Quando pensai a come chiamare questo blog e questa associazione, non ebbi alcun dubbio! Decisi che il nome sarebbe stato: Madre Russia. Il motivo di questa scelta è dovuto al fatto che fondamentalmente «Madre Russia» rappresenta l’enorme amore che i russi nutrono per la loro terra.
Perchè questo breve inciso? Perchè ora affronteremo gli eventi più salienti che costituirono la battaglia di Stalingrado, la quale rappresenta senza ombra di dubbio un tipico esempio di questo sentimento di amore. Sono fermamente convinto che leggendo attentamente tutto l’articolo, vi emozionerete. Quando vorrete spiegare a qualcuno il sentimento di amore del popolo russo, fategli leggere questo articolo e guardate attentamente il suo volto mentre lo sta leggendo. Anche la persona più insensibile non può non far trasparire un’emozione, non può non comprendere un sentimento che finora gli è stato incomprensibile. Lo so, questo articolo è molto lungo e la sua lettura occuperà alcuni dei vostri preziosi minuti. Ma rifletteteci: state sacrificando alcuni dei vostri minuti per scoprire un sacrificio molto più grande. Ve ne renderete conto alla fine della vostra lettura!
Facciamo quindi un salto indietro in quei terribili giorni. Nell’autunno del 1942, uno degli obiettivi principali di Hitler era la conquista di Stalingrado, ma la tenace resistenza dell’Armata Rossa rovinò i suoi piani. Gli eventi di Stalingrado furono determinanti per le sorti della Seconda Guerra Mondiale e la battaglia di Stalingrado rappresenta una delle battaglie più violente e sanguinose della storia, protraendosi per lunghi mesi e causando numerose perdite su entrambe i fronti.
La battaglia di Stalingrado fu la prima sconfitta per la Germania durante la Seconda Guerra Mondiale. A Stalingrado un intero contingente tedesco venne annientato provocando la morte di più di 200.000 soldati tedeschi. Tutti gli storici, di qualsiasi nazionalità, concordano nell’affermare che i tedeschi erano sicuri di vincere facendo affidamento sulla superiorità qualitativa dei loro armamenti, sul loro addestramento e sulle strategie dei loro generali. Gli stessi storici, concordano nell’affermare che le vittorie dei russi sui tedeschi furono dovute quasi esclusivamente all’amore che i russi avevano ed hanno per la loro patria, la Grande Madre Russia.
Hitler diede il via all’invasione della Russia, il 22 giugno 1941 con l’Operazione Barbarossa. Nei piani di Hitler, alla conquista territoriale doveva seguire uno spietato programma di «germanizzazione» in cui le popolazioni russe sarebbero state ridotte in schiavitù o sterminate. Nei primi mesi di invasione dell’Unione Sovietica, le truppe tedesche giunsero alle porte delle due più importanti città russe: Mosca e Leningrado. Poi avevano occupato l’Ucraina che per le sue enormi distese di grano era considerato il granaio del Terzo Reich e le miniere del Donbass per sfruttarne le risorse. All’inizio del 1942 Stalin si aspettava che Hitler impegnasse tutte le sue forze per conquistare Mosca, oppure che tentasse di portare a termine il lungo assedio di Leningrado. Invece Hitler escogitò una mossa a sorpresa. Decise di far convergere le truppe impegnate nella Campagna di Russia verso sud, a Stalingrado, in quello che venne chiamato in codice «Piano Blu».
Stalingrado, corrispondente all’odierna Volgograd (così venne chiamata dopo la morte di Stalin) era una grande città industriale di 450.000 abitanti, situata nel sud della Russia, nella regione del Caucaso. La città si stendeva per 30 km lungo una sola riva del fiume Volga, il fiume più lungo d’Europa con i suoi 3.700 Km e ciò impediva che la città potesse essere accerchiata. La leggenda vuole che le sue acque siano lo specchio dell’anima russa.
