Durante l’invasione dell’Iraq, soldati dell’esercito degli Stati Uniti e funzionari della CIA (Central Intelligence Agency), commisero crimini di guerra a tutt’oggi ancora impuniti. Tali crimini inclusero abusi fisici e sessuali (stupri di gruppo e sodomizzazioni), torture e omicidi.1 2 3 4
Gli abusi giunsero all’attenzione generale con la pubblicazione di fotografie delle violenze nel programma televisivo «60 minutes» su CBS News nell’aprile del 2004. Le foto erano state scattate per vanto e goliardia dagli stessi soldati statunitensi all’interno della prigione di Abu Ghraib, situata nella omonima città a 32 km a ovest di Baghdad.
L’amministrazione George W. Bush cercò di dipingere gli abusi come incidenti isolati, non indicativi di una politica generale degli Stati Uniti. Ciò venne però contraddetto dalle indagini internazionali le quali stabilirono che gli abusi di Abu Ghraib non furono affatto incidenti isolati ma parte di un vasto piano di torture organizzate presso centri di detenzione statunitensi all’estero nei confronti di detenuti ai quali non era stata mossa alcuna accusa formale. Furono trovate prove che l’autorizzazione alle torture veniva addirittura dal segretario alla Difesa Donald Rumsfeld.
Purtroppo l’opinione pubblica mondiale non ha potuto osservare tutte le foto delle torture commesse da questi criminali con la divisa a stelle strisce poiché sono numerose le fotografie alla cui divulgazione il poi eletto presidente Obama oppose il veto, motivando la sua opposizione con le ripercussioni che la pubblicazione delle immagini avrebbe avuto sulla sicurezza nazionale degli Stati Uniti.5 Ma il patetico ex presidente degli Stati Uniti ignora che la minaccia alla sicurezza degli Stati Uniti non viene dalla pubblicazione degli abusi commessi dai loro uomini, bensì dagli abusi stessi. Ed è chiaro perché Obama si rifiuti di far pubblicare molte foto delle torture di Abu Ghraib: quelle foto riguardano torture commesse su donne e bambini piccoli. Infatti come rivelato dall’ex direttrice del carcere di Abu Ghraib, il generale Janis Karpinski: «dietro le sbarre erano detenuti anche bambini dall’apparente età di 7/8 anni. Grazie alle rivelazioni del giornalista investigativo Seymour Hersh, si venne a sapere che molte delle foto di cui la presidenza degli Stati Uniti aveva vietato la pubblicazione, erano relative ad indicibili torture, violenze e umiliazioni e torture ai danni di donne e bambini di piccolissima età.6
La varietà delle torture, fisiche e psicologiche, mostra il vero volto di una banda di criminali che troppo spesso in Occidente viene fatta passare per un esercito di liberatori, per essere i «buoni», i «giusti», gli esportatori di democrazia.
Eric Fair, uno dei soldati statunitensi aguzzini ad Abu Ghraib, il quale anziché essere stato fucilato per i crimini di guerra commessi come in realtà avrebbe meritato, oggi invece svolge la professione di professore di scrittura creativa alla Leghigh University, in un intervista rilasciata al New York Times nel 2004 ha dichiarato: «Io conducevo gli interrogatori ad Abu Ghraib. Io ho torturato. Casi di waterboarding (annegamenti simulati) erano molto più frequenti rispetto a quanto si possa pensare, così come la privazione del sonno per periodi lunghi fino a una settimana. Ai detenuti che si rifiutavano di mangiare in alcune ore della giornata per osservare il Ramadan, effettuavamo la reidratazione rettale, ossia l’introduzione nel corpo per via anale di ciò che si erano rifiutati di mangiare«.7
