In Italia, ogni città, ogni paese ha una piazza, una via, una scuola, una caserma che portano il nome di Armando Diaz, ma alcuni nomi agli italiani non dicono nulla e restano slegati dalla storia in una memoria collettiva poco esercitata.
Esistono due momenti che segnarono il passaggio tra la disfatta di Caporetto e la resistenza sul Piave: il convegno di Rapallo e quello di Peschiera, dove si incontrarono il Re, alcuni rappresentanti del governo d’Italia, Lloyd George per l’Inghilterra e rappresentanti delle altre nazioni in guerra.
Quando la delegazione italiana si presentò a Rapallo, fu subito chiaro che l’aiuto francese e inglese, che in quel momento sembrava fondamentale per poter arrestare l ‘offensiva austro-tedesca, era condizionato al siluramento di Cadorna. Francesi e inglesi non si fidavano più di lui, erano convinti che il comando supremo sotto Cadorna avesse funzionato molto male, e per molti versi avevano ragione. Infatti il comando supremo sotto Cadorna funzionò molto male proprio per il carattere accentratore del generale in capo.
Ma chi poteva essere l’uomo giusto che avesse le competenze necessarie e anche la forza per sostituire Cadorna in un momento così terribile? Sappiamo per certo che Vittorio Emanuele rifiutò che come sostituto di Cadorna fosse nominato suo cugino, il Duca d’Aosta, ufficialmente perché il Duca d’Aosta non poteva essere coinvolto in quella che all’epoca pareva ancora pericolosamente una disfatta. Si pensava che Caporetto non fosse la fine, ma fosse l’inizio di una pericolosissima e rovinosa disfatta, che avrebbe trascinato con sé tutto il paese e quindi anche le sorti della casa regnante.
Nessuno, né tra le truppe, né tra i generali avrebbe pensato al nome di Armando Diaz tra quelli da proporre per la sostituzione di Luigi Cadorna.
Nelle sue memorie Vittorio Emanuele Orlando, allora Presidente del Consiglio, ricorda un colloquio avuto con il Re sull’argomento: «Interpellato da Vittorio Emanuele III sui nomi da proporre per il comando supremo dell’Esercito, risposi: «Io conobbi un generale che lasciò su di me un’eccellente impressione. Ma non posso non subordinare la scelta a quelle preferenze che la Vostra Maestà può fondare sulla conoscenza personale e diretta, attraverso il criterio decisivo del cimento». Sua Maestà mi disse che Egli aveva presente un nome, ma desiderava che comunicassi prima il mio. «Il Generale Diaz!» dissi, obbedendo a un desiderio che per me era un ordine. «E’ pure il nome che io Le avrei proposto!», mi rispose Vittorio Emanuele III.
Così fu deciso, il 28 ottobre, la nomina di Armando Diaz«.
Ma chi era Diaz? Diaz era un profondissimo conoscitore dei meccanismi interni della gestione dello Stato Maggiore, se non altro perché aveva lavorato alla segreteria dello Stato Maggiore dell’esercito fin dai tempi del predecessore di Cadorna, il generale Pollio. Cadorna l’aveva confermato, prima a capo della segreteria dello Stato Maggiore e poi a capo dell’ufficio operazioni. Questo faceva sì che Diaz fosse, in quel momento, l’ufficiale più esperto della gestione complessiva di quell’organismo di massa che era diventato il nuovo Esercito Italiano, un organismo che ai tempi di Caporetto raggiungeva un milione e ottocento mila uomini.

Generale Luigi Cadorna

Generale Armando Diaz
Di lontane origini spagnole da parte di padre, Diaz era figlio di Don Ludovico Diaz, nativo di Gaeta, un ufficiale della Marina Militare Italiana e ingegnere del Genio Navale, e di Donna Irene dei baroni Cecconi. Nacque a Napoli il 5 dicembre del 1861, secondo di quattro fratelli. Suo padre aveva progettato e varato l’incrociatore corazzato «Vettor Pisani» e le pirofregate corazzate «Conte Verde» e «Regina Maria Pia». Aveva anche inventato un timone speciale molto apprezzato dalla Marina inglese. La morte prematura di Don Ludovico Diaz, all’epoca direttore dell’Arsenale di Venezia, destò grande eco tra chi lo conosceva e lo stimava. Armando a quell’epoca aveva solo 10 anni. La famiglia fu costretta a tornare a Napoli e si occupò di loro, lo zio materno, l’avvocato Luigi Cecconi.
