Sono passati poco più di vent’anni da questi agghiaccianti crimini. Questo articolo tratta della storia di un maniaco, il quale aveva costruito un bunker segreto sotto il suo garage ed in quel luogo segregò e violentò le donne che aveva ridotto in schiavitù, costringendole a lavorare per lui.
Tre prigioniere riuscirono ad uscire vive da quella prigione infernale.
Il criminale si chiamava Aleksandr Nikolaevič Komin. Gli eventi da incubo si svolsero nella sua città natale, Vjatskie Poljani, una cittadina della regione di Kirov. Ciò che rende ancora più sconcertante l’intera vicenda è il comportamento delle prede del maniaco durante la prigionia. Una divenne volontariamente assistente e complice del criminale. Un’altra eseguì ubbidientemente tutti i suoi ordini. Una fu in grado di ingannare Komin, abbassò il suo livello di vigilanza e riuscì a salvare se stessa, la figlia e le altre due prigioniere.
Durante la prima giovinezza, Komin era un adolescente assolutamente normale. Ma quando all’età di 18 anni, la maggior parte dei suoi pari fu chiamata per prestare il servizio militare, Komin venne rinchiuso in prigione a seguito di una condanna a tre anni di reclusione per teppismo. In carcere imparò la professione di sarto ma incontrò un altro detenuto il quale con la sua storia colpì la sua immaginazione. Quel detenuto era rinchiuso in carcere poiché aveva segregato e ridotto in schiavitù diversi senzatetto e li aveva costretti a dipingere icone false. Da allora Komin cominciò a pianificare inquietanti progetti per la sua vita futura.
Dopo la scarcerazione, inizialmente Komin condivise i suoi piani con un complice, Aleksandr Micheev.

(a sinistra)Aleksandr Komin, (a destra) il suo complice Aleksandr Micheev
Komin e Micheev decisero di costruire un bunker sotto il garage di Komin, ad una profondità di circa 10 metri. Furono necessari 4 anni per costruirlo. Dotarono il bunker di varie stanze, vi condussero l’elettricità, lo attrezzarono con macchine da cucire. Le pareti furono insonorizzate. L’unica via di uscita erano una rampa di scale che conduceva al garage, ma era protetta da scariche elettriche.
Quindi iniziò la ricerca dei futuri schiavi. All’inizio, i complici decisero che avrebbero usato senzatetto per i loro folli piani criminali. Scrissero persino la base ideologica della loro «impresa». La loro idea era che i senzatetto non portavano alcun beneficio alla società e l’unico modo per modificare tale situazione era costringerli a lavorare. Tuttavia, in pratica, la maggior parte delle vittime dei due criminali non furono né senzatetto né emarginati, ma semplicemente persone estremamente ingenue.
Le prime ricerche dei senzatetto nel mercato e nella stazione non portarono alcun risultato. Ma vicino a una delle scuole della città, il 13 gennaio 1995, Komin incontrò Vera Tolpaeva, una donna dell’età di 33 anni.

Vera Tolpaeva
Il maniaco la invitò a casa sua per festeggiare il vecchio anno nuovo insieme. La donna accettò, la vodka fece il resto. Ma l’ignara ospite non si aspettava che anche la clonidina venisse versata nel bicchiere. Si risvegliò già nel bunker. Komin la umiliava regolarmente, torturandola e violentandola. Ad un certo punto la donna impazzì. Komin le disse che aveva bisogno di una sarta professionista ma non riuscì ad insegnarle a cucire. Però Vera Tolpaeva offrì volontariamente al suo schiavista la possibilità di aiutarlo in un altro modo. Così, un’amica della Tolpaeva, Tat’jana Melnikova di 35 anni di età apparve nella triste vicenda. Per una strana coincidenza, la Melnikova risultò essere la convivente di un ex collega di Komin, Nikolaj Malich.
Il piano di Komin fu diabolico. L’uomo e la donna furono invitati per festeggiare un incontro tra vecchi amici. E poi, secondo lo schema già consolidato, c’erano la vodka e la clonidina. Dopo aver bevuto, i prigionieri furono divisi. La Melnikova fu portata giù nel bunker per cucire vestaglie e pantaloncini da mettere in vendita, l’uomo fu denudato e gettato in un cumulo di neve alla temperatura di venti gradi sotto zero. Il suo corpo fu ritrovato una settimana dopo, ma nessuno sospettò del crimine.
Komin decise che per svolgere alcuni lavori più pesanti, aveva bisogno di un prigioniero uomo. La scelta cadde su un forte paracadutista Evgenij Shishov di 37 anni di età, il quale recentemente era divenuto dipendente dall’alcool.