Oltre a ciò che è stato dichiarato da Eric Fair è interessante conoscere il rapporto sulle torture e gli abusi commessi dai militari statunitensi nei confronti di prigionieri iracheni nel carcere di Abu Ghraib scritto dal generale Antonio Taguba il 3 marzo 2004, cioè prima che le prime foto venissero diffuse. Scrisse il generale Taguba: «Fra l’ottobre e il dicembre 2003 nella struttura di detenzione di Abu Ghraib furono inflitti a diversi detenuti numerosi abusi sadici, clamorosi e sfacciatamente criminali. Gli abusi sistematici e illegali sui detenuti sono stati perpetrati da diversi membri della forza di polizia militare (la 372/a Compagnia di Polizia Militari, 320/o Battaglione, 800/a Brigata). Diversi detenuti hanno descritto i seguenti abusi, che, date le circostanze, giudico credibili in base alla chiarezza delle affermazioni e le prove addotte a sostegno dai testimoni. Di seguito un elenco delle torture più frequenti perpetrate a uomini e donne iracheni:8
— sotto tortura, obbligare prigionieri maschi a stuprare altri prigionieri maschi;
— prigionieri maschi inginocchiati a terra e obbligati ad effettuare sesso orale ad altri detenuti;
— stupro delle detenute donne da parte dei militari statunitensi, con riprese fotografiche e video da parte degli altri militari che assistevano;
— prigionieri obbligati a stare in piedi su una cassetta, incappucciati con un sacchetto, con fili elettrici collegati a dita delle mani dei piedi e al pene, praticando la tortura dell’elettroshock;
— tiri al bersaglio con pistole calibro 9 mm;
— prigionieri incastrati tra tavole di legno con chiodi sporgenti sulle quale i militari statunitensi saltavano;
— sutura con ago e filo da parte di membri non sanitari della polizia militare di ferite appena provocate facendo urtare con violenza i detenuti contro le pareti delle celle;
— impiego di cani militari aizzandoli per fargli mordere i detenuti;
— prigionieri denudati e coperti di escrementi, obbligandoli anche a mangiarli;
— prigionieri sodomizzati con lampade chimiche o con manici di scopa;
— rottura di lampade chimiche, il cui contenuto fosforico veniva versato sui prigionieri;
— percosse con manici di scopa o con sedie;
— prigionieri nudi legati con una catena al collo, tirati ed obbligati a camminare a 4 zampe simulando un cane portato a passeggio e costretti ad abbaiare;
— getti d’acqua fredda su detenuti nudi;
— pugni, schiaffi, calci e sputi ai prigionieri legati e sdraiati a terra;
— pestoni con gli anfibi sui piedi nudi dei detenuti;
— uomini e donne denudati fotografati e filmati in pose forzate umilianti e sessualmente esplicite;
— obbligo per i detenuti maschi di indossare capi intimi femminili;
— obbligo per gruppi di detenuti maschi di masturbarsi mentre venivano ripresi con la telecamera;
— fotografie ricordo di soldati statunitensi accanto a detenuti uccisi dopo essere stati torturati:
Il rapporto tratta poi dei cosiddetti «detenuti fantasma», consegnati a varie strutture di detenzione amministrate dall’800/a Brigata di polizia militare da altre agenzie governative statunitensi, «senza documentarlo».8
Il seguente testo è la testimonianza fornita dal professor Ali Shalal, il quale è stato torturato nella prigione di Abu Ghraib. Ali Shalal è noto al mondo come «l’uomo incappucciato», è l’uomo che vedete nella foto in alto su questo articolo, mentre ha per l’appunto un cappuccio in testa e gli elettrodi collegati al corpo per torturarlo con l’elettroshock. Questa dichiarazione è stata presentata come prova nel procedimento iniziato a Kuala Lumpur contro il presidente statunitense George W. Bush, il primo ministro britannico Tony Blair e il primo ministro dell’Australia John Howard, alla Commissione per i Crimini di Guerra stabilita sotto la guida dell’ex primo ministro Tun Dr. Mahathir Mohamad.9 Purtroppo si tratta di un processo intrapreso esclusivamente in Malaysia e non di un processo internazionale. Quelli purtroppo, contro gli Stati Uniti non vengono effettuati. Ecco la testimonianza del professor Ali Shalal: «Io, Ali Shalal sono un cittadino iracheno ed oggi vivo ad Amman, in Giordania. Ero un insegnante di educazione islamica nella città di Al-Alamiya, in Iraq. Il 13 ottobre del 2003, mentre andavo a pregare nella moschea di Al-Amraya, le truppe americane mi arrestarono. Legarono le mie mani dietro la schiena e misero un sacco sulla mia testa. Mi portarono in una piccola prigione nel campo militare statunitense di Al-Amraya. Il