Il poeta tedesco Heinrich Heine disse: «Aristofane è il grande satirico, e io vorrei che la satira personale tornasse in voga anche da noi. Aristofane ci presenta le immagini più terribili della follia umana soltanto riflesse nello specchio ridente dello scherzo. La sua poesia è come un grande albero meraviglioso sul quale si arrampicano le scimmie e cantano gli usignoli«.
Ho inteso iniziare questo articolo con queste affermazioni di Heine, poiché le ritengo le più aderenti ad una descrizione del grande satirico per eccellenza.
Non si conosce quasi nulla della sua vita, fuorché la notizia che gli attacchi che condusse, in particolare contro il demagogo Cleone, gli procurarono un processo con il capo di accusa di avere attentato ai diritti dei cittadini, venendone scagionato.
Aristofane non è l’unico rappresentante della commedia antica, ma solo di lui possiamo registrare appieno l’invettiva senza inibizioni, il ritmo scenico e la ricchezza dell’uso della lingua, che arriva fino alla scurrilità, ma sempre pienamente funzionale all’azione comica. Legato strettamente all’attualità del suo tempo Aristofane incarna il conservatore aristocratico, che fa del rimpianto del passato e della lotta al nuovo l’obiettivo principale della sua produzione.
L’opera letteraria di Aristofane si componeva di 44 commedie di cui però 11 soltanto però ci sono giunte intere.
Analizziamo ora singolarmente ciascuna di queste 11 commedie.
GLI ACARNESI (425 a.C.)
Prende il nome dagli abitanti del demo di Acarne, una suddivisione amministrativa del territorio dell’antica Atene. Messa in scena nel 425 a.C., durante la Guerra del Peloponneso, l’opera è famosa per le sue istanze pacifiste.
LA TRAMA: Diceopoli, un contadino stanco di vedere i propri raccolti distrutti dai soldati spartani, va sulla collina di Pnice dove, regolarmente, si svolge l’assemblea ateniese, ma questa tarda ad iniziare a causa dello scarso interesse dei concittadini verso la polis. Quando finalmente comincia, il primo a parlare è Anfiteo che propone una pace con Sparta; ma viene cacciato.
In seguito Diceopoli incontra Anfiteo al quale aveva affidato il compito di recarsi a Sparta per chiedere un accordo privato. La risposta che riceve è che deve scegliere tra tre tipi di pace: una di cinque anni, una di dieci e una di trenta. Diceopoli opta per quest’ultima, ma Anfiteo deve velocemente scappare in quanto, per aver proposto la pace con Sparta, è stato minacciato di morte dagli Acarnesi, popolo di carbonai guerrieri, rappresentato dal coro.
Quando poi gli Acarnesi capiscono che Diceopoli ha dato il via alla tregua, tentano di lapidarlo, ma il contadino sa cosa fare: prende del carbone e subito il coro depone le pietre chiedendo pietà.
Diceopoli si reca da Euripide per chiedergli i cenci con cui ornava i suoi eroi. Il tragediografo si mostra di cattivo umore in quanto ha l’impressione di dare via insieme agli stracci anche i suoi versi. Diceopoli torna dagli Acarnesi e racconta la sua verità sulla guerra: la causa sta nel rapimento della prostituta Simeta a Megara, rapimento al quale i Megaresi hanno risposto con il rapimento di due prostitute di Aspasia (concubina di Pericle). Per questo fatto, Pericle ha lanciato fulmini contro Megara e i suo abitanti hanno chiesto aiuto agli Spartani.
Dopo questa riflessione, il coro si divide in due parti: una a favore della pace, l’altra vuole la guerra e invoca Lamaco, stratega e soldato. Diceopoli, con poche parole, mostra lo scarso valore di Lamaco e lo manda via dalla scena; dopo di che proclama il libero mercato anche con le città in guerra con Atene.
La commedia si conclude con Lamaco che è chiamato in guerra al nord e Diceopoli che è invitato alla festa dei Boccali e delle Pentole. Lamaco tornerà ferito ma non come eroe, Diceopoli vincerà il premio di miglior bevitore e si allontana in compagnia di due bellissime donne.