Armando seguì la tradizione militare del padre, ma anziché in marina, scelse di arruolarsi nell’esercito. In quegli anni in Italia, si poteva decidere di diventare ufficiali dell’esercito frequentando la Scuola Militare di Modena o l’Accademia di Torino. Torino voleva dire diventare ufficiale di artiglieria e del genio, le cosiddette «armi dotte», da cui provenivano la maggior parte dei generali. L’Accademia di Torino era una scelta molto più costosa, era una scelta elitaria e molto selettiva. Armando Diaz entrò dunque nei migliori circoli del professionismo italiano della guerra.
In gioventù, Diaz era un appassionato dei giochi d’azzardo con le carte. A tal proposito esiste un episodio che lo allontanerà dai giochi di carte per il resto della vita. Mentre era un giovane ufficiale, una sera al circolo ufficiali di Casoria giocò a «chemin de fer«. Ad un certo punto, perdendo continuamente, perse quasi tutto il suo patrimonio. Decise allora di giocare un’ultima mano e giurò che se avesse vinto non avrebbe mai più toccato una carta per tutta la vita, se avesse perso invece, si sarebbe suicidato sparandosi un colpo in testa. In quella mano fu fortunato e mantenne fede alla sua promessa di non toccare mai più una carta da gioco.
Armando Diaz apparteneva alla prima generazione di ufficiali che si formarono nel Regno d ‘Italia. Tra Luigi Cadorna e Armando Diaz non correvano tantissimi anni a guardare le data di nascita, Cadorna era nato nel 1850, Diaz nel 1861, ma sono quegli undici anni che fecero la storia italiana, perché quella differenza, tutto sommato nemmeno di una generazione, marcò un baratro culturale che li accompagnò per tutta la vita. Cadorna veniva dalla tradizione risorgimentale, ottenne il suo primo incarico come giovanissimo sottotenente durante la Campagna di Roma del 1870, fu in fin dei conti, l’ultimo erede della tradizione culturale dell’aristocrazia di spada sabauda, anche se in realtà non proveniva da una grande famiglia della nobiltà. Armando Diaz invece era un ufficiale borghese, era un «tecnocrate» come lo chiameremmo oggi, formatosi nella cultura dei tecnici delle armi d’artiglieria. Diaz trascorse quasi tutta la sua carriera nelle stanze degli Stati Maggiori e imparò a gestire gli strumenti culturali di un esercito allora moderno, un esercito di un’era tecnologica industriale di massa. Diaz ebbe quindi un percorso professionale molto diverso da quello del suo predecessore al comando supremo.
A Napoli, Diaz conobbe Sara De Rosa, figlia di un noto avvocato e nipote del famoso giurista Mirabelli. Il matrimonio si celebrò nell’aprile del 1895. Subito dopo gli sposi si trasferirono a Roma dove Diaz lavorava come addetto alla segreteria del capo di Stato Maggiore Pollio. Dal loro matrimonio nacquero tre figli, un maschio e due femmine.
Armando Diaz fu nominato colonnello a cinquant’anni, quando Cadorna era già generale. Tuttavia questo gli consentì di maturare un’esperienza per certi versi molto più ricca. Infatti Luigi Cadorna non ebbe mai il comando operativo delle truppe in battaglia. Cadorna vide la sua prima battaglia da comandante nel 1915, quando ricopriva già la carica di comandante supremo.
Invece Diaz, tra il 1911 e il 1912, era al comando del 21° reggimento di fanteria di stanza a Pisa. Nel 1912 sostituì il malato colonnello Dini al comando del 93° reggimento di fanteria in Libia.