Il motivo della decisione di Hitler era rappresentato dal fatto che i tedeschi erano interessati al Caucaso perchè era un’area prospera, ricca di giacimenti petroliferi e con una fiorente produzione agricola. La Germania non disponeva delle riserve di petrolio necessarie per sostenere lo sforzo bellico. Impadronendosi dei giacimenti petroliferi del Caucaso avrebbe risolto il problema dei rifornimenti di carburante ed avrebbe indebolito il nemico. Per raggiungere tale scopo la Germania rafforzò il contingente del Gruppo di Armate Sud, comandato dal generale Felmaresciallo Von Bock, impiegando un numero di truppe enormi, pari a 54 divisioni dell’esercito e dell’aeronautica, più le divisioni dell’esercito rumeno, ungherese, slovacco, italiano (l’8° Armata, nota anche come l’ARMIR) e persino volontari dalla Spagna, per totale quindi di 74 divisioni. Lo schieramento militare era così imponente che fu necessario dividere l’esercito tedesco presente nel Caucaso in due sottogruppi, il Gruppo di Armate «A» comandato dal generale Felmaresciallo Von List ed il Gruppo di Armate «B» comandato dal generale Felmaresciallo Von Weichs.
Il Gruppo di Armate «A», il più numeroso, avrebbe dovuto sferrare l’attacco attraverso le montagne del Caucaso, puntando direttamente ai giacimenti petroliferi di Baku, ma non vi riuscì, perchè quando arrivarono sul luogo scoprirono che i russi avevano dato fuoco ai giacimenti petroliferi per impedire che cadessero nelle mani nemiche. Anzi, il Gruppo di Armate «A» rimase inutilmente bloccato nei pressi di Baku (la capitale dell’odierno Azerbaijan), un luogo molto decentrato rispetto allo svolgersi della guerra in Russia, senza avere più carburante necessario per alimentare i propri carri armati. Un intero gruppo di armate era stato reso innocuo ed inoffensivo solo perchè rimasto bloccato in una vastissima area deserta e circondato dalle montagne del Caucaso. Questa vicenda susciterà enorme irritazione in Hitler.
Il Gruppo di Armate «B» invece doveva muoversi da Charkov alla volta di Stalingrado. Hitler era ossessionato dall’idea di voler cancellare dalle cartine geografiche la città che conteneva il nome di «Stalin». La 4° Armata Corazzata e la 6° Armata tedesca ricevettero l’ordine di conquistare la città. Ad aiutare l’esercito tedesco nella conquista di Stalingrado giunsero truppe dall’Italia, dall’Ungheria e dalla Romania. Gli alleati dei tedeschi subirono inizialmente una serie di perdite ancora prima di essere impiegate in combattimento a causa del loro scarso equipaggiamento necessario per affrontare l’inverno russo.
Domenica 23 agosto 1942 la 6° Armata tedesca, composta da 300.000 uomini, iniziò la conquista della città di Stalingrado. Questa armata corazzata era un corpo d’élite dell’esercito tedesco ma passò alla storia per gli errori e l’inesperienza del suo comandante, il generale Friedrich Paulus.

Generale Friedrich Paulus
Il generale Friedrich Paulus, nel 1942 aveva cinquanta anni. Era un insegnante all’accademia di guerra della Germania, era un uomo che fumava moltissime sigarette al giorno ed aveva una fissazione maniacale per la perfezione della propria divisa. Era un generale molto meticoloso e preciso, che non azzardava alcuna scelta se prima non avesse operato una opportuna pianificazione. In un taccuino di appunti aveva scritto la sua frase preferita: «Anche quando ti sembra che tutto sia chiaro, mettilo in dubbio e non darti pace!» Ma Paulus peccava di inesperienza. La sua carriera militare l’aveva trascorsa dietro una scrivania ad insegnare tattiche e strategie nell’accademia militare, ma non aveva mai comandato neanche un reggimento.
Inizialmente le truppe tedesche riuscirono a conquistare quasi tutta la città senza combattere per le strade, ma il generale Paulus nell’intento di riorganizzare le sue truppe prima di sferrare l’attacco finale alla città, esitò per due giorni a ricongiungersi alla 4° Armata Corazzata tedesca consentendo così alla 62° ed alla 64° Armata Rossa di giungere a difesa della città di Stalingrado.
Entrò così in azione la Luftwaffe, l’aeronautica militare tedesca, ma il suo intervento si rivelò un totale disastro. Oltre 600 aerei dell’aviazione tedesca effettuarono bombardamenti devastanti sulla città, utilizzando bombe da mille chili e seguendo l’ordine del proprio comandante che aveva ordinato di ridurre in macerie Stalingrado. Solo la prima settimana di bombardamenti provocò la morte di 40.000 civili, uomini, donne e bambini, abitanti di Stalingrado.