comandante di questo campo militare, un certo capitano Philips, mi disse che egli aveva ricevuto un ordine dai suoi superiori di arrestarmi e che non conosceva le ragioni del mio arresto. Fui lasciato solo nella prigione. Dopo due giorni mi trasferirono nella prigione di Abu Ghraib. La prima cosa che fecero fu un esame fisico del mio corpo e abusarono di me. Insieme ad altri detenuti fui fatto sedere sul pavimento e trascinato nella stanza dell’interrogatorio. Questa cosiddetta stanza è di fatto un gabinetto (di circa 2 m x 2 m), fui sommerso di acqua e di rifiuti umani sino al livello delle mie caviglie. Mi fu chiesto di sedere nell’acqua putrida mentre l’americano che mi interrogava stava fuori dalla porta insieme al traduttore. Dopo l’interrogatorio, venni portato via dal gabinetto, e prima che il successivo detenuto fosse portato dentro di esso le guardie urinarono nell’acqua putrida davanti agli altri detenuti. La prima domanda che mi fecero fu: «sei sunnita o sciita?», io risposi che quella era la prima volta che mi era stata fatta a tale domanda in tutta la mia vita. Ero sorpreso da questa domanda dato che in Iraq non c’è una tale distinzione o differenza. L’interrogatore americano rispose che dovevo rispondere in modo diretto alle domande e non replicare al di fuori della domanda. Disse poi che in Iraq vi erano sunniti, sciiti e curdi. L’interrogatore indossava abiti civili e il traduttore, un afroamericano, indossava un uniforme dell’esercito americano. Quando risposi che sono un musulmano iracheno l’interrogatore rifiutò di accettare la mia risposta e mi accusò delle seguenti colpe: che ero antisionista e antisemita, che appoggiavo la resistenza, che istigavo la gente ad opporsi all’occupazione, che conoscevo il luogo dove si trovava Osama Bin Laden. L’interrogatore mi informò che essi sapevano che ero una persona importante nella comunità e che perciò potevo aiutarli. Chiese quindi la mia cooperazione. Quando mi rifiutai di collaborare, l’interrogatore mi chiese se consideravo l’esercito americano come «liberatore» o «occupante». Quando risposi che essi erano degli occupanti, perse la calma e mi minacciò. Disse che mi avrebbe mandato a Guantanamo dove persino gli animali sono incapaci di sopravvivere. Mi portarono in un’altra stanza e presero le mie impronte digitali, una foto del mio occhio ed un campione della mia saliva per l’analisi del DNA. Dopo questa procedura mi registrarono mettendomi una fascia attorno al polso con i seguenti dettagli: il mio nome, un numero, il mio status religioso. Dopo mi picchiarono ripetutamente e mi misero in un camion per trasferirmi in un’altra parte della prigione di Abu Ghraib. Questa parte della prigione era all’aperto e consisteva di cinque settori, circondati da mura e filo spinato. Ogni settore aveva cinque tende. Le condizioni di vita nel campo erano pessime. Ogni tenda conteneva 45 o 50 detenuti e non c’era lo spazio materiale neanche per muovere le gambe. Dovevamo aspettare per due o tre ore solo per andare al bagno. C’era pochissima acqua. Ci facevano anche stare in piedi per molte ore. A volte, come punizione non ci veniva fornito cibo. Quando veniva dato del cibo, la colazione era alle cinque del mattino, il pranzo alle otto del mattino e la cena all’una del pomeriggio. Durante il Ramadan ci portavano del cibo due volte al giorno, la prima a mezzanotte e la seconda volta durante le ore di astinenza in modo da farci rompere il dovere religioso. Se non mangiavamo in quell’orario, infrangendo quindi il Ramadan, ci legavano e ci introducevano il cibo nel corpo per via anale. Durante la mia prigionia nel campo, fui interrogato e torturato due volte. Durante questo periodo sentii dagli altri detenuti che erano stati torturati con bruciature di sigaretta, che gli erano stati iniettati degli allucinogeni e che gli erano stati inseriti nel retto vari tipi di strumenti, come bastoni di legno e tubi. Tornavano al campo sanguinando fortemente. Alcuni avevano le ossa rotte.