Armando Diaz era un ottimo amministratore militare, ma soprattutto conosceva molto meglio la realtà e i dettagli della vita dell’esercito. Conosceva le caserme, conosceva i coscritti in armi di cui Cadorna sapeva pochissimo e quel poco che sapeva non gli piaceva per niente. Cadorna fondamentalmente disprezzava i suoi soldati. Cadorna per molti versi era un generale pre-moderno, non aveva alcuna fiducia nella struttura di staff, non voleva delegare responsabilità, era convinto che lui deve vedere, sapere e decidere ogni cosa. E proprio questa sua incapacità di delegare è di fatto all’origine del cattivo funzionamento del comando supremo.
Emblematico quanto scritto il 28 ottobre 1917 dal generale Luigi Cadorna nel bollettino di guerra N. 284: «La mancata resistenza di reparti della seconda armata, vilmente ritiratisi senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico, ha permesso alle forze austro-germaniche di rompere la nostra ala sinistra sul fronte Giulia. Gli sforzi valorosi delle altre truppe non sono riusciti ad impedire all’avversario di penetrare nel sacro suolo della Patria«. Questo bollettino, diramato integralmente all’estero, fu invece ritirato e attenuato per la stampa italiana. I giornali che erano riusciti a pubblicarlo integralmente furono immediatamente sequestrati. Colpa dunque dei soldati? Oppure del disfattismo che secondo Cadorna aveva disgregato il morale del paese compromettendone lo sforzo militare?
Sempre il 28 ottobre 1917, in un telegramma il capo di Stato Maggiore Cadorna aveva pronunciato quest’altro giudizio: «L’esercito non cade vinto dal nemico esterno, ma da quello interno, contro il quale invano reclamai provvedimenti con quattro lettere dal giugno all’agosto rimaste senza risposta«.
Con un tale Capo di Stato Maggiore, la vita per i soldati non era affatto facile, ma non lo era neppure per i governanti. Diaz quindi fu scelto per sostituire un generale inviso a molti. Un generale che fin lì aveva perso centinaia di migliaia di uomini, non solo in battaglia ma anche per un bisogno di applicare la disciplina in modo rigido e disumano.
Che si dovesse motivare meglio i soldati, nel caso italiano i semplici coscritti, l’elemento di base di quella enorme massa umana che costituiva l’esercito, era una verità condivisa fin dai primi mesi di guerra. Inoltre l’esercito italiano soffriva anche di un problema unico nel suo genere. Infatti ricordiamoci che non tutti i coscritti conoscevano la lingua italiana, anzi la maggior parte di loro parlava solo il dialetto della propria zona di nascita e ciò rendeva alquanto problematica la comunicazione tra i soldati stessi. Ebbene, per affrontare queste problematiche, che costituivano uno sforzo del tutto nuovo per l’Italia, che era un paese relativamente povero e arretrato, bisognava anche in qualche modo mutare la mentalità e cambiare il modo in cui si percepiva l’arte della guerra. Bisognava arrivare a gestire, mobilitare, conservare il consenso in un Paese, l’Italia, dove tra la massa della popolazione non è mai stato ampiamente diffuso un sentimento di amore per la propria Terra, sentimento che invece in Russia è riassunto nel concetto di «Madre Russia» e che consente anche alla massa della popolazione di immolarsi per la propria Terra. In un Paese come l’Italia, il consenso non si poteva gestire, non si poteva mobilitare e non si poteva conservare con i discorsi dei generali sull’amor di Patria, in quanto «morire per la Patria», in un Paese così giovane come l’Italia, da sempre suddiviso in guelfi e ghibellini, era un concetto per molti astratto e un sentimento non molto diffuso.
Per gestire, mobilitare e conservare il consenso nell’Esercito italiano, non si poteva puntare sulla ferrea disciplina. Quel tipo di gestione era mal sopportata dai soldati italiani e quindi si comprese che era necessario ammorbidire la disciplina militare, concedendo licenze più frequentemente e con maggiore facilità, rimodulando i turni all’interno delle trincee alternandoli con adeguati turni di riposo, facendo funzionare il servizio viveri e il rifornimento di indumenti al fine di diminuire la massa dei pidocchi che rendevano ulteriormente difficile la vita dei soldati italiani.