Ma le bombe non servirono a nulla contro l’orgoglio e lo spirito di sacrificio dei russi che la difendevano. Si cantava un inno che dice:»Sorgi grande Paese! Levati per la battaglia contro la mortale forza fascista, contro l’orda maledetta! Che scoppi la nobile ira. Come un onda va, la guerra popolare, la guerra sacra! Respingiamo i distruttori delle idee ardenti, gli aggressori, i predatori, i tormentatori delle genti.» Questo inno, dal titolo «La Grande Guerra Patriottica» viene ancora oggi molto spesso cantato in diverse celebrazioni in Russia e se vi capitasse di ascoltarlo dal vivo, vi emozionereste ed in parte riuscireste a comprendere cosa sia il senso di partecipazione ed appartenenza ad un grande popolo, il popolo russo. In attesa che possiate assistervi dal vivo in Russia, vi propongo questo video. Tutti in piedi: stiamo per ascoltare «La Grande Guerra Patriottica».
In passato, in altre nazioni, i raid aerei dell’aviazione tedesca avevano portato notevoli risultati perché le città bombardate, esauste e martoriate, finivano per arrendersi. In questo caso invece, i russi utilizzarono i resti e le macerie della città per nascondersi ed effettuare i loro attacchi. Ciò costrinse i soldati tedeschi a dover combattere una guerriglia urbana, strada per strada fra le macerie e persino nelle fogne della città. La battaglia, inaspettatamente per i tedeschi, si trasformò in continui e quotidiani combattimenti corpo a corpo. I russi sorpresero i tedeschi, perché pur feriti ed esausti erano disposti a rischiare di morire combattendo anche a mani nude e senza armi pur di non arrendersi.
A cambiare le sorti della battaglia fu il coraggio e l’abilità del comandante della 62° Armata Rossa, il quarantaduenne generale Vasilij Ivanovič Čujkov.

Generale Vasilij Ivanovič Čujkov
Il generale Čujkov era figlio di contadini, aveva combattuto nella guerra civile russa e si era distinto per il talento nell’uso delle armi e per la sua spiccata personalità. Il generale Čujkov era un amante degli scacchi, della letteratura e della buona tavola. Aveva come consigliere politico un uomo che in seguito diventò leader dell’Unione Sovietica: Nikita Sergeevič Chruščëv. Čujkov era un uomo molto intelligente, deciso, con un carattere molto aggressivo ed a Stalingrado combatté personalmente ogni giorno, strada per strada a fianco dei suoi soldati, dando così loro l’esempio. Chiedeva a se stesso ed ai suoi uomini di superare continuamente i propri limiti. Era disposto in prima persona a rischiare la vita per un combattimento, sia in un combattimento corpo a corpo che in attacchi che apparentemente sembravano destinati a fallire. Il generale Čujkov era l’incarnazione del carattere dell’Armata Rossa. Aveva un coraggio senza paragoni. Per questo motivo i suoi soldati lo amavano, lo stimavano e lo ammiravano, in quanto appunto combatteva per le strade insieme a loro, rischiava di morire ogni giorno, si lanciava da solo in combattimenti corpo a corpo con i soldati tedeschi, non fuggiva sotto i continui bombardamenti che colpivano la città, mangiava insieme ai suoi soldati e riposava lo stesso numero di ore in cui riposava uno di loro. Nessun generale sarebbe stato disposto a combattere e rischiare di morire come un normale soldato.

Generale Vasilij Ivanovič Čujkov con alcuni suoi soldati.
Infatti per esempio il generale tedesco Paulus aveva stabilito il suo quartier generale nelle retrovie, a 20 km dalla linea del fronte. I generali non si comportavano in questo modo per vigliaccheria ma per meglio controllare le fasi dei combattimenti e decidere le strategia da adottare. Ma il generale Čujkov capì che in quella circostanza era fondamentale combattere sul terreno a fianco dei suoi uomini che ogni giorno si distinguevano per gesta eroiche. Il suo comportamento così aumentava il morale dei soldati russi.
