la Chiesa Cattolica, rappresentata dalla chiesa ambrosiana, milanese, dai Borromeo.
E’ utile in questo contesto leggere una pagina dei Promessi Sposi. La scena descritta da Manzoni si svolge su un marciapiede, due gentiluomini arroganti, uno nobile e l’altro no, che si incontrano.
«Tutti e due camminavano rasente il muro; ma Ludovico (notate bene) lo radeva col lato destro; e ciò, secondo una consuetudine, gli dava il diritto (dove mai si va a cacciare il diritto!) di non istaccarsi dal detto muro per dar passo a chi che fosse; del che allora si faceva gran caso. Il sopravvegnente teneva all’incontro che quel diritto competesse a lui come a nobile, e a Ludovico toccasse di scendere; e ciò in forza d’un altra consuetudine. Perocchè in questo, come accade in molti altri affari, vigevano due consuetudini opposte, senza che fosse deciso qual delle due fosse la buona; il che dava opportunità di fare una guerra, ogni volta che una testa dura s’abbattesse in un’altra della stessa tempra. Quei due si venivano incontro, entrambi stretti alla muraglia, come due figure di basso rilievo ambulanti. Quando si trovarono muso a muso, il sopravvegnente, squadrando Ludovico a capo alto, col cipiglio imperioso, gli disse in un tuono corrispondente di voce: «Ritiratevi a basso!»
«A basso voi!», rispose Ludovico. «La strada è mia!»
«Coi pari vostri la strada è sempre mia.»
«Sì, se l’arroganza dei pari vostri fosse legge pei pari miei.»
I due accompagnamenti erano rimasti fermi, ciascuno dietro il suo capo, guardandosi in cagnesco colle mani alle daghe, preparati alla battaglia. La gente che giungeva nella via, si ritraeva, ponendosi in distanza ad osservare il fatto; e la presenza di quegli spettatori animava sempre più il puntiglio dei contendenti.«
Questo episodio di orgoglio spagnolesco è una schermaglia di accusa prestabilite, se non avesse un esito drammatico sarebbe comico, e l’ironia manzoniana è proprio lì a sottolinearlo. Ludovico e il suo avversario sono due schiavi del loro tempo. Ma come si fa ad uscire dal proprio tempo? Solo grazie alla provvida sventura: la disgrazia come occasione felice e grazie alla provvidenza che offre l’unica vera libertà. Ludovico ucciderà il suo avversario, se ne pentirà e si convertirà, divenendo Fra Cristoforo, l’eroe cristiano del romanzo.
La conversione detta al Manzoni alcune delle sue pagine più grandi, come la tormentata notte dell’Innominato dopo il rapimento di Lucia:
«S’alzò in furia a sedere, gettò in furia le mani alla parete accanto al letto, afferrò una pistola, la staccò, e… al momento di finire una vita divenuta insopportabile, il suo pensiero sorpreso da un terrore, da un’inquietudine, per dir così, superstite, si slanciò nel tempo che pure continuerebbe a scorrere dopo la sua fine. S’immaginava con raccapriccio il suo cadavere sformato, immobile, in balìa del più vile sopravvissuto; la sorpresa, la confusione nel castello, il giorno dopo: ogni cosa sottosopra; lui, senza forza, senza voce, buttato chi sa dove. Immaginava i discorsi che se ne sarebber fatti lì, d’intorno, lontano; la gioia de’ suoi nemici.
Anche le tenebre, anche il silenzio, gli facevan veder nella morte qualcosa di più tristo, di spaventevole; gli pareva che non avrebbe esitato, se fosse stato di giorno, all’aperto, in faccia alla gente: buttarsi in un fiume e sparire. E assorto in queste contemplazioni tormentose, andava alzando e riabbassando, con una forza convulsiva del pollice, il cane della pistola; quando gli balenò in mente un altro pensiero. — Se quell’altra vita di cui m’hanno parlato quand’ero ragazzo, di cui parlano sempre, come se fosse cosa sicura; se quella vita non c’è; se è un’invenzione de’ preti; che fo io? perchè morire? cos’importa quello che ho fatto? cos’importa? è una pazzia la mia… E se c’è quest’altra vita…! —
A un tal dubbio, a un tal rischio, gli venne addosso una disperazione più nera, più grave, dalla quale non si poteva fuggire, neppur con la morte. Lasciò cader l’arme, e stava con le mani ne’ capelli, battendo i denti, tremando. Tutt’a un tratto, gli tornarono in mente parole che aveva sentite e risentite, poche ore prima: — Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia! — E non gli tornavan già con quell’accento d’umile preghiera, con cui erano state proferite; ma con un suono pieno d’autorità, e che insieme induceva una lontana speranza. Fu quello un momento di sollievo: levò le mani dalle tempie, e, in un’attitudine più composta, fissò gli occhi della mente in colei da cui aveva sentite quelle parole; e la vedeva, non come la sua prigioniera, non come una supplichevole, ma in atto di chi dispensa grazie e consolazioni. Aspettava ansiosamente il giorno, per correre a liberarla, a sentire dalla bocca di lei altre parole di refrigerio e di vita; s’immaginava di condurla lui stesso alla madre.»