Un altro elemento importante, che segna un netto miglioramento del cosiddetto «servizio P«, il Servizio Propaganda per ottenere il consenso delle truppe e dei cittadini, furono i giornali di trincea. I giornali al fronte costituirono in realtà sono uno strepitoso elemento di novità mass-mediatico nella guerra. Rappresentavano il tentativo dell’esercito di riconoscersi compiutamente come un’agenzia di pedagogia collettiva. L’Esercito italiano, fin dal 1861 è sempre stato una sorta di grande scuola della nazione, in cui ai coscritti analfabeti veniva insegnato a leggere e scrivere, a parlare in italiano, a sapere chi fosse il Re e cosa fosse il governo. I coscritti venivano anche educati e gli venivano insegnati i rudimenti delle buone maniere, fino addirittura ad insegnare loro a usare il sapone e lo spazzolino da denti.
Nel frattempo, per merito di Francesco Saverio Nitti, allora ministro del Tesoro, il governo emise una polizza di assicurazione per i soldati al fronte, e con la fondazione dell’Opera Combattenti si incominciò a pensare alla distribuzione di terre ai reduci. Si comprese insomma la necessità di motivare militari e civili, moltissimi dei quali invece non ritenevano indispensabile quella guerra sanguinosa che si stava combattendo. Si comprese che in Italia occorreva convincere il popolo e ogni singolo soldato che stava combattendo per il proprio bene e il proprio interesse materiale, e non per il bene di una patria che non sentiva propria o di un re che non aveva mai visto. Non si poteva convincere la stragrande maggioranza degli italiani che si stava combattendo per Trento e Trieste, ma che si stava combattendo per le proprie case, per difendere la propria famiglia. Così diveniva possibile convincere anche il contadino meridionale, che in fin dei conti stava combattendo per la propria famiglia e il per il benessere materiale del proprio futuro. Con la promessa di aiuti economici e concessione di terre, si fece leva su quelli che in fondo, nei paesi dove forte è l’amor di Patria, costituiscono gli elementi della guerra difensiva. Un concetto molto semplice per chi ama la propria Terra, «dal fronte mi volto e vedo casa mia, quindi lotto con tutte le mie forze per difenderla«. Per quanto riguarda l’Esercito italiano, rappresentante di un Paese unitario nato solo da qualche decennio, occorreva invece far leva sulla promessa di aiuti economici.
Così, quell’esercito che il capo di Stato Maggiore austriaco Konrad definì «un naufrago attaccato ad una zattera» riprese animo sotto la guida di Diaz, il quale comprese gli immani sacrifici e le fatiche dei soldati immotivati e ridotti allo stremo.
Contestualmente alla nomina del generale Armando Diaz a capo di Stato Maggiore, il governo nominò anche due suoi vice, il generale Giardino e il generale Badoglio. Di Giardino Diaz si liberò elegantemente promuovendolo a un comando d’armata. Giardino diventerà poi il comandante dell’armata del Grappa. Badoglio invece divenne uno stretto collaboratore di Diaz.
Diaz credeva fortemente nel lavoro di staff. Non fece altro che applicare la dottrina dominante negli stati maggiori europei di quell’epoca. Nello Stato Maggiore Imperiale tedesco, dominato da figure titaniche come Paul von Hindenburg e da Erich Ludendorff, semplici tenenti colonnelli e colonnelli dovevano contraddire il capo, perché il loro compito era quello di esprimere un parere fondato e specialistico. Così, il comando supremo di Diaz si rivelò uno straordinario incubatore di competenze personali. Dentro quel comando supremo finalmente l’ufficio stampa funzionò. Finalmente funzionò l’ufficio intelligence che sotto Cadorna aveva funzionato un po’ a singhiozzo, perché i precedenti responsabili del servizio informazioni, ad esempio Giovanni Garruccio, erano in realtà degli incompetenti che funzionavano molto meglio come polizia segreta per danneggiare i propri colleghi, che come agenti segreti per contrastare il nemico. Diaz riformò completamente questa struttura, arruolandovi giovani anche estranei all’esercito, ma straordinariamente molto preparati, uno su tutti Ferruccio Parri.