All’inizio dell’offensiva tedesca verso Stalingrado, il generale Čujkov aveva due possibilità: affrontare le armate tedesche nel campo di battaglia cercando di proteggere la città, oppure ripiegare nel centro abitato. Čujkov comprese che se avesse attirato la 6° Armata tedesca all’interno della città di Stalingrado avrebbe avuto la possibilità di sconfiggerla. Non permise che la battaglia di Stalingrado si svolgesse come un duello tra generali gentiluomini in aperta campagna. La trasformò in una sporca rissa da strada. Il tipo di combattimento che amava personalmente praticare e che sapeva come vincere. Čujkov scrisse per le forze speciali dell’Armata Rossa il «Manuale d’Assalto agli Edifici» che è il testo sul quale si basano ancora oggi le tecniche di assalto delle attuale forze speciali in tutto il mondo.
La popolazione di Stalingrado accolse festosamente l’ingresso dell’Armata Rossa all’interno della città ed iniziò ad aiutarla e combattere al suo fianco. Gli abitanti di Stalingrado collaborano fianco a fianco con i soldati dell’Armata Rossa come se fossero un unico corpo militare, con uno spirito di appartenenza allo stesso popolo russo ed un amore infinito per la propria terra, la Russia, che era praticamente incomprensibile ai soldati tedeschi ed ancora oggi è incomprensibile per la società occidentale.

Vasilij Grigor’evič Zajcev
Il 25 novembre 1942 le truppe tedesche avevano ormai conquistato il 90% di Stalingrado e la vittoria sembrava vicina. La situazione era drammatica, la città era ridotta ad un cumulo di macerie. Ma queste macerie divennero l’incubo dei soldati tedeschi. Pressoché ovunque, sotto ogni cumulo di maceria erano presenti cecchini russi i quali ebbero un ruolo molto importante nella battaglia di Stalingrado. Tra questi cecchini erano presenti, moltissime donne abitanti di Stalingrado, le quali sopravvissute ai bombardamenti, si dotarono di un fucile e munizioni e spararono con enorme precisione ad ogni soldato tedesco che avvistavano per i resti della città. Molti di questi cecchini ottennero il titolo di «Eroe dell’Unione Sovietica» ed entrarono nella leggenda. Ancora oggi ogni russo conosce i loro nomi e rende onore alla loro memoria. I cecchini russi uccisero a Stalingrado più di mille soldati tedeschi. Il più famoso cecchino era Vasilij Grigor’evič Zajcev, un pastore dei monti Urali, il quale si trasformò da cacciatore di cervi vicino casa sua a cacciatore di tedeschi a Stalingrado. I tedeschi che apparivano davanti i suoi occhi erano destinati a morire. Zajcev da solo riuscì ad uccidere 224 soldati tedeschi rimanendo sempre nascosto tra le macerie. I soldati tedeschi erano terrorizzati dai cecchini russi ed il loro morale crollò rapidamente poiché vedevano morire sotto i propri occhi i loro compagni senza capire da dove provenivano gli spari e combattendo con un nemico invisibile.
Nel tentativo di risollevare il morale delle proprie truppe, il Comando tedesco decise di inviare a Stalingrado il miglior tiratore scelto del proprio esercito, il colonnello delle «SS» Heinz Thorwald. Ma questa iniziativa peggiorò ancor di più la situazione, poiché un gruppo di cecchini russi, avendo saputo la notizia dell’arrivo di Thorwald, gli diede la caccia e fu proprio Vasilij Zajcev ad ucciderlo.

Vasilij Grigor’evič Zajcev (primo a sinistra)
Anche la stagione invernale fu un elemento importante nella battaglia di Stalingrado. D’inverno la temperatura era di 35° sotto zero. I tedeschi patirono molto il rigido inverno mentre i russi sapevano come affrontarlo. I soldati dell’Armata Rossa infatti erano equipaggiati con pesantissimi cappotti di lana, colbacchi di pelle con i paraorecchi, ed alti stivali di pelle con la suola di gomma in grado di affondare nella neve rimanendo ermetici e caldi. I soldati tedeschi non avevano nulla di tutto questo, erano equipaggiati con le divise estive ed i loro stivali avevano la suola di cuoio che non proteggeva dal freddo e dalla neve. I tedeschi infatti avevano iniziato la battaglia per la conquista di Stalingrado in estate ed erano arrogantemente convinti che sarebbero state sufficienti poche settimane per la conquista della città e che nell’autunno sarebbero tornati a casa in licenza premio. Poveri illusi!