Dopo un mese dal mio arresto, venne chiamato il mio numero, mi misero un sacco sulla testa e le mie mani furono legate dietro la schiena. Anche le mie gambe vennero legate. Poi mi trasferirono in una cella. Qui mi denudarono strappandomi i vestiti. Poi sempre legato mi trascinarono su per una rampa di scale. Quando raggiunsi la cima delle scale mi legarono ad alcune sbarre di ferro. Poi gettarono contro di me dei secchi con escrementi umani ed urinarono sul mio corpo. Dopo mi puntarono una pistola alla testa e dissero che mi avrebbero ucciso lì. Un altro soldato usava un megafono per urlare insulti contro di me. Durante questo periodo potevo udire le grida di altri detenuti che venivano torturati. Ciò andò avanti sino al mattino successivo.
Al mattino un israeliano si mise di fronte a me, mi tolse il sacco dalla testa e mi disse in arabo che egli era un israeliano che aveva interrogato e torturato detenuti in Palestina. Mi disse che quando i detenuti non collaboravano venivano uccisi. Mi chiese ripetutamente i nomi dei combattenti della resistenza. Gli dissi che non conoscevo alcun combattente della resistenza ma egli non mi credette e continuò a colpirmi. Questo israeliano che vestiva abiti civili mi torturò inserendomi nel retto prima un bastone di legno seghettato e poi la canna di un fucile. Ero ferito all’interno e sanguinavo copiosamente. Durante questo periodo qualunque militare passava di fronte a me, mi colpiva. Non ricevetti cibo per 36 ore.
La mattina successiva l’interrogatore israeliano venne nella mia cella e mi legò alle sbarre. Per il dolore derivante dalle ferite che avevo riportato, persi conoscenza. Mi risvegliai solo quando l’israeliano gettò dell’acqua sulla mia faccia. Quando ripresi conoscenza egli iniziò a colpirmi di nuovo e mi chiese di dirgli i nomi dei combattenti della resistenza e quali attività avevo compiuto contro i soldati americani. Quando gli dissi che non conoscevo alcun combattente della resistenza mi prese a calci molte volte.
Fui tenuto nella cella senza vestiti per due settimane. Durante questo periodo una guardia americana dal nome di «Grainer» accompagnata da un ebreo marocchino chiamato Idel Palm (noto anche come Abu Hamid) veniva nella mia cella e mi chiedeva della ferita che avevo sulla mia mano prima che venissi arrestato. Gli dissi che avevo subito un’operazione. Allora con un coltello strappò dei pezzi di pelle dalla mia mano. Provavo un forte dolore e quando gli chiesi un analgesico salì sulle mie mani schiacciandole con gli anfibi e disse, ridendo, «questo è un analgesico americano».
Al quindicesimo giorno di detenzione mi venne data una coperta. Dal momento che non avevo vestiti feci un buco al centro della coperta sfregandola contro il muro e così fui in grado di coprire il mio corpo.
Un giorno un prigioniero venne verso la mia cella e mi disse che gli interrogatori volevano velocizzare la loro indagine e avrebbero usato dei più brutali metodi di tortura per ottenere le risposte che volevano dai prigionieri. Fui portato nella stanza degli interrogatori, mi fecero vedere i fili elettrici che erano attaccati ad una presa elettrica nel muro dopo che mi venne posta una sacca sulla mia testa. Era presente nella stanza l’ebreo marocchino, Idel Palm, l’interrogatore israeliano, due americani, uno noto come Davies e l’altro come Federick, e due altre persone. Vestivano tutti abiti civili tranne gli americani che vestivano uniformi dell’esercito. Idel Palm mi disse in arabo che se non collaboravo questa era la mia ultima possibilità di rimanere vivo. Gli dissi che non sapevo nulla della resistenza. Allora la sacca fu di nuovo posta sulla mia testa e venni lasciato da solo per un lungo periodo. Durante questo tempo udii diverse grida e urla dai detenuti che venivano torturati.