Giungiamo al giugno 1918. C’era una frontiera che pareva ancora invalicabile, quella del Piave. Questa volta il comando italiano era ben preparato, il morale delle truppe era senz’altro migliorato e soprattutto l’intelligence italiana riuscì ad ottenere informazioni esatte riguardo il giorno e le modalità dell’attacco.
Durante la battaglia del Piave, Diaz era nel suo ufficio di campo insieme al generale Badoglio e al generale Scipioni. Al terzo giorno della battaglia del Piave, fu chiaro che l’esercito italiano avrebbe vinto. Diaz fu così subito convocato dal Re a Villa Italia, che si trovava a Montegrotto, nei pressi di Abano.
Il generale Diaz, insieme al suo attendente, il cavaliere Riccardo Traverso di Portogruaro, partirono con un’automobile per recarsi dal Re. Giunti a Villa Italia trovarono Vittorio Emanuele III ad attenderli sul cancello. Il generale Diaz scese dall’automobile, si presentò davanti al Sovrano e dopo aver compiuto il saluto militare si mise sull’attenti ed esclamò: «Maestà, l’Italia è salva!«.
La guerra però non era ancora finita, il nemico andava cacciato dalle terre italiane. Continuarono i combattimenti fino a ottobre del 1918. Il 10 ottobre tutto era pronto, l’attacco era previsto per il giorno 16 ottobre 1918. Intervennero però degli imprevisti. Pioveva assiduamente da molti giorni e il 16 ottobre il Piave era in piena. Le sue acque erano salite paurosamente, era la piena più alta registrata da molti anni e giunse in anticipo sulla stagione. La situazione idrica del fiume indusse il comando supremo italiano a rinviare ulteriormente l’attacco. A Roma nel frattempo non compresero le motivazioni del ritardo dell’attacco, e con un gesto d’impeto, il presidente del Consiglio Orlando rimosse Diaz, nominando il generale Giardino Capo di Stato Maggiore.
Appreso del siluramento di Diaz, il re Vittorio Emanuele III telegrafò immediatamente a Orlando, invitandolo a recarsi personalmente sul Piave in modo tale da accertarsi con i propri occhi che l’attacco militare sarebbe stato impossibile. Il giorno dopo, il presidente del Consiglio Orlando e il ministro degli Esteri Sidney Sonnino, si recarono sul Piave e compresero che la rimozione di Diaz era un errore in quanto la situazione climatica e ambientale non consentiva l’avvio di operazioni militari su larga scala. Diaz rimase così al suo posto.
La battaglia che darà la vittoria all’Italia, iniziò sul Grappa il 24 ottobre, un anno esatto dopo la battaglia di Caporetto. Il compito principale fu riservato all’8° armata schierata sul Montello. Attraversato il Piave avrebbe dovuto separare le forze nemiche del settore alpino da quelle della pianura, puntando su Vittorio Veneto. La comandava il generale Caviglia. Ma il 26 ottobre, data fissata per l’attacco, sul fiume la piena distrusse più volte proprio i ponti gettati dell’8° armata e i pochi reparti che ebbero modo di transitarvi vennero a trovarsi in enorme difficoltà. Per due giorni le truppe italiane combatterono con angoscia sulla sponda sinistra del Piave, mentre il nemico reagì con estrema violenza sul Grappa, dove le truppe della 4° armata sostennero un’azione eroica e sanguinosa.
Gettati però stabilmente i ponti nella notte del 29 ottobre, quel giorno stesso il generale Grazioli arrivò Vittorio Veneto. La resistenza austriaca era stata spezzata. Il pomeriggio del 4 novembre 1918, quando entrò in vigore l’armistizio, trecento mila prigionieri e sei mila cannoni catturati, stavano ad indicare le proporzioni della vittoria italiana.