Intanto a nord di Stalingrado il fiume Don era controllato dalle truppe ungheresi e rumene. Gli ungheresi ed i rumeni però non andavano d’accordo tra loro e schierarli insieme non fu un abile mossa del Comando tedesco. Per correre ai ripari i tedeschi decisero di dividerli di qualche chilometro, schierando al centro l’8° Armata italiana (ARMIR). L’8° Armata italiana disponeva però di scarse quantità di mezzi corazzati e motorizzati. I generali dell’Armata Rossa erano convinti che le truppe italiane, ungheresi e rumene schierate sul Don costituissero l’anello debole dello schieramento tedesco. Decisero così di dare il via alla controffensiva partendo dall’attacco di queste truppe posizionate sul Don. Molti generali tedeschi capirono subito il pericolo e chiesero ad Hitler il permesso di ritirarsi, ma Hitler fu irremovibile ed ordinò che le truppe non dovevano indietreggiare.
La controffensiva russa iniziò il 19 novembre 1942 con un massiccio lancio di razzi Katiuscia. I Katiuscia erano dei potenti lanciarazzi montati su autocarri. Ogni autocarro portava 16 razzi che potevano essere sparati in rapida successione. L’Armata Rossa aveva radunato un milione di soldati intorno a Stalingrado. Il primo attacco venne sferrato a nord della città di Stalingrado, sulle rive del fiume Don, dove dopo il lancio di razzi Katiuscia, ingenti truppe dell’Armata Rossa con una divisione di carri armati «T-34» si avventarono contro le truppe rumene là attestate, le quali subirono ingenti perdite e fuggirono senza combattere, lasciando senza presidio la zona di competenza loro assegnata.
Le truppe italiane, composte da 230.000 uomini dell’ARMIR (Armata Italiana in Russia), impaurite dalla terrificante potenza di fuoco e dall’abilità in combattimento degli eroici soldati dell’Armata Rossa, dopo aver provato inizialmente a combattere si diedero anch’esse ad una caotica fuga insieme alle truppe rumene. Molti reparti militati italiani vennero completamente annientati dai soldati dell’Armata Rossa senza alcuno sforzo, altri vennero fatti prigionieri.
A sud di Stalingrado venne contemporaneamente sferrato dall’Armata Rossa un secondo attacco, in questa occasione contro le armate tedesche che si ritrovarono a combattere su più fronti e che vennero accerchiate in quella che è passata alla storia come la «sacca di Stalingrado». Il 22 novembre le truppe dell’Armata Rossa circondarono tutta zona di Stalingrado. I 300.000 uomini della 6° Armata tedesca, da assedianti divennero assediati! Disponevano di risorse alimentari sufficienti solo per sei giorni. Le munizioni sarebbero state sufficienti solo per otto giorni. Il 25 novembre il generale Paulus chiese con urgenza l’autorizzazione a tentare di rompere l’accerchiamento e iniziare la ritirata. Ma Hitler ordinò che la 6° Armata tedesca doveva restare a Stalingrado ed attendere i rinforzi. Hitler ordinò alla Luftwaffe di effettuare un ponte aereo portando alla 6° Armata tedesca rimasta bloccata nella «sacca di Stalingrado», 550 tonnellate di provviste al giorno. I rifornimenti, però riuscirono ad arrivare solo il primo ed il secondo giorno, anche se non nelle quantità previste. Dal terzo giorno le truppe della 6° Armata tedesca non ricevettero più nulla in quanto la fitta nebbia non consentiva il volo degli aerei ed il gelo procurava continui guasti agli aerei che i meccanici per via delle temperature estremamente rigide non riuscivano a riparare. Inoltre, in soli due giorni, quasi 500 aerei tedeschi vennero abbattuti dalla contraerea russa mentre volavano a bassa quota per tentare di portare rifornimenti alla 6° Armata tedesca.
Così in breve tempo i soldati tedeschi della 6° Armata cominciarono a morire di fame e per congelamento. L’indebolimento fisico consentì la diffusione di malattie tra le quali il tifo e la difterite.