COMMENTO: la commedia tratta del malcontento delle classi popolari davanti alla guerra del Peloponneso. Il protagonista è Diceopoli (letteralmente «cittadino giusto») che incarna il desiderio di pace.
Il conflitto tra Atene e Sparta si sta espandendo in tutta la Grecia, determinando il cambiamento dei valori etici, religiosi e politici del V secolo: i bersagli di Aristofane sono i sostenitori della guerra ed Euripide.
Gli Acarnesi hanno un intento pacifista e molte delle battute rivolte al pubblico nella parabasi sono in realtà indirizzate all’uomo politico. La commedia è quindi una satira politica e in essa Aristofane se la prende contro gli errori di politici incapaci, unici colpevoli di avere provocato la guerra.
I CAVALIERI (424 a.C.)
I cavalieri è una commedia di Aristofane andata in scena per la prima volta nel 424 a.C. ad Atene, in occasione delle Lenee (feste dell’antica Atene dedicate al dio Dioniso Leneo), nel corso delle quali gli autori erano chiamati a gareggiare in agoni comici. Nella competizione l’opera vinse il primo premio.
LA TRAMA: La commedia inizia con un complotto.
Due servi di Demo vogliono togliere di mezzo Paflagone. Questi, che è l’ultimo arrivato nella servitù del vecchio, tratta in malo modo gli altri servi per far bella figura col padrone. I servi, stufi di questa situazione, rubano l’oracolo di Paflagone scoprendo che verrà sconfitto da un salsicciaio.
Dopo alcuni commenti a riguardo, compare sulla scena un salsicciaio.
Subito i due servi lo fermano per proporgli di affrontare Paflagone e alla fine lo convincono.
Il servo malvagio esce dalla casa di Demo. Alla vista di questi la reazione del venditore di salsicce è quella di scappare, ma i due servi lo bloccano. Subito dopo entrano i cavalieri, che si schierano dalla parte del salsicciaio. Questo dà coraggio all’uomo ed inizia la disputa con Paflagone.
I due si sfidano infine a una gara culinaria per il loro padrone. Dopo che Demo ha mangiato, il salsicciaio fa notare che il suo cesto è vuoto perché ha cucinato tutto, mente quello di Paflagone è ancora pieno perché aveva servito una minima parte di quello che aveva.
Dunque il salsicciaio vince, come era scritto nella profezia, e rivela anche il suo nome: Agoracrito; inoltre dona al suo nuovo padrone un giovane e due ragazze (le Tregue). mente Paflagone viene «condannato» a svolgere il precedente lavoro di Agoracrito: vendere, cioè, salsicce.
COMMENTO: Questa commedia è incentrata sulla degenerazione demagogica della politica ateniese.
Già nella parabasi degli Acarnesi, l’anno precedente, Aristofane aveva affermato di voler attaccare Cleone tramite i cavalieri. Questi erano infatti una delle classi sociali più importanti di Atene, ed erano decisamente ostili a Cleone (sostenuto invece dagli strati più bassi della popolazione). Questo spiega perché il coro che sostiene il salsicciaio sia costituito appunto da cavalieri.
L’opera, in effetti, rappresenta un attacco fortemente critico nei confronti di Cleone, l’uomo politico maggiormente in vista di quel periodo. L’intera trama si configura come metafora di quella che, secondo l’autore, era la situazione politica ateniese di quei tempi. Il personaggio di Demo, infatti, rappresenta il popolo stesso (che è il padrone di casa, essendo Atene un sistema democratico), mentre i due servi simboleggiano Demostene e Nicia, generali e uomini politici del tempo, messi in ombra da un ingombrante antagonista. Paflagone, infine, rappresenta Cleone, il bersaglio principale della commedia. Nel momento in cui i due servi si lamentano del modo in cui Paflagone si è ingraziato Demo con atteggiamenti ipocriti ed adulatori, viene in effetti descritta quella che, nella visione di Aristofane, era la situazione politica di quei tempi.
L’opera rappresenta in maniera grottesca, ma non per questo meno acuta, il modo in cui si forma il consenso politico nella società, argomento, questo, ancora di stretta attualità. I personaggi dell’opera tentano di ingraziarsi la stima e la benevolenza di Demo (ossia del popolo), ma lo fanno cercando di manipolarlo, adulandolo con falsi elogi e promesse, e facendogli credere cose lontane dalla verità. Viene insomma presentata la parte deteriore della politica, quella dei sotterfugi e degli inganni, il cui unico scopo è quello di arrivare, costi quel che costi, a gestire il potere e poi di mantenerlo con la propaganda, continui annunci densi di demagogia e promesse mai mantenute. Aristofane mette alla berlina questo modo di fare politica.
Nei Cavalieri Aristofane fu costretto ad interpretare lui stesso, sulla scena, il personaggio di Paflagone, e a costruirsi da solo la maschera teatrale, poiché, data la virulenza dell’attacco che veniva portato a Cleone, nessun attore, né alcun artigiano, aveva dato la propria disponibilità.
LE NUVOLE (423 a.C.)
Le Nuvole furono rappresentate nel 423 a.C., con poco successo: ottennero, infatti, soltanto il terzo posto alle Grandi Dionisie. Aristofane successivamente rimaneggiò la commedia, aggiungendo una nuova parabasi, l’agone fra i due Discorsi, e il finale con l’incendio della casa di Socrate. Non è certo se questa seconda versione sia stata o no rappresentata.
LA TRAMA: la commedia racconta la storia del contadino Strepsiade che, indebitato fino al collo, tenta di convincere il figlio Fidippide (che per amor dei cavalli è la causa del dissesto) ad andare al Pensatoio di Socrate dove avrebbe imparato l’arte della dialettica che gli permetterà, con la forza della parola di plagiare la moltitudine dei creditori che, storditi, non troveranno più gli argomenti per richiedere il pagamento dei legittimi crediti. Di fronte al rifiuto del figlio, Strepsiade decide di andare personalmente alla scuola del Maestro, ma l’eccessiva ignoranza e rozzezza gli precluderà il benché minimo apprendimento.
Ma Strepsiade non desiste e con manesca autorità vince la resistenza di Filippide che va al Pensatoio del Maestro dove assiste al dibattito tra il Discorso Forte (quello della tradizione e della virtù) e il Discorso Debole (della furbizia, del tornaconto, dell’egoistico benessere personale). Filippiade affascinato dal Discorso Debole si presenta al padre vestito in modo strano e con eloquenza truffaldina, convince i creditori a non insistere nelle loro pretese. Poi si rivolge al padre e lo prende a calci affermando che le parti sono invertite ora è lui il dominus. Esasperato Strepsiade dà allora alle fiamme il Pensatoio di Socrate.
COMMENTO: Aristofane è un tradizionalista, non ama le nuove filosofie, non ama Euripide l’innovatore, e nelle Nuvole il principale bersaglio delle sue frecce avvelenate è Socrate il sofista, l’ateo, il venditore di fumo, di parole vuote, di ragionamenti falsamente profondi. Per Socrate non esistono le divinità tradizionali, ma solo le Nuvole hanno il potere di condizionare la vita degli uomini. Per Aristofane invece le Nuvole incarnano l’evanescente abilità dialettica delle correnti sofistiche che, rapportata ai giorni nostri rappresenterebbero il potere mistificatorio dei falsi miti.
LE VESPE (422 a.C.)
LA TRAMA: Filocleone, padre di Bdelicleone, è tormentato da una mania per i processi che lo conduce continuamente in tribunale allo scopo di assistere alle cause. Per evitare l’inutile presenza di Filocleone al processo, nella scena iniziale troviamo due guardie del figlio che cercano di tenere a bada il vecchio.
Quando giunge il coro – le Vespe – composto da vecchi giudici, Filocleone spiega agli amici di essere stato rinchiuso e richiede il loro aiuto, senza però ottenere alcun risultato. Così inizia l’elogio per le attività giudiziarie da parte di Filocleone, in contrapposizione col figlio Bdelicleone: quest’ultimo, infatti, considera l’attività giudiziaria un servizio ai demagoghi da parte dei giudici, i quali vengono tuttavia ripagati con una paga esigua, mentre ai capi va il guadagno maggiore.
Filocleone, nonostante tutto, insiste per andare in tribunale, quindi il figlio Bdelicleone escogita un piano: allestisce un tribunale in casa sua in modo da far sentire a proprio agio il padre.
L’imputato del primo processo è un cane, accusato di aver rubato un pezzo di formaggio. Filocleone viene coinvolto nel processo e inizialmente è propenso a condannare l’animale, ma il figlio lo convince ad assolverlo. Preso da una totale confusione a causa del giudizio preso, Filocleone decide finalmente di smetterla con i processi.
Bdelicleone invita il padre a spendere la vita nel lusso e nel piacere, se non altro per allontanarsi definitivamente dalla mania dei processi.
In conclusione riappare sulla scena Filocleone, completamente ubriaco, che rientra da un banchetto nel quale era stato sul punto di provocare una rissa.
Alla fine si aggiusta tutto e la commedia si conclude tra le battute scherzose e i salti dei convitati.
COMMENTO: in quest’opera Aristofane prende di mira la proliferazione dei processi che caratterizzava l’Atene dei suoi tempi. Gli ateniesi erano evidentemente assai litigiosi e ricorrevano spesso alla giustizia di Stato, anche realizzando processi inutili, ecco perché Aristofane descrive a mo’ di caricatura e con un molta fantasia, un processo addirittura ad un cane. A causa della interminabile guerra del Peloponneso, le giurie popolari erano ormai composte quasi esclusivamente da persone anziane, che si illudevano in questo modo di svolgere ancora una funzione sociale importante, ossia di essere ancora in grado di pungere (di qui la metafora dei giudici popolari come Vespe). Aristofane li ritiene invece soltanto uno strumento nelle mani del potere, in particolare di Cleone, uomo politico ateniese, frequente bersaglio della satira di Aristofane. Cleone aveva portato da due a tre oboli il compenso per i giudici popolari (equivalenti a oltre la metà dello stipendio mensile di un operaio), accrescendo così il desiderio e la mania degli ateniesi per i processi. Non a caso il vecchio che vuole parteciparvi è chiamato Filocleone, ovvero «il seguace di Cleone», mentre il figlio che cerca di impedirglielo è Bdelicleone, ovvero «colui che disprezza Cleone».
Nello svolgimento della storia è possibile notare un cambiamento da parte del vecchio Filocleone, che da vecchio burbero quale era passa ad essere un uomo amante delle feste e dei divertimenti e subisce quindi un ringiovanimento.
LA PACE (421 a.C.)
Aristofane realizzò questa commedia in un clima di speranza per il futuro, dovuto alla firma della cosiddetta pace di Nicia che sarebbe dovuta durare 50 anni ma che in realtà durò poi molto meno. Il titolo trae il nome da Eirene (Irene), dea della pace.
LA TRAMA: la vicenda si svolge ad Atene nel 421 a.C. In quegli anni la Grecia era sconvolta dal duro conflitto della guerra del Peloponneso. Trigeo, vignaiolo del demo di Atmone, era deciso a raggiungere l’Olimpo per convincere gli dei a far cessare la guerra. Per far ciò aveva incaricato i suoi servi di nutrire con dello sterco uno scarabeo gigante, con il quale voleva attraversare i cieli.
Raggiunta la dimora degli dei l’eroe apprende da Ermes che gli dei hanno abbandonato l’Olimpo e l’umanità, lasciandoli in balia di Polemo (la guerra) ed il suo servo, Tumulto, poiché erano adirati a causa del loro persistere nella guerra. Il piano di Polemo era quello di gettare tutte le città greche in un mortaio per farne un pesto. Il suo servo inviato a recuperare i due pestelli (l’ateniese Cleone e lo spartano Brasida), torna a mani vuote perché non ci sono più.
Trigeo, approfittando dell’assenza di Polemo, impegnato a costruire nuovi pestelli, chiama a raccolta tutti i Greci per liberare la Pace, unica via di salvezza, rinchiusa in un antro. Solo i contadini danno prova di possedere le doti di concordia necessarie a reggere l’impresa. Trigeo riesce nell’intento e, insieme a questa libererà anche due fanciulle: Opora, l’abbondanza, e Teoria, la processione.
La pace ritrovata si celebra in molti modi: canti, bevute e simposi. Inoltre si rievocano le cause della guerra e ci si ripromette di rifiutare ogni comportamento bellicoso con un canto dedicato alla serenità della vita campestre. La commedia si conclude con il matrimonio di Trigeo e Opora e con festeggiamenti nuziali.
COMMENTO: L’opera venne messa in scena in un clima di speranza e di ottimismo per il futuro, poiché quello stesso anno era stata firmata la pace di Nicia, una tregua cinquantennale che avrebbe dovuto imprimere una svolta pacifica alla Guerra del Peloponneso, ma che nel giro di pochi anni si sarebbe rivelata illusoria. In questo clima di speranza, Aristofane scrive un’opera che segna una svolta nella sua produzione, poiché libera la fantasia: il protagonista non è vincolato dai limiti di spazio e tempo, lo vediamo infatti salire verso il cielo per incontrare gli dei. Negli anni seguenti, anche altri protagonisti di commedie di Aristofane faranno lo stesso percorso (Gli uccelli) o scenderanno agli inferi (Le rane).
GLI UCCELLI (414 a.C.)
Questa commedia fu messa in scena per la prima volta alle Grandi Dionisie del 414 a.C., dove ottenne il secondo posto.
LA TRAMA: due cittadini ateniesi, Pistetero ed Evelpide, disapprovando il comportamento dei loro concittadini, decidono di lasciare la città per cercarne un’altra dove poter vivere in pace. I due vanno alla ricerca di Upupa, in passato re di Tracia, trasformato in uccello dagli dei, e decidono di portare con sé una cornacchia e un gracchio che li aiuteranno a trovarlo.
Ormai stremati dal lungo viaggio i due cominciano a dubitare dell’efficienza dei due uccelli, ma, quando ormai le speranze stanno per svanire, la cornacchia gracchia davanti a una grande roccia. Pistetero ed Evelpide simulano il verso dell’upupa e all’improvviso dal masso esce uno strano uccello dal becco spaventoso, che si rivela essere il servo dell’Upupa. I due lo convincono a far uscire l’antico re di Traccia, ma non appena lo vedono scoppiano in grosse risate per via del suo becco e delle sue piume a tre pennacchi, tuttavia, gli espongono il progetto per il quale sono partiti: gli propongono di fondare insieme agli uccelli una città nel cielo chiamata Nubicuculia, la quale deve rappresentare «la città ideale», situata tra gli dei e gli uomini.
L’upupa decide di prendere in considerazione la proposta e incarica l’usignolo di svegliare e richiamare tutto il coro degli uccelli.
Questi sembrano essere inizialmente ostili all’idea, poiché non si fidano di nessun uomo, ma le loro diffidenze vengono superate anche grazie alla dote persuasiva di Pistetero: non essendo inferiori agli dei e agli uomini anche gli uccelli hanno il diritto di avere un proprio regno, e questo sarà di gran lunga superiore agli altri.
Cominciano i lavori, ma durante la costruzione del nuovo regno i due ateniesi vengono continuamente interrotti. Aristofane descrive ironicamente queste interferenze a cui Pistetero darà fine con la forza.
Intanto la notizia della nuova città si sparge rapidamente. Gli uccelli, intercettando i fumi dei sacrifici offerti dagli uomini agli dei, riducono gli dei stessi alla fame, e al contempo gli uomini accettano di venerare gli uccelli come le loro nuove divinità.
Giunge poi una messaggera degli dei, Iride, e poi una seconda ambasciata divina formata da Poseidone, Eracle e Triballo, i quali non possono che accettare le condizioni dettate da Pistetero: gli uccelli diverranno gli esecutori del potere divino tra gli uomini, mentre Pistetero sarà nominato successore di Zeus e diventerà sposo di Regina, la donna depositaria dei fulmini del padre degli dei. Pistetero e gli uccelli ottengono così il potere, e la commedia si conclude con la celebrazione delle nozze tra Pistetero e Regina.
COMMENTO: Il merito de «Gli uccelli» risiede nella sua attualità, perché rappresenta i sogni dell’uomo di sempre. Il tema trattato, infatti, è quello dell’individuo che vuole fuggire dalla propria città, perché essa è troppo corrotta. «Nemo sua sorte contentus«, diceva Orazio. L’uomo cerca così scampo in un mondo «puro», ma, inconsapevolmente, egli finirà per votarlo allo stesso triste destino della sua patria di origine: la commedia dimostra, dunque, la futilità di ogni utopico desiderio umano.
Non stupisce, allora, che un’opera di questo genere possa godere ancora oggi del favore del pubblico.
LE DONNE ALLE TESMOFORIE (411 a.C.)
Le donne alle Tesmoforie è una commedia di Aristofane, andata in scena per la prima volta ad Atene alle Grandi Dionisie del 411 a.C. Il titolo dell’opera è stato tradotto in vari modi nelle edizioni italiane; altri titoli utilizzati sono: «La festa delle donne«, «Le donne alla festa di Demetra«, «Tesmoforiazuse«, «Tesmoforianti«. La prima edizione in lingua italiana dell’opera (Venezia, 1545) recava il titolo «Le cereali«.
La scena è ambientata ad Atene, durante il secondo giorno delle Tesmoforie, una festa riservata alle donne e dedicata alle dee Demetra e Persefone. Accanto a personaggi di fantasia, nell’opera appaiono anche due figure molto conosciute nella Atene di quei tempi: i tragediografi Euripide ed Agatone.
LA TRAMA: Euripide, temendo che le donne, riunite in occasione della festa, stiano tramando una vendetta contro di lui, colpevole di averle messe in cattiva luce nelle sue tragedie, pensa di correre ai ripari. Chiederà all’effeminato poeta Agatone di prendere le sue difese presenziando, travestito da donna, all’assemblea delle Tesmoforie. Insieme a un parente, Mnesiloco, si reca allora presso l’abitazione di Agatone, che li accoglie in vesti femminili declamando propri versi e causando l’ironia salace del parente. I due tentano di convincere l’effeminato poeta ma Agatone, temendo di essere smascherato e condannato, rifiuta l’incarico.
Giunge in soccorso la disponibilità di Mnesiloco che, convinto a prestarsi alla finzione, viene per questo motivo maldestramente depilato da Euripide. Lisciato come una donna (Euripide non tralascia nemmeno di bruciargli i peli dalle natiche), vestito con abiti femminili prestati da Agatone, prenderà parte alla vivace assemblea delle donne.
Di fronte alle accuse del consesso muliebre e all’ipotesi, ventilata, di un’eliminazione fisica di Euripide, Mnesiloco si lancia nella difesa del poeta, sostenendo che i suoi strali erano intesi a colpire le sole eroine del mito senza voler affatto stigmatizzare il comportamento delle loro omologhe moderne, che peraltro, si lascia sfuggire l’incauto e improvvisato difensore, non è certo da considerarsi impeccabile. Quest’ultima argomentazione, esemplificata con racconti di infedeltà e scaltrezza femminile, si rivela però dirompente e fa degenerare l’assemblea in una rissa. Sarà poi l’intervento delatorio dell’effeminato Clistene a portare allo smascheramento del maldestro difensore.
A questo punto Mnesiloco, messo alle strette, sottrae una bambina alle mani di una donna pensando di farne ostaggio per sfuggire alla cattura, ma quella che sembrava una bimba si rivela essere una brocca di vino, avvolta in fasce puerili allo scopo essere occultamente introdotta nell’assemblea. Per salvarsi dalla folla inferocita, Mnesiloco decide di berne il contenuto, fingendo di aver voluto solo inscenare un sacrificio rituale, un espediente che genera ulteriore disgusto e che non vale a salvare l’impostore dalla cattura.
Arriva allora Euripide che, impegnatosi ad intervenire alla bisogna, tenta di salvare il parente. Travestito da Menelao (ennesimo colpo di scena), sostiene che Mnesiloco sarebbe nientemeno che la bella Elena, da lui rintracciata in Egitto, vittima incolpevole di Teoclimeno.
Fallito il primo tentativo, Euripide ci riprova nei panni di Perseo, con Mnesiloco che tiene botta calandosi prontamente nel ruolo di Andromeda. Tuttavia l’arrivo di un magistrato, precedentemente sollecitato da Clistene, mette fine alle improvvisazioni della strana coppia. Mnesiloco finisce incatenato, proprio come l’eroina da lui interpretata; Euripide però riesce, come un novello Perseo, nell’intento di liberare Mnesiloco/Andromeda. Sarà però costretto, suo malgrado, a promettere alle donne di mettere da parte la propria misoginia, risparmiando loro ogni futuro strale e al contempo tacendo ai mariti, di ritorno dalla guerra, sui fatti di sua conoscenza che le riguardano.
Vi è ora un ultimo ostacolo: eludere il barbaro arciere trace a cui il magistrato aveva affidato la custodia dell’impostore incatenato. Euripide, nelle vesti di una vecchia mezzana, conduce con sé una prostituta che, distraendo il guardiano dalla sorveglianza, copre la fuga dei due maldestri complici. In scena rimane soltanto l’arciere trace, sconsolata vittima dell’inganno.
COMMENTO: Euripide ed Agatone, col loro intellettualismo, sono qui i bersagli principali degli strali del commediografo, che non sopportava la loro pretesa di innovare la tragedia classica. Euripide è peraltro un bersaglio consueto per Aristofane, che lo prende di mira anche negli Acarnesi e nelle Rane. Si tratta però di un atteggiamento ambiguo, in quanto Aristofane certamente critica il grande poeta, ma al tempo stesso non può non riconoscerne la grandezza, rivelando così un rapporto di amore-odio.
LISISTRATA (411 a.C.)
Il nome Lisistrata è composto dal verbo (sciogliere) e dal sostantivo (esercito); quindi, il significato del suo nome richiamerebbe il concetto di «Colei che scioglie gli eserciti«, così che non è più possibile fare la guerra.
LA TRAMA: Lisistrata, donna ateniese, convoca numerose donne di Atene e altre città, tra cui la spartana Lampitò, per discutere un importante problema. A causa della guerra del Peloponneso, infatti, gli uomini delle poleis greche sono perennemente impegnati nell’esercito e non hanno più il tempo di stare con le loro famiglie. Lisistrata propone allora alle altre donne di fare uno sciopero del sesso: finché gli uomini non firmeranno la pace, esse si rifiuteranno di avere rapporti sessuali con loro. Dopo un momento di sbigottimento e di rifiuto, le donne si dicono favorevoli al piano e fanno un giuramento.
A quel punto, le donne occupano l’acropoli ateniese, allo scopo di privare gli uomini dei mezzi finanziari per proseguire la guerra. Arriva il coro di vecchi ateniesi (uno dei due semicori della commedia) che vorrebbe, per vendetta, incendiare l’acropoli stessa, ma viene fermato dal coro delle vecchie (l’altro semicoro). Gli uomini mandano allora un commissario per trattare con le donne, ma Lisistrata ne smaschera l’ignoranza e la poca comprensione delle vicende che stanno accadendo. Peraltro, le donne hanno molta difficoltà a mantenere il patto e inventano varie scuse per tornare a casa dai mariti; Lisistrata deve penare non poco per impedir loro di lasciare l’acropoli. Concede solo a Mirrina la possibilità di incontrare il marito Cinesia, ma lo scopo è solo quello di stimolare le voglie dell’uomo, per poi lasciarlo insoddisfatto. Mirrina svolge alla perfezione il suo compito: fa credere al marito di essere pronta all’atto sessuale, ma poi scappa lasciandolo in preda alle sue voglie.
Nel frattempo, l’astinenza si fa sentire anche nelle altre città greche: arriva un araldo da Sparta per trattare la pace, con il pene palesemente eretto, e incontra Cinesia, le cui voglie sono altrettanto evidenti. I due si mettono d’accordo: Sparta manderà ambasciatori pronti a firmare la pace, mentre Cinesia informerà le istituzioni ateniesi. Questo smorza decisamente le tensioni: i vecchi e le vecchie del coro, dopo qualche resistenza, riescono a riconciliarsi, e lo stesso fanno gli ambasciatori spartani e ateniesi davanti a Lisistrata. Quest’ultima si lancia allora in un discorso pacifista che ricorda le radici comuni di tutti i popoli greci, ma tale discorso degenera presto in un profluvio di allusioni e doppi sensi sessuali da parte degli uomini, felici per la raggiunta riconciliazione. In un tripudio di danze e banchetti si celebra il ritorno delle donne dai loro mariti.
COMMENTO: l’intento dell’autore non era quello di spezzare una lancia a favore dell’emancipazione femminile, ma quello di rappresentare un «mondo alla rovescia», dove il comando viene preso da chi di solito è sottomesso, con lo scopo