In quei giorni, Diaz in una lettera alla moglie commentò amaramente: «Dagli uomini del governo bisogna guardarsi. Compresi quelli che si dicono ammiratori, perché un criterio di opportunismo momentaneo può far dimenticare tutti i servizi resi e tutti i meriti. Ora sono sugli altari e mi si loda anche per quello di cui mi si faceva un torto. E credi, che la guerra l’ho vinta più con la forza del cuore e dei nervi, che per le doti di mente. Io mi sento più forte di tutti e più equilibrato di tutti. Non do peso a queste cose, continuo come sempre con infinita fede la mia strada. E’ troppo grande e troppo bello quello che accade per fermarmi ai pettegolezzi«.
Vittorio Veneto segnò quindi una tappa fondamentale per la storia d’Italia. Quella di cui il Fascismo decise poi di appropriarsi, interpretando con quella frase di Mussolini che si presentò a Vittorio Emanuele III dicendo: «Maestà, io vi porto l’Italia di Vittorio Veneto!» L’idea consisteva nel fatto che il Fascismo era l’erede di quella nuova Italia, marziale, vittoriosa, guerriera e forte. Di tutto questo, Diaz era ovviamente il protagonista. Lo era in Italia e lo era anche all’estero.
Subito dopo la guerra Diaz effettuò una serie di viaggi, a Parigi durante la Conferenza di Versailles, a Londra dove ricevette in omaggio una spada d’onore, a New York dove l’università gli conferì il diploma di dottore honoris causa. Gli italo-americani di New York accorrevano in massa in strada per salutare il generale Diaz durante i suoi incontri istituzionali, convinti che la fama del generale avrebbe contribuito a migliorare la reputazione degli italiani negli Stati Uniti.
Si può immaginare quale sia stata in Italia l’eco delle sue celebrazioni trionfali all’estero. Forse una persona con un carattere diverso da Diaz avrebbe approfittato di più di questa situazione, ma Diaz era una persona con un senso del dovere notevole e intendeva ricoprire con onore il ruolo di funzionario pubblico al servizio dello stato.
Questo ci aiuta a capire meglio il suo atteggiamento nei mesi e negli anni successivi a Vittorio Veneto. Diaz ovviamente rimase a capo dello Stato Maggiore, ma lo lasciò alla fine del 1919 perché ritenne finito il suo mandato.
Il momento era delicato. L’Italia dopo la guerra era piena di debiti e con tante ferite da sanare. Il governo fu costretto a tagliare organici, si bloccarono le carriere militari e il reclutamento. Diaz prima di lasciare l’incarico aveva avviato la smobilitazione dell’esercito, ma essendo ancora in servizio fu coinvolto nel suo rinnovamento.
Diaz pur sostenendo la linea del governo italiano a Versailles, non era per niente convinto e lo disse anche chiaramente, che le velleità imperialistiche italiane nell’area del Mediterraneo avevano un senso. Lui ragionava da ufficiale dell’esercito e riteneva che se L’Italia si fosse dovuta assumere la gestione di una sorta di area imperiale nell’Adriatico, avrebbe dovuto inviare e mantenere guarnigioni dell’esercito sparpagliate per tutta la costa balcanica e ciò era semplicemente inattuabile, in quanto l’Italia non disponeva né dei soldi, né degli uomini per ricoprire un ruolo del genere.
Quindi Diaz mantenne una posizione molto più prudente sull’annoso problema della Dalmazia agli italiani, che investì l’Italia durante l’annosa crisi di Fiume. Fiume fu presa grazie alla ribellione di reparti regolari dell’esercito che nel 1919 si ribellano al potere legittimo. Diaz non volle avere nulla a che fare con questa situazione, scaricò la responsabilità della gestione materiale del problema di Fiume sulle spalle di altri colleghi, soprattutto sul generale Caviglia che fu colui che risolse la faccenda sparando cannonate su Fiume e costrinse D’Annunzio a ritirarsi.