Hitler ordinò così al miglior generale tedesco, Il Felmaresciallo Von Manstein di organizzare una nuova formazione militare: il «Gruppo di Armate del Don» con l’aggiunta di truppe rumene che rinunciarono alla prosecuzione della loro ritirata. Al generale della 4° Armata Corazzata tedesca venne ordinato di dirigersi verso la città di Stalingrado per cercare dall’esterno di rompere l’accerchiamento. Hitler dichiarò: «Bisogna prendere la città che porta il nome di Stalin!» L’offensiva della 4° Armata Corazzata tedesca, sembrò avere successo, consentendogli il 19 dicembre 1942 di giungere a pochi chilometri dalla 6° Armata assediata. Tali notizie giunsero ai soldati tedeschi assediati i quali pur allo stremo delle forze, videro il loro morale risollevarsi in vista di una possibile liberazione dall’accerchiamento.
Ma ad un certo punto, le truppe tedesche non riuscirono più ad avanzare verso Stalingrado e vennero costrette alla ritirata dagli attacchi dell’Armata Rossa. Alla fine di gennaio 1943, alcuni soldati tedeschi cominciarono a disertare rischiando la fucilazione mentre altri decisero di arrendersi ai russi.
Il generale Paulus scrisse questa lettera ad Hitler: «L’esercito muore di fame ed è congelato. Non abbiamo più munizioni e carburante e non possiamo più spostare i carri armati.» L’Armata Rossa offrì al generale Paulus le condizioni per la resa ma Hitler non lo autorizzò ad accettarle perchè non voleva ammettere la sconfitta. Hilter scrisse a Paulus: «La resa è fuori questione. I soldati devono combattere fino alla fine.» Così fra i soldati della 6° Armata tedesca cominciarono a verificarsi suicidi di massa. Il generale Paulus, malato e caduto in depressione, con l’ultimo aereo in partenza da Stalingrado inviò alla moglie la fede nuziale ed un messaggio di addio. Hitler riconobbe il sacrificio di Paulus nominandolo «Felmaresciallo». Ma Paulus conosceva bene il significato di questa promozione. Nessun «Feldmaresciallo» tedesco si era mai arreso o venne fatto prigioniero. Hitler con un ultimo calcolo cinico, promuovendo Paulus a «Felmaresciallo» pensò di riuscire a costringerlo ad un suicidio. Ma Paulus si rifiutò di interpretare il ruolo di eroe nella farsa e tragica opera di Hitler.
In Germania continuava invece la propaganda ed il 30 gennaio 1943, il gerarca nazista Hermann Goering in un discorso alla nazione tedesca dichiarava: «Anche tra mille anni, alla parola Stalingrado, ogni tedesco avrà un brivido, ricordando che fu lì che la Germania appose il sigillo per la vittoria finale.» Non dopo mille anni, ma semplicemente il giorno dopo, il 31 gennaio 1943, nonostante il divieto imposto da Hitler, il generale Paulus, che aveva perso già più di 200.000 uomini, disobbedì ad Hitler e si arrese.
Il generale Čujkov aveva vinto ma non era ancora soddisfatto. Čujkov fece picchiare gli ufficiali tedeschi catturati, e voleva vederli sporchi e senza forze prostrarsi davanti a lui, il figlio di un contadino, e supplicarlo di salvargli la vita.
Al momento della resa, con il generale Paulus erano rimasti 91.000 soldati, feriti, malnutriti, assiderati ed afflitti da ogni malattia. L’Armata Rossa li fece prigionieri e giustamente vendicò tutte le folli atrocità che questi soldati tedeschi avevano compiuto, soprattutto nei confronti della popolazione civile.
Infatti, a macchiarsi di una incomprensibile atrocità, furono proprio i soldati di una divisione della 6° Armata tedesca che nell’agosto del 1942 fecero tappa nella cittadina ucraina di Belaja Zerkov. Qui l’unità speciale «4A delle SS», rinchiuse 90 bambini in una cantina nella periferia della città, senza ne luce, ne acque e ne pane. Tra loro c’erano anche alcuni neonati. I soldati tedeschi presero i papà di questi bambini, li portarono distanti qualche chilometro e li massacrarono a colpi di mitra. Poi costrinsero i bambini ad assistere alla fucilazione, delle loro madri. Quindi, rinchiusero i bambini nella cantina per qualche giorno, divertendosi ad ascoltare le loro continue urla di disperazione ed i loro continui pianti. Poi prima di ripartire alla volta di Stalingrado, massacrarono con raffiche di mitra tutti i novanta bambini.