Dopo quella nottataccia tremendamente trascorsa, l’Innominato sente tutta la gente che festeggia sotto le finestre e allora, sfinito si affaccia alla finestra e proferisce quelle che a mio modesto avviso ritengo le parole ancora attualissime: «Che c’è d’allegro in questo maledetto paese?«
I Promessi Sposi non è soltanto un romanzo di grandi personaggi, ma anche un romanzo di grandi incontri e scontri ed è un romanzo che fa molto ridere, come per esempio quando don Abbondio fu rimproverato duramente dal cardinale Federigo per essersi lasciato intimidire dei bravi.
««Ma voi», proseguì e concluse il cardinale, «non avete visto, non avete voluto veder altro che il vostro pericolo temporale; qual maraviglia che vi sia parso tale, da trascurar per esso ogni altra cosa?»
«Gli è perché le ho viste io quelle facce», scappò detto a don Abbondio; «le ho sentite io quelle parole. Vossignoria illustrissima parla bene; ma bisognerebbe esser ne’ panni d’un povero prete, e essersi trovato al punto.»
Appena ebbe proferite queste parole, si morse la lingua; s’accorse d’essersi lasciato troppo vincere dalla stizza, e disse tra sé: «ora vien la grandine». Ma alzando dubbiosamente lo sguardo, fu tutto maravigliato, nel veder l’aspetto di quell’uomo, che non gli riusciva mai d’indovinare né di capire, nel vederlo, dico, passare, da quella gravità autorevole e correttrice, a una gravità compunta e pensierosa.
«Pur troppo!» disse Federigo, «tale è la misera e terribile nostra condizione. Dobbiamo esigere rigorosamente dagli altri quello che Dio sa se noi saremmo pronti a dare: dobbiamo giudicare, correggere, riprendere; e Dio sa quel che faremmo noi nel caso stesso, quel che abbiam fatto in casi somiglianti! Ma guai s’io dovessi prender la mia debolezza per misura del dovere altrui, per norma del mio insegnamento! Eppure è certo che, insieme con le dottrine, io devo dare agli altri l’esempio, non rendermi simile al dottor della legge, che carica gli altri di pesi che non posson portare, e che lui non toccherebbe con un dito. Ebbene, figliuolo e fratello; poiché gli errori di quelli che presiedono, sono spesso piú noti agli altri che a loro; se voi sapete ch’io abbia, per pusillanimità, per qualunque rispetto, trascurato qualche mio obbligo, ditemelo francamente, fatemi ravvedere; affinché, dov’è mancato l’esempio, supplisca almeno la confessione. Rimproveratemi liberamente le mie debolezze; e allora le parole acquisteranno più valore nella mia bocca, perché sentirete più vivamente, che non son mie, ma di Chi può dare a voi e a me la forza necessaria per far ciò che prescrivono.»
«Oh che sant’uomo! ma che tormento!» pensava don Abbondio: «anche sopra di sé: purché frughi, rimesti, critichi, inquisisca; anche sopra di sé.» Disse poi ad alta voce: «oh, monsignore! che mi fa celia? Chi non conosce il petto forte, lo zelo imperterrito di vossignoria illustrissima?» E tra sé soggiunse: «anche troppo.»
Al giorno d’oggi molte espressioni dei Promessi Sposi sono divenute quasi proverbiali.
«Quel ramo del lago di Como«
«Questo matrimonio non s’ha da fare, né domani, né mai«
«Carneade! Chi era costui?«
«Addio Monti«
«La sventurata rispose«
«Adelante Pedro, con juicio. Si puedes«
«Quel Cielo di Lombardia, così bello quand’è bello, così splendido, così in pace«
«Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia«
«Il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare«
«Il sugo di tutta la storia«
Luca D’Agostini
Lascia un commento
Вы должны авторизоваться чтобы опубликовать комментарий.