Nei mesi successivi alla guerra si formò un nuovo consiglio dell’esercito che doveva decidere anche chi avrebbe comandato le forze armate. L’esperienza dell'»uomo solo» aveva portato l’Italia ad affidarsi al generale Luigi Cadorna, cui seguì la vicenda terribile di Caporetto. Diaz decise di appoggiare l’idea di un comando collettivo, opponendosi anche al suo sodale Badoglio. Giolitti, allora Presidente del Consiglio, notoriamente avverso ai militari, insistette perché è a capo del comando fosse posto un ministro, un civile. Diaz anche in questa occasione mantenne un atteggiamento defilato.
Intanto nuove figure erano apparse o si erano consolidate nel panorama italiano. Benito Mussolini, a capo di una nutrita folla di giovani che stava spadroneggiando violentemente da mesi, determinato a salire al potere, aveva organizzato una grande marcia su Roma.
Ma chi erano gli squadristi tra il 1919 e il 1922? Erano prevalentemente una marmaglia di ragazzi, molto spesso giovanissimi, guidati da alcuni ma non tanti veterani della prima linea, che pretendevano il diritto di armarsi per combattere contro socialisti, popolari, anarchici o chiunque secondo loro fosse un disfattista anti-patriottico.
La situazione in Italia si era ulteriormente aggravata quando, nel giugno del 1920, Giolitti ricoprì nuovamente la carica di Presidente del Consiglio. Oltre agli scioperi a catena che degeneravano spesso nella violenza, si verificavano da parte dei socialisti e degli anarchici, aggressioni ai militari e attentati alle caserme. Nel settembre del 1920, Giolitti si trovò a dover gestire le occupazioni delle fabbriche, ma era convinto che l’agitarsi degli estremisti era condannato all’insuccesso e così non intervenne per riportare ordine. Intanto l’opinione pubblica italiana rimase profondamente colpita dai disordini che divamparono in tutta Italia.
Fu così che i militari videro negli squadristi degli alleati. Decisero di chiudere gli occhi di fronte al disordine e appoggiarono lo squadrismo, un giorno fornendo un po’ di fucili, un altro giorno prestando dei camion, «dimenticando» di sorvegliare bene le armerie e curiosamente i Fascisti prelevarono due mitragliatrici proprio da un’armeria mal sorvegliata. Tutto questo in realtà ha una sua spiegazione, basata su alcuni precedenti che risalgono ai primissimi mesi del dopoguerra, quando ai Prefetti del Regno fu dato l’ordine di sostenere in tutti i modi possibili le associazioni spontanee di cittadini che dovessero impegnarsi a tutelare l’ordine contro ogni possibile movimento rivoluzionario. Cioè in pratica, lo Stato Italiano agli inizi del 1919 abdicò al principio della violenza legittima, perché ebbe il timore di non avere la forza per opporsi a una rivoluzione di tipo bolscevico.
Diaz mantenne una posizione ambivalente, il disordine lo infastidiva e non sostenne mai lo squadrismo e le associazioni patriottiche spontanee. Tuttavia, al Re che lo interpellò sulla reazione dell’esercito all’eventuale ordine di sparare sulla folla, rispose: «Maestà, l’esercito farà il suo dovere, ma sarebbe meglio non metterlo alla prova!«
Questa posizione è molto indicativa anche da un punto di vista simbolico. Infatti Diaz era ancora visto come l’espressione collettiva delle forze armate. E’ evidente quindi, che Diaz fosse nominato da Mussolini come ministro della Guerra nel primo governo fascista, che poi in realtà era fascista per modo di dire, perché Mussolini fu abilissimo nel gestire la transizione tra il regime liberale e il proprio dominio. Il primo governo fascista in realtà fu un governo di larga coalizione.
A Diaz fu richiesto di normalizzare le forze armate e lui eseguì il compito. L’esercito che uscì dalla gestione Diaz, il modello che si studiò nel 1923, in realtà era un modello in cui si prestava molta più attenzione a mantenere i posti degli ufficiali che a rafforzare l’operatività dei reparti dell’esercito italiano. L’Esercito italiano del 1923-25 era un esercito realmente inefficiente, molto più inefficiente dell’Esercito dell’Italia liberale. Perché allora Diaz garantì questa transizione, una transizione suicida? Perché in realtà, quello che premeva soprattutto agli ufficiali e ai sottufficiali italiani era non perdere il posto. Il popolo italiano non è un popolo guerriero, quindi l’esercito non era visto dagli italiani come uno strumento per affinare sempre più l’arte della guerra, bensì come un porto a cui approdare per ottenere il tanto aspirato «posto fisso».
