Non è stato Saddam Hussein l’unico sconfitto della guerra in Iraq. Un’altra vittima illustre è stata la stampa statunitense, quella stampa che a torto viene indicata libera ed indipendente. Durante la guerra in Iraq infatti, la stampa statunitense ha fornito il peggio di sé, non narrando la verità, ma raccontando alla sua opinione pubblica ciò che più faceva comodo alla Casa Bianca.
Uno scrittore statunitense che apprezzo molto, Stan Goff, il quale ha avuto un passato di vari anni di servizio nei reparti speciali dell’esercito degli Stati Uniti, in un suo bellissimo libro dal titolo «Full Spectrum Disorder: the military in the new american century», pone l’attenzione sul fatto di come dopo la guerra del Vietnam, si applicò una nuova strategia discorsiva, al fine di evitare le critiche rivolte agli uomini potenti che prendevano le decisioni a Washington ed evitare di chiamare ogni volta in causa il sistema imperiale statunitense. L’essenza di questa strategia discorsiva consiste nello spostare l’attenzione del pubblico dal sistema verso gli individui. La concentrazione delle critiche nei confronti dirigenti politici, conduce infatti troppo vicini al sistema; perciò, dopo il Vietnam, la storia è diventata quella del singolo soldato.1
Afferma Stan Goff, «abbiamo sentito parlare sempre meno del generale Westmoreland o dei presidenti Johnson o Nixon. Le storie sono diventate quelle dei singoli soldati, delle loro angosce e sofferenze. I veterani stessi del Vietnam — molti dei quali non avevano mai partecipato a un combattimento nel Vietnam — hanno finito per accettare questa maniera di ritrarre se stessi come le vittime primarie di una guerra di occupazione in cui erano loro stessi gli occupanti«.1
La professoressa Susan Jeffords dell’Università di Washington Bothell, nel suo saggio dal titolo «Telling the War Story», scrive: «Questa tendenza a distaccarsi dalla guerra stessa per avvicinarsi a chi l’aveva combattuta trasforma la guerra da esperienza nazionale in esperienza personale; così tutti gli spettatori possono dimenticare le forze storiche e politiche specifiche che hanno causato la guerra. Tale trasformazione si sposa molto bene con gli appelli a «sostenere le nostre truppe» che obbligano il pubblico a cessare ogni critica nei confronti dei dirigenti e ogni tentativo di mettere in discussione i motivi geopolitici, per non indebolire i nostri cari ragazzi in divisa e non incoraggiare chi li attacca. Ci permettono di avere opinioni divergenti prima della guerra, a patto che siano abbastanza superficiali, ma si aspetta che facciamo quadrato attorno alla nostra squadra una volta iniziata la guerra«.2
Nel caso che affronteremo in questo articolo, vediamo un tipico esempio di questa nuova strategia discorsiva. Nel caso di Jessica Lynch, con la complicità della stampa mercificata degli Stati Uniti, il pubblico statunitense è stato rifornito di una serie irresistibile di racconti sensazionali ed emozionanti, tipici della struttura interna della mitologia nazionale a stelle e strisce, ma con il chiaro intento di deviare verso un sistema di consenso, le coscienze dell’opinione pubblica.