Evgenij Shishov
Una volta nel bunker, komin chiese all’uomo quale lavoro fosse in grado di effettuare. Shishov rispose di essere un elettricista militare specializzato. Tale confessione firmò la sua condanna a morte. Komin temeva che l’uomo, una volta ristabilitosi dagli effetti dell’alcool, fosse in grado di manomettere il suo impianto elettrico appositamente creato per proteggere la scala con forti scosse elettriche.
Così Komin pianificò l’esecuzione con crudeltà: creò una sedia elettrica fatta in casa costruita proprio per uccidere Shishov. Legò il corpo dell’uomo ubriaco sulla sedia. Vera Tolpaeva e Tat’jana Melnikova avrebbero dovuto premere i pulsanti che emanavano le scosse elettriche. La Melnikova si rifiutò di farlo anche sotto minacce e torture, mentre la obbediente Tolpaeva accettò.
All’ultimo momento, poco prima dell’esecuzione, Komin ci ripensò e decise di liberare il sempre ubriaco Shishov, il quale tornò a cercare da bere per le strade della città come se nulla fosse accaduto.
Vera Tolpaeva suggerì a Komin un’altra donna da portare nel bunker. Così la trentasettenne Tat’jana Kozikova divenne un’ulteriore prigioniera.

Tat’jana Kozikova
La Melnikova addestrò la nuova prigioniera nell’arte del cucito e il fatturato di questa fabbrica degli orrori crebbe bruscamente. La giornata lavorativa delle donne era di 16 ore, con crudeli punizioni per ogni errore commesso. Una volta la Melnikova dovette cucire 32 camici durante la notte per evitare torture e tormenti.
La Kozikova si comportò in modo diverso. Rispondeva apertamente al maniaco e occasionalmente cercò di intercedere per aiutare la Melnikova. Fu la Kozikova a scoraggiare la Melnikova dal suicidio, facendo leva sulla fede religiosa e quindi nella futura liberazione. La Kozikova creò anche dei talismani particolari, scrisse preghiere, le sigillò in sacchetti di plastica e poi le cucì all’interno di alcuni sacchi.
Alla fine, la Kozikova organizzò anche una fuga nella quale coinvolse la Melnikova. Komin purtroppo scoprì il piano delle due donne e le torturò brutalmente, percuotendole con le catene e alla fine offrì loro una crudele scelta: tagliarsi la bocca fino alle orecchie o fare una incisione sul loro viso con la parola «schiavo». Entrambi le donne di fronte a questa scelta terribile, preferirono la seconda opzione ed i loro volti rimasero sfigurati per sempre.

Tat’jana Kozikova e Tat’jana Melnikova
Nel frattempo, Komin, credendo nell’assoluta fedeltà della Tolpaeva, decise di concederle qualche ora di libertà al giorno per reclutare nuovi schiavi. La donna però, una volta fuori dal bunker decise di fuggire da quell’inferno. Komin decise così di continuare da solo il reclutamento. Alla stazione, trovò la ventisettenne Tat’iana Nazimova, la quale aveva vissuto per strada per diversi anni.

Tat’jana Nazimova
Anche in questo caso furono la vodka e la clonidina a stordire la malcapitata. Anche la Nazimova fu portata nel bunker, tuttavia non si dimostrò un’efficiente lavoratrice. La Nazimova era malata sia fisicamente che mentalmente. Per circa un anno, Komin la trasformò in una schiava sessuale. Alla fine, la salute della donna fu completamente minata. La Kozikova cercò di convincere il maniaco a liberare la ragazza, perché era pazza e non sapeva rendersi conto nemmeno di dove fosse. Komin capì che ormai era impossibile trattenere oltre la ragazza all’interno del bunker, ma non la liberò. Decise di ucciderla. Anche in questo caso, in modo crudele. La Nazimova non riceveva da mangiare da alcuni giorni e Komin decise di darle da mangiare, ma condì il suo pasto con un veleno particolare: il liquido dei freni. La ragazza morì avvelenata. La notte successiva, Komin abbandonò il suo corpo lungo una strada.