Tutto ciò ebbe la conseguenza che l’Esercito italiano degli anni Venti, diventasse improvvisamente un esercito di impiegati e burocrati, piuttosto che un esercito performante ed efficacemente operativo nei teatri di guerra. E questa è un’eredità pesante, perché l’eredità dell’inefficienza militare italiana non verrà mai più colmata.
Nel maggio del 1924 in Italia si tennero nuove elezioni. Diaz nello stesso anno lasciò l’incarico di ministro della Guerra nominando come successore il generale Di Giorgio. All’età di 63 anni, combattendo sul Carso aveva contratto una brutta patologia bronchiale e la salute minata lo indusse a ritirarsi a vita privata.
Nel novembre del 1924 però, Mussolini lo convocò per offrirgli un’onorificenza di grande prestigio. In una cerimonia trionfale, al generale Armando Diaz e al generale Luigi Cadorna fu consegnato il bastone di Maresciallo d’Italia.
Mussolini, ex socialista rivoluzionario, respinto al corso ufficiali proprio per l’intervento di Cadorna, odiava il vecchio aristocratico e algido comandante supremo, il quale oltre ad avergli negato la carriera militare aveva quasi fatto perdere la guerra all’Italia. Ma nonostante questo ostilità personale, Mussolini che era un abilissimo gestore di quella oggi chiameremmo «la strategia mediatica», cioè della manipolazione dell’opinione pubblica, (in fin dei conti era un giornalista), decise che occorreva sanare le ferite, che bisognava radunare il massimo del consenso degli italiani attorno all’idea della Grande Guerra, più che alla sua realtà. Quindi, nel tentativo di riappacificare gli italiani stringendoli tutti insieme verso l’idea di un grande sacrificio al quale tutti, in vari modi, avevano partecipato e contribuito, Mussolini creò questo nuovo grado militare e in un’unica e spettacolare cerimonia, conferì il bastone di Maresciallo d’Italia a Diaz e a Cadorna.
Trascorse gli ultimi anni della sua vita nella sua casa di Napoli. Morì a Roma il 29 Febbraio del 1928. Appassionato di lirica, la sera prima si era recato al Teatro dell’Opera per assistere alla prova generale del «Nerone» di Arrigo Boito. Finito lo spettacolo si mise ad aspettare l’auto sotto il portico, ma era una serata rigida e si ammalò gravemente. Il padre gesuita, mentre gli dava l’estrema unzione, gli disse: «Generale, si metta in alta uniforme, perché fra poco dovrà comparire davanti a Dio!«
La filosofia di vita di Armando Diaz è contenuta nelle parole del seguente antico sonetto francese, ricopiato di suo pugno e che teneva gelosamente custodito:
«Avere una casa comoda, pulita e bella,
un giardino cosparso di siepi odorose,
frutta, vino eccellente, poche preoccupazioni,
dei figli, avere una compagna fedele,
conservare uno spirito libero e un giudizio forte,
dire il rosario e badare alle proprie rendite,
e aspettare dolcemente la morte.»
Luca D’Agostini
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Fonti
Mario Isnenghi, Giorgio Rochat, La Grande Guerra, Il Mulino, Bologna 2014
Mark Thompson, La guerra bianca. Vita e morte sul fronte italiano 1915-1919, Il Saggiatore, Milano 2014
Diario della Guerra d’Italia, Milano, Fratelli Treves, 1924
Luigi Gratton, Armando Diaz duca della vittoria. Da Caporetto a Vittorio Veneto, Bastogi Editrice Italiana, Foggia 2001
Giors Oneto, Apres Caporetto, Spiridon France, Aubagne 1990
https://youtu.be/IGpll6cOub0 (Armando Diaz)
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