Addentriamoci in questo caso, partendo dal conoscere «chi è» Jessica Lynch. Stiamo parlando di una ragazza statunitense, nata nella West Virginia nel 1983. In questa parte di territorio degli Stati Uniti, le industrie estrattive, in particolare il carbone e il legname, sono diventate sempre più meccanizzate e gli insediamenti urbani circostanti soffrono di alti tassi di disoccupazione. Il metodo di estrazione basato sul taglio delle cime delle montagne ha ridotto l’attuale forza lavoro impiegato nelle miniere al 10% dei suoi livelli precedenti, mentre ha riempito il terreno di scorie tossiche.1
Molti che prima faticavano nelle miniere, scacciati dalla terra che lavoravano come agricoltori autosufficienti e mandati nei pozzi come proletari sotterranei, vengono oggi espulsi dall’economia grazie a una tecnologia più «efficiente». I giovani osservano la propria situazione e si accorgono di avere poche opzioni disponibili. Alcuni trafficano in sostanze stupefacenti e finiscono per diventare tossicodipendenti. Alcuni gareggiano per la manciata di posti pubblici ancora disponibili in un’economia che si restringe. Altri si arruolano nell’esercito per ottenere un’istruzione e una paga regolare.1
Ecco quindi che questa che state per leggere, è la vera storia di Jessica Lynch, una giovane donna che la nuova strategia discorsiva ha tentato di ridurre ad un insieme di simboli. Lei voleva diventare insegnante. Voleva avere i soldi che le servivano per studiare. Ha firmato ed è entrata in quel mondo contraddittorio che è l’esercito degli Stati Uniti.1
Era stata assegnata inizialmente alla 507° Compagnia di Manutenzione a Fort Bliss, nel Texas, come addetta ai rifornimenti. Jessica Lynch aveva 19 anni quando fu mandata nel Kuwait per sostenere la prossima invasione dell’Iraq.1
Il 21 marzo 2003, una gigantesca massa di veicoli militari appartenenti alla 507° Compagnia di Manutenzione, avanzava lentamente dal Kuwait dirigendosi verso nord in Iraq. Jessica Lynch guidava un camion da cinque tonnellate con attaccato un rimorchio pieno di attrezzature. Le tempeste di sabbia che avevano colpito la forza d’invasione statunitense ostacolavano la frenetica tabella di marcia ed indebolivano il morale delle truppe e il loro grado di attenzione.1
L’unità della Lynch agiva a sostegno della 3° Divisione di Fanteria Meccanizzata, la principale forza di combattimento che aveva come obiettivo ultimo Baghdad, la capitale dell’Iraq. Il convoglio proseguì senza sosta per quarantotto massacranti ore, adoperando i fari agli infrarossi e gli occhiali con i visori notturni quando faceva buio. Avevano gli occhi pieni di polvere, le teste ciondolavano per il sonno ed erano stanchi morti. Il camion della Lynch, vittima delle tempeste di sabbia andò in avaria e fu rimorchiato da un gigantesco veicolo di recupero. La Lynch fu ospitata su un fuoristrada militare «Humvee» sul quale viaggiava anche il primo sergente della sua compagnia. Qui Jessica Lynch poté sonnecchiare mentre un’altra giovane donna, di nome Lori Pietsewa, lottava contro il sonno mentre era al volante.1
Il 23 marzo 2003, il convoglio militare statunitense giunse a Nāṣiriya. Le unità venivano incanalate su strade più strette e i convogli cominciavano a separarsi. Un gruppo di 16 veicoli con 33 soldati assonnati tra i quali Jessica Lynch, attraversò il fiume Eufrate. Poco dopo si accorsero di essersi imbattuti in una zona sotto controllo delle forze militari irachene. L’ufficiale più alto in grado di questo convoglio, ordinò immediatamente di tornare indietro. Si era accorto che si trovavano decisamente nel posto sbagliato, soprattutto perchè non erano un’unità da combattimento.1
Dopo difficoltose manovre per allontanarsi dal luogo in cui si trovavano, il convoglio statunitense in preda al panico sbagliò la strada per la fuga varie volte. Venne così raggiunto da alcuni pick-up iracheni armati di mitragliatrice i quali poco dopo cominciarono a sparare una tempesta di colpi sul convoglio statunitense. Poco dopo, uno ad uno i militari statunitensi del convoglio morirono sotto i colpi delle mitragliatrici irachene. Si salvarono solo Lori Pietsewa e Jessica Lynch, la quale non aveva sparato neanche un colpo. La Lynch uscì dal fuoristrada «Humvee», si mise in ginocchio ed iniziò a pregare. Poco dopo, la contusione provocata da una ferita aperta sulla testa, dovuta agli eventi frenetici relativi al tentativo di mettersi in salvo all’interno del mezzo sul quale viaggiava, le fece perdere coscienza. In più Jessica Lynch aveva anche una caviglia slogata, un braccio rotto ed una frattura al femore.1
Una volta terminato l’assalto, le truppe irachene portarono la Lynch e la Pietsewa all’ospedale militare di Nāṣiriya. Se non lo avessero fatto, sarebbe morta dissanguata. La Pietsewa morì a causa delle sue ferite.2
I dottori Jamal Kadhim Shwail e Harith al-Houssona la esaminarono. Era in uno stato di choc, con la pressione del sangue pericolosamente bassa. Le fecero un’infusione endovenosa, comprese tre unità di sangue — due donate sul momento dal personale iracheno dell’ospedale — la cateterizzarono, , le misero una stecca, le suturarono la testa e la portarono all’ospedale Saddam, anch’esso a Nāṣiriya, per operare la pericolosa frattura al femore. Fu il dottor Mahdi Khafazi a eseguire l’intervento.1
Durante la convalescenza della Lynch, il dottor Harith Houssona, un medico appena ventiquattrenne, e diverse infermiere fecero amicizia con la Lynch. I comandanti militari iracheni la ritenevano una prigioniera di guerra, ma vista la gravità delle ferite, concessero molta libertà e poca sorveglianza al personale dell’ospedale. Sette giorni dopo, la maggior parte dei militari iracheni se ne andò e Houssouna ordinò di riportare Jessica Lynch all’esercito statunitense. Un ufficiale iracheno e un guidatore di ambulanze di nome Sabah Khazaal cercarono di portare Lynch agli statunitensi.