Tat’jana Nazimova deceduta
Sorprendentemente, per tutto questo tempo, Komin visse in un normale appartamento di città con la sua convivente. Né lei, né i parenti, né gli amici si resero mai conto di nulla.
Nel frattempo, nel gennaio del 1997, mentre stava camminando per la strada, Komin incontrò inaspettatamente Vera Tolpaeva. Finse di essere estremamente felice di vederla. Le offrì addirittura un lavoro: la vendita di accappatoi creati dalle sue schiave. La Tolpaeva accettò e contribuì nell’aiutarlo a reclutare nuovi prigionieri. Così pochi giorni dopo, la ventiduenne Irina Ganjushkina si ritrovò nel bunker.
Allo stesso tempo però il maniaco non dimenticò mai che in precedenza la Tolpaeva era fuggita approfittando della sua fiducia. La donna fu rapita, sottoposta a crudeli torture ed anche lei avvelenata con il liquido dei freni. La morte della Tolpaeva sopraggiunse dopo alcune ore di indescrivibili tormenti.
La Ganjushkina non sapeva come cucire, ma disegnava magnificamente. Quando Komin la stuprò per la prima volta, la Kozikova ebbe l’idea di un nuovo piano di fuga. Raccontò alla nuova prigioniera tutto ciò che era accaduto sino ad allora e le sorti degli altri prigionieri. La invitò a realizzare dei bellissimi disegni di Komin. Sorprendentemente, l’idea fu perfetta. Il maniaco amava quei disegni e presto si innamorò di Irina, al punto di offrirle la sua mano e il suo cuore. Il criminale lasciò la sua compagna la quale se ne andò dalla casa di Komin.
Ganjushkina fu portata fuori dal bunker. Komin le comprò un vestito bianco. La donna aveva anche una figlia piccola che viveva con i genitori di lei. Ganjushkina disse a Komin che erano giorni che non la vedeva e quindi aveva voglia di vederla. Così Komin l’accompagnò a casa dei genitori della Ganjushkina. Il maniaco portò con se un coltello affilato e minacciò la donna di effettuare una crudele esecuzione di tutti i suoi parenti nel caso in cui avesse accennato ad una richiesta di aiuto.
Così nelle mani di Komin finì un altro prigioniero, una bambina di 2 anni.

Aleksandr Komin, Irina Ganjushkina e sua figlia
Con questa mossa il maniaco sperava di mantenere la sua futura moglie in completa obbedienza. Altrimenti, le aveva promesso di uccidere la bambina.
La Ganjushkina insieme a sua figlia, fu costretta a vivere segregata nell’appartamento di Komin, ma il 21 luglio 1997, lasciata incustodita per qualche minuto, riuscì a fuggire portando con se la bambina.
Si recò immediatamente al comando di polizia dove raccontò tutto l’inferno di quel terribile bunker.
Le forze dell’ordine intervennero subito. Le due donne prigioniere furono salvate. Komin ed il suo complice Micheev furono arrestati. Micheev fu condannato a 20 anni di carcere, mentre Komin fu condannato all’ergastolo. Il giorno stesso della sentenza Komin si suicidò nella sua cella.
Il destino delle sue ex prigioniere fu diverso tra loro. Tat’jana Melnikova non si riprese mai più dall’esperienza della prigionia e delle torture. Visse senza una dimora fissa e qualche anno dopo il suo corpo fu ritrovato in una discarica.

Tat’jana Melnikova il giorno dopo la liberazione
Irina Ganjushkina faticò nel trovare un lavoro ma alla fine la ragazza fu assunta nella vecchia scuola come guardiana ed ottenne così anche una casa dove poter far crescere sua figlia Anastasia.
Infine, l’ideatrice dei piani di fuga, Tat’jana Kozikova, ritornata in libertà scrisse una lettera d’aiuto al bravissimo cantante ed immenso uomo, Iosif Kobzon. Il cantante aiutò economicamente la donna e fece pressione sulle autorità locali per far sì che alla donna fosse concesso tutto il supporto e l’aiuto necessario. Kobzon finanziò anche tutti gli interventi di chirurgia plastica che si resero necessari per rimuovere definitivamente la scritta «schiavo» dal suo volto e per ridare alla sua fronte un aspetto del tutto naturale, senza alcun segno degli interventi ricevuti.
Luca D’Agostini
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