Gli interrogatori tornarono e mi misero a forza sopra una scatola di cartone che conteneva cibo in scatola. Poi collegarono i fili elettrici alle mie dita e mi ordinarono di allungare orizzontalmente le mie mani, allora collegarono l’elettricità. Mentre la corrente entrava in tutto il mio corpo, mi sentii come se gli occhi mi venissero strappati e volassero scintille. I miei denti sbattevano violentemente e anche le mie gambe venivano scosse altrettanto violentemente. Tutto il mio corpo veniva scosso. Mi vennero date scariche elettriche in tre sessioni separate, ogni volta per la durata di alcuni minuti. Dopo mi picchiarono prendendomi a calci mentre ero a terra dolorante e sanguinavo. Infine mi riportarono nella mia cella. Per tutto il tempo della mia tortura gli interrogatori facevano fotografie.
Fui poi lasciato solo nella mia cella per 49 giorni. Durante questo periodo di detenzione smisero di torturarmi. Alla fine del quarantanovesimo giorno fui trasferito di nuovo al campo nella tenda e rimasi lì per altri 45 giorni. Fui informato da un prigioniero che aveva sentito delle guardie dire che ero stato arrestato per sbaglio e mi avrebbero rilasciato.
Fui rilasciato all’inizio di marzo del 2004. Fui messo in un camion e portato su di un’autostrada e gettato fuori sull’asfalto. Una macchina che passava si fermò e mi soccorse, portandomi a casa.
Come risultato di questa esperienza, con l’aiuto di 12 altre vittime torturate, decisi di fondare un’associazione per assistere tutte le vittime della tortura.«9
Il Washington Post ha anche pubblicato ampi stralci di un rapporto redatto dalle autorità militari che hanno indagato sulle torture commesse nella prigione di Abu Ghraib, dove in 65 pagine sono raccolte le dichiarazioni, rese sotto giuramento, da 13 ex detenuti.
Kasim Mehaddi Hilas, prigioniero numero 151108, ha raccontato: «Appena sono arrivato in carcere mi hanno denudato, mi hanno messo un cappuccio in testa e un paio di mutande rosa a fiorellini da donna. Non ho avuto altro indosso per tutti i giorni che ho passato là dentro. Ho visto con i miei occhi un traduttore dell’esercito americano violentare un detenuto minorenne, un ragazzino iracheno di circa 15 anni, che piangeva disperato, mentre una guardia scattava fotografie. Quelle fotografie sono la prova di ciò che vi sto raccontando«.10
Prima di concludere l’articolo, vale anche la pena di ricordare che colui che in seguito divenne noto come il il Califfo, «al Baghdadi», il capo dell’ISIS, fu detenuto ad Abu Ghraib, da febbraio a dicembre del 2004. All’epoca logicamente non era un terrorista. Quando fu arrestato a Falluja il 2 febbraio 2044, era un imam. Fu rilasciato dopo dieci mesi perché ritenuto un prigioniero di basso livello.11 Quando venne rinchiuso, ad al Baghdadi, il cui vero nome è Ibrahim Awad Ibrahim al-Badry, fu assegnato il numero US9IZ-157911CI.12
Gli occidentali, prima di perorare ed esaltare una guerra per esportare la loro «democrazia», ogni volta accusando chi non si allinea a loro di essere un dittatore, farebbero bene a ricordare le loro colpe, quelle di un Occidente che afferma di essere sempre in prima fila quando si tratta di rappresentare i valori dei diritti umani nel mondo ma che sempre nei fatti non li rispetta per niente.
Luca D’Agostini
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Fonti
(1) Chain of Command
(2) Taguba
(5) Veto di Obama
(6) Anche i bambini ad Abu Ghraib
(8) Iraq
(9) Testimonianza di una vittima
(10) Nuovi orrori
(11) Obama
(12) Califfo
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