Sapevano che le ambulanze erano protette dalla convenzione di Ginevra e quindi pensavano che non li avrebbero colpiti. La cosa non funzionò. Quando l’ambulanza si trovava a circa 300 metri dal posto di blocco dell’esercito degli Stati Uniti, cominciarono a sparare, quasi uccidendo la Lynch.
Poco tempo dopo, gli Stati Uniti organizzarono una patetica «missione speciale» con tanto di coinvolgimento dei SEALS e dei Rangers e cameraman civile al seguito. Non vi sono stati altri episodi di coinvolgimento di squadre speciali e cameraman civile contemporaneamente. Infatti, viste le tattiche e le tecniche segrete che i reparti speciali adoperano, non portano mai con sé un cameraman civile che registrerebbe tecniche segrete e sarebbe di impedimento all’operazione.1
La realtà e che l’intelligence militare statunitense sapeva perfettamente, mentre veniva pianificato il cosiddetto salvataggio di Jessica Lynch, che l’esercito iracheno stava abbandonando Nāṣiriya, ritenuta ormai tatticamente indifendibile. Il motivo della patetica sceneggiata di cui parleremo, è da riscontrare nell’esito della guerra in quel determinato momento. La guerra stava andando molto male per in quel momento per le forze statunitensi. Nella coscienza anestetizzata dell’opinione pubblica statunitense, iniziavano a sorgere dubbi e per mantenere addormentato il paziente, il Dipartimento di Difesa aveva necessità di un colpo pubblicitario.
Dall’intelligence degli Stati Uniti fu così contattato un avvocato opportunista iracheno, Mohammed al-Rehaief, il quale aveva la moglie che lavorava all’interno dell’ospedale presso il quale era ricoverata Jessica Lynch. Ad al-Rehaief ed alla sua famiglia, fu offerto un viaggio gratis negli Stati Uniti, unitamente alla prospettiva di un alto tenore di vita, fama e adulazione, tutto in cambio di un minimo di collaborazione.
I servizi di intelligence statunitensi iniziarono ad interrogarlo. Fu rimandato in Iraq per recarsi all’ospedale al fine di raccogliere informazioni specifiche sulla dislocazione dei piani e delle porte. Al suo ritorno, al-Rehaief e la sua famiglia ottennero l’asilo politico e dopo due settimane l’avvocato iracheno firmò un contratto da 500.000 dollari per la pubblicazione di un libro di memorie sulle vicende del salvataggio di Jessica Lynch. Nel frattempo la società Rendon Group fu allertata.
La Rendon Group è una delle società del mondo mediatico presente negli Stati Uniti, operante in stretta collaborazione con il governo. I suoi servizi di intrattenimento pubblico, consistono nello scopo infondere un po’ di ottimismo nella coscienza di massa degli statunitensi. La Rendon Group riprese il lavoro nel punto in cui la Hill & Knowlton, che gestì la percezione della prima guerra del Golfo, lo aveva lasciato. Qualcuno dei lettori, ricorderà quanto ho scritto nell’articolo dal titolo «La buffonata dell’infermiera kuwaitiana». Quindi, ricorderà come la Hill & Knowlton, su contratto con il governo degli Stati Uniti, abbia partorito la storia dei «bambini kuwaitiani buttati fuori dalle incubatrici dai soldati iracheni«, una storia che mobilitò un massiccio sostegno della stampa e del pubblico all’invasione di Bush. La storia era ovviamente una totale menzogna e fabbricazione mediatica a tavolino.