Hans-Erdmann Schonbeck, un ufficiale della 24° Corazzata tedesca, molti anni dopo la fine della guerra, in una intervista dichiarò: «Avevamo il terrore che l’Armata Rossa facesse anche a noi quello che noi avevamo fatto a milioni di civili russi. E non sto esagerando, le cifre erano quelle. Eravamo letteralmente terrorizzati dalla vendetta dei russi. Sapevamo benissimo quello che ci avrebbe aspettato!«
Dei 300.000 soldati tedeschi che assediavano Stalingrado ne erano sopravvissuti 91.000, tra cui 24 generali e vennero tutti fatti prigionieri dalla gloriosa Armata Rossa. Di questi 91.000 soldati solo 33.000 sopravvissero ai primi giorni di stento. La condanna di questi 33.000 soldati sopravvissuti, furono i lavori forzati. Vennero deportati nei Gulag in Siberia dove la temperatura raggiungeva 60° sotto zero, stipati in treni merci senza riscaldamento, ricevendo da mangiare un solo pasto ogni tre giorni. Quindicimila di questi soldati prigionieri morì durante il viaggio in treno in direzione dei Gulag. Solo 6.000 di questi soldati si salvarono e fecero successivamente ritorno in Germania, alcuni anche tredici anni dopo. I prigionieri tedeschi furono anche condannati a ricostruire Stalingrado. Il generale Paulus venne rilasciato nel novembre 1953 e gli venne consentito di andare a vivere nella Germania dell’Est ma non vedette più sua moglie, la quale morì nel 1949. L’Armata Rossa gli risparmiò la vita perchè durante la prigionia collaborò con le autorità sovietiche fornendo informazioni riguardo l’esercito nazista.
Al termine della guerra il generale Čujkov dichiarò: «Noi difensori di Stalingrado eravamo inferiori di numero rispetto agli occupanti. Ma noi combattevamo per la nostra libertà e indipendenza. Noi combattevamo per la nostra grande patria, la «Grande Madre Russia«! E se un uomo lotta per la cosa che gli è più cara, non si risparmia! La morte era in agguato, ma tutti sapevamo che alle spalle c’era il Volga e dietro il Volga non c’era niente per noi!«
I difensori di Stalingrado facevano questo giuramento: «Siamo venuti da diverse parti della Russia, ma difendendo questa città ognuno di noi sa che difende la Patria, la famiglia, il Paese.» E’ un impegno che hanno mantenuto! Sulla collina di Mamaev, nell’odierna città di Volgograd (precedentemente chiamata Stalingrado), si ricordano per sempre i caduti, con continue e quotidiane processioni di russi che omaggiano con i fiori i difensori di Stalingrado. Non so quanti lettori siano mai stati a Volgograd (ex Stalingrado) ed abbiamo potuto visitare la collina di Mamaev ed i suoi mausolei, ed allora mettetevi comodi poiché faremo un brevissimo viaggio della durata di 10 minuti in questo posto emozionante con queste bellissime immagini.
Vorrei chiudere questo articolo dedicato alla battaglia di Stalingrado, omaggiando gli eroici difensori russi con le parole di un poeta russo, Sergeij Esenin:
No, no, io non voglio morire, non voglio finire nel nulla.
Invano si libereranno gli uccelli sopra di noi.
Voglio ancora scuotere il miele dagli alberi come un fanciullo
e protendere le palme come molli e bianchi vassoi.
Come può esister la morte?
Come fa ad annidarsi nel cuore questo pensiero,
quando possiedo una casa lungo la strada maestra?
Ho bramosia della luna e mi rincresce del cielo,
mi rincresce del pioppo sotto l’angusta finestra.
Soltanto per chi respira sono clementi
i deserti e le selve, le praterie e le fiumane.
Ascoltami: io voglio sputare sul firmamento
se non sarò più vivo domani!
Io voglio vivere, vivere, vivere,
vivere fino al male, fino alla pena e alla noia.
Anche ladro o minatore, in qualunque umano inferno,
pur di vedere nei campi le talpe che saltan di gioia,
pur di sentire le rane che cantano d’estasi nelle cisterne.
Bianca sboccia l’anima mia come il fiore del melo,
e il vento mi ha consuntogli occhi in un incendio azzurro.
Ditemi che debbo fare, in nome del cielo,
purché nell’orto degli uomini non cessi mai il mio sussurro!
Luca D’Agostini
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