E’ vero che la situazione è questa da ormai più di venti anni, ma la sua gravità imporrebbe una particolare e continua attenzione da parte dei media italiani ed invece come logico attendersi, trattandosi di un crimine commesso dalla NATO risulta purtroppo tristemente evidente il silenzio dei grandi mezzi di comunicazione.
Stiamo parlando di proiettili all’uranio impoverito, cluster bomb, missili Tomahawk, granate al fosforo, bombe a guida laser ed addirittura siluri. Parliamo di ventimila ordigni con caricamento a base di aggressivi chimici, non del presidente siriano Assad bensì abbandonati sul fondo del mare Adriatico dai Paesi della NATO durante il barbaro attacco contro la Serbia. Così talvolta, sulla battigia, da Grado a Gallipoli affiorano ordigni di ogni genere. Si tratta di bombe chimiche a base di sostanze letali come l’iprite, l’arsenico e l’uranio impoverito, che stanno devastando il patrimonio ittico e l’ambiente marino.
Sino a una trentina di anni fa, riferisce l’ICRAM (Istituto per la Ricerca Scientifica e Tecnologica Applicata al Mare), la pratica corrente di smaltimento di munizionamento militare obsoleto era l’affondamento in mare, nonostante la Convenzione di Barcellona, dal 1995, non consenta la discarica in mare di materiali che possano costituire pericolo per l’ambiente marino, per l’attività di pesca e per la navigazione.1 2
Molti residuati del secondo conflitto mondiale hanno seguito questa sorte. Infatti, fin dalla Seconda Guerra Mondiale, l’Adriatico è sempre stato utilizzato dalle forze armate statunitensi e britanniche come discarica dei loro ordigni letali ed altamente radioattivi, nonostante il loro utilizzo fosse vietato dai trattati internazionali.
Le forze armate britanniche, al termine del secondo conflitto mondiale, hanno deliberatamente affondato a poche miglia dal litorale di Bari, in fondali bassi e pescosi, migliaia di ordigni contenenti armi chimiche. Sulla vicenda il Governo di Londra ha imposto una censura militare tutt’oggi in vigore, nonostante che i primi documenti sanitari sui pescatori baresi contaminati da quelle sostanze risalgano al 1946.3
Presso gli archivi della Capitaneria di Porto di Manfredonia, vi è conservata una precisa ordinanza classificata come «numero 27», risalente al 18 Ottobre 1972. Il documento, firmato dal Tenente Colonnello Mariano Salemme, rende noto che «Nella zona di mare circostante l’isola di Pianosa, per una profondità di metri 100, sono depositate su fondo marino un numero imprecisato di bombe aeree che rendono quella zona pericolosa alla navigazione, ancoraggio e sosta di qualsiasi natante, e per la pesca, la pesca subacquea e la balneazione. Pertanto, dalla data odierna fino a nuovo ordine, nella zona di mare sopra indicata, per una profondità di mare di metri 500 (cinquecento), sono vietate la navigazione, l’ancoraggio e la sosta di qualsiasi natante, la pesca, la pesca subacquea e la balneazione«.3
Ai numerosi ordigni abbandonati sul fondale dell’Adriatico al termine della Seconda Guerra Mondiale, si aggiungono quelli ancor più pericolosi e radioattivi risalenti alla vile e brutale aggressione perpetrata dalla NATO ai danni della Serbia.
C’è un dossier dell’ICRAM, che rappresenta il risultato di due anni (1998-1999) di indagini in mare e di campionamento ed analisi delle acque e dei pesci. L’area prescelta è il tratto di mare esteso 10 miglia nautiche che si trova a 35 miglia al largo di Molfetta. Il rapporto afferma: «I fondali indagati costituiscono una delle quattro aree di affondamento individuate«. Ma quante altre aree di affondamento ci sono in Adriatico? Impossibile saperlo: le autorità militari non forniscono informazioni, tutto giace top secret. È certo, invece, che il caricamento dei ventimila ordigni individuati dall’ICRAM è costituito da aggressivi a base di iprite e composti di arsenico. In totale, sono state individuate «24 diverse sostanze costituenti il caricamento speciale; di queste, 18 sono persistenti e in grado di esercitare effetti nocivi sull’ambiente«.1
A seconda dei casi, queste sostanze provocano la distruzione delle cellule umane, attaccando occhi, pelle e apparato respiratorio; alterano la trasmissione degli stimoli nervosi. Negli organismi che ne entrano in contatto, siano esse allo stato liquido o gassoso, le sostanze provocano bruciore, edema, congiuntiviti, congestioni in naso, gola, trachea e bronchi, danni polmonari cronici e asfissia. Sono state scientificamente provate anche le alterazioni genetiche e le aberrazioni cromosomiche. Esposizioni gravi producono la morte per insufficienza respiratoria, polmonite e soprattutto, tumori. Questo per l’uomo.1
Riguardo ai danni provocati nell’ambiente marino, lo studio dell’ICRAM è chiaro. Grazie ai confronti con esemplari della stessa specie prelevati nel Tirreno meridionale, le analisi hanno rivelato nei pesci dell’Adriatico «tracce significative di arsenico e derivati dell’iprite«. Cosa significa tutto questo in linguaggio meno tecnico? Che i pesci dell’Adriatico sono particolarmente soggetti all’insorgenza di tumori; subiscono danni all’apparato riproduttivo; sono esposti a vere e proprie mutazioni genetiche. Quindi, non essendoci limitazioni alle attività di pesca, questi pesci continuano a finire sulle tavole dei consumatori. Con quali conseguenze per la loro salute? Studi specifici non sono mai stati fatti.1
Ed ogni tanto, chi lavora in mare, ci rimette la vita. Il 26 ottobre 2006 alle ore 5.30 del mattino, poco distante dalla costa di Porto San Giorgio, il peschereccio Rita Evelin, nuovo di zecca, è affondato con mare calmo dinanzi alla costa marchigiana e tre pescatori (due italiani Francesco Annibali e Luigi Lucchetti e il tunisino Ounis Gasmi) sono stati inghiottiti dal mare Adriatico. L’unico sopravvissuto, Nicola Guidi il comandante del peschereccio, ha dichiarato: «Ho sentito soltanto un forte botto e subito dopo la Rita Evelin ha cominciato a imbarcare acqua e ad affondare in pochi minuti«. Fine delle dichiarazioni: il pescatore non ha più parlato.2 E sapete chi fu tra i primi al mondo a dare la notizia della tragedia del Rita Evelin? Fu il sito internet dell’agenzia di stampa russa «Pravda». 2 Il fascicolo con i documenti riservarti di questo incidente sono conservati lontano da sguardi indiscreti, negli archivi della Capitaneria portuale di San Benedetto del Tronto.1 2
Due fatti sono attualmente certi. Primo: le salme dei pescatori potevano essere recuperate immediatamente, ma le autorità hanno preferito ripescarle con tutto comodo e dopo aver ispezionato il natante, ben 19 giorni più tardi, soltanto a seguito della dura protesta della marineria locale col blocco della linea ferroviaria adriatica, nonché dei familiari delle vittime. Eppure la magistratura italiana aveva disposto il recupero dei pescatori il 31 ottobre. I subacquei siciliani della società «Under Hundred» erano pronti a portare in superficie i corpi dei pescatori, ma le autorità militari non hanno gradito occhi indiscreti. Meglio tenere alla larga i civili. Secondo: la Rita Evelin non sarà tirata in secco, precludendo la possibilità di accertare le cause dell’affondamento.2
Il 25 maggio 1999, la poco nota deliberazione 239 del Consiglio Regionale delle Marche prendeva atto che «in questo ultimo periodo è continuato lo sganciamento di bombe da parte di aerei NATO nell’Adriatico, anche a ridosso della costa marchigiana«.1
Il 17 Maggio 1999, l’allora sindaco di Ancona Galeazzi ha dichiarato: «Purtroppo gli aerei della NATO hanno sganciato bombe a ridosso delle nostre coste, infischiandosene che in questo tratto di costa viaggiano quotidianamente un milione di persone e centocinquantamila Tir, infischiandosene che Ancona possegga la più grande flottiglia da pesca dell’Adriatico con 800 pescatori e 200 natanti.4
Sarà soltanto un caso, ma l’area del cosiddetto «incidente» coincide con una delle ventiquattro (e non sei come dichiarato dalla NATO) ampie zone in cui sono stati affondati gli ordigni chimici. In queste aree sono stati abbandonati decine di migliaia di bombe da aerei della NATO di ritorno dai bombardamenti contro la Serbia nel 1994-95 e nel 1999.1
Addirittura un ordigno con la scritta «U.S. 97» è affiorato nella laguna di Marano, ad appena 6 miglia dalle foci del Tagliamento, fra Grado e Lignano Sabbiadoro, ed in tutta la laguna il fondale non supera i 17 metri.2
Ma è soprattutto nel basso Adriatico che si registra la maggiore concentrazione di ordigni bellici. Soltanto a Molfetta, in un raggio di 500 metri dalla riva di Torre Gavettone (100 metri dalle abitazioni), i sub della Marina Militare Italiana ne hanno catalogati centodieci mila.1
Come se non bastasse l’Adriatico è stato anche teatro di giochi di guerra della Nato. A farne le spese cinque pescatori italiani, i primi 4 risultano ancora abbandonati in fondo al mare, il quinto venne a galla subito dopo l’incidente.1
Successivamente, la notte del 4 novembre 1994 ad affondare il peschereccio «Francesco Padre» di Molfetta nelle acque internazionali di fronte alla Puglia, è stato un ordigno bellico targato NATO. Lo provano un’esercitazione militare in corso quella notte dagli esiti secretati, una perizia chimica, quattro relazioni tecniche. L’ispezione, filmata con un «Rov» (Remotely Operated Vehicle), mini sommergibili filoguidati che possono scendere ad alte profondità, mostra sul fondale marino a 243 metri di profondità, oltre ai cadaveri dei pescatori anche il relitto integro del peschereccio, se non per uno squarcio a poppa via sinistra, provocato da un vettore esplosivo esterno.1
Sulla vicenda tuttora pesa il più ferreo segreto di Stato, imposto dall’Autorità Nazionale per la Sicurezza. Il bollettino di guerra prosegue: i dati delle Capitanerie di porto marchigiane precisano che tra Pesaro e Ancona, nei paraggi delle piattaforme metanifere, sono stati sganciati tre ordigni a grappolo e una decina di bombe a guida laser, lunghe quasi tre metri e mezzo e pesanti una tonnellata. Mentre nella «Montagna del Sole», a Rodi Garganico, San Menaio e Calenella, sono state rinvenute tre bombe al fosforo di fabbricazione statunitense.1
Non è possibile pensare che i ministri europei non sapessero nulla dell’uso di proiettili all’uranio impoverito. Infatti nel 1999, una lettera aperta inviata dall’allora ministro federale dell’Agricoltura della Repubblica Jugoslava, Jagos Zelenovic, ai colleghi dei Paesi dell’Unione Europea, denunciava il disastro ecologico causato dai ripetuti raid aerei della NATO. In particolare si segnalava l’uso sistematico di proiettili all’uranio impoverito da parte dei cacciabombardieri statunitensi A-10. Per i prossimi 50 anni pagheremo le conseguenze di questi crimini impuniti. Danni ambientali la cui entità è stata volutamente dimenticata ed ignorata dai media nonostante fosse evidente, fin dai raid in Bosnia del 1995, l’utilizzo dell’uranio impoverito. L’operazione venne battezzata «Deliberate Force» e un lungo rapporto descrive nei dettagli gli 11 giorni di bombardamenti, fra l’agosto ed il settembre del ’95. La relazione è presente alla biblioteca pubblica della marina degli Stati Uniti e venne rese nota nell’ottobre del ’95. Quindi i media italiani avrebbero potuto attingervi comodamente e diffondere le informazioni, ma non lo hanno fatto. Nell’allegato 2 del rapporto vengono elencati, divisi per nazionalità, le decine di aerei che parteciparono alle missioni sui cieli della Bosnia. Gli Stati Uniti, che hanno compiuto 2.318 missioni, il 65,9% del totale e schieravano nella base di Aviano uno squadrone di 12 aerei anticarro A-10. Il rapporto elenca nell’allegato 3, genere e numero di ordigni utilizzati, compresi 10.086 proiettili Pgu-14 Api, imbottiti d’uranio impoverito.2 I media italiani quindi sapevano ed il comportamento di coloro che indegnamente si definiscono «giornalisti» è deplorevole.
Luca D’Agostini
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Fonti
(1) Atti criminali
(2) Mare Adriatico
(3) Discarica di armi chimiche
(4) «Corriere.it» del 17 Maggio 1999
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