Ora prendiamo in esame la farsa e quindi il ridicolo copione che la Rendon Group redasse in funzione della liberazione di Jessica Lynch. La bella, coraggiosa soldatessa degli Stati Uniti, aveva respinto gli assalti dei degenerati iracheni, assetati di sangue e subumani, svuotando il suo caricatore nei corpi di diversi assalitori, finché, colpita più volte con proiettili e poi con un coltello, veniva sopraffatta e presa prigioniera. I malvagi iracheni l’avevano poi condotta in ospedale dove continuavano a picchiarla. Ci si chiedeva se potesse anche essere stata violentata, ma la domanda fui lasciata aperta, in modo tale che l’immaginazione pubblica potesse fantasticare liberamente.1
Questa patetica sceneggiatura, totalmente inventata e non corrispondente alla realtà dei fatti, rendeva d’obbligo l’organizzazione di una squadra speciale che doveva entrare in scena per salvare colei la quale veniva dipinta come l’eroina statunitense.1
In realtà, l’incursione degli uomini dei corpi speciali statunitensi si scontrò con una resistenza pari a zero; infatti, erano perfettamente al corrente del fatto che i combattenti iracheni si erano già ritirati. Ma per dare un tocco di autenticità, tagliarono la corrente all’ospedale, mettendo in pericolo tutti i pazienti, usarono esplosivi per far saltare porte che il personale dell’ospedale avrebbe aperto loro volentieri e addirittura ammanettarono due impiegati dell’ospedale, portandone via uno come prigioniero per alcuni giorni, e due pazienti, uno dei quali con un’infusione endovenosa attaccata al braccio.1
Riassumiamo il tutto: : anzitutto Jessica Lynch non fu ferita in combattimento, ma in un incidente d’auto e non sparò neanche un colpo, come da lei stessa confermato il 24 aprile 2007 in un’audizione di fronte al Congresso degli Stati Uniti.3 Non fu violentata ne tanto meno picchiata dai soldati iracheni i quali anzi la affidarono alle cure del personale medico di un ospedale. Seppure considerata prigioniera di guerra, l’ospedale dove era ricoverata era presidiato da pochi poliziotti, i quali, quando il blitz statunitense era scattato, se n’erano già andati da un pezzo. L’ospedale era quindi sguarnito. Nonostante questa circostanza fosse a conoscenza dell’intelligence statunitense, fu organizzato blitz notturno dei corpi speciali statunitensi per liberarla nell’ospedale con tanto di riprese di immagini spettacolari da parte di un cameraman civile portato al seguito.
Il blitz serviva solo a fini scenografici per dimostrare all’opinione pubblica statunitense la bravura e il coraggio dei soldati degli Stati Uniti, indomiti nel rischiare la vita per salvare Jessica. Nel filmato si sentivano spari, esplosioni, e i soldati statunitensi gridare: «Go! Go!«. In pochissime ore il filmato girato da un operatore civile aveva subìto l’editing e fu diffuso ai network di tutto il mondo. Quando fu mostrato, il portavoce militare statunitense a Doha, il generale Vincent Brooks, dichiarò: «Alcune anime eroiche hanno rischiato la vita perché questo avvenisse, leali al comandamento di non lasciare mai indietro un commilitone caduto». Che pagliacciata!
Dal canto suo, Jessica Lynch, davanti al Congresso degli Stati Uniti, dichiarò: «Non sono un’eroina. Non ho mai sparato. Sono scesa gravemente ferita dall’autoveicolo nel quale mi trovavo e mi sono messa a pregare in ginocchio di risparmiarmi la vita. Non posso prendermi il merito di qualcosa che non ho fatto. Io sono solo una sopravvissuta».4
Una bugia di guerra con effetti hollywoodiani. In pratica, non c’è mai stato alcun salvataggio. Si è trattato semplicemente di un telefilm.
Luca D’Agostini
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Fonti
(1) Stan Goff, Full Spectrum Disorder: the military in the new american century, CreateSpace Independent Publishing Platform, 2004.
(2) Stan Goff
(3) Jessica Lynch
(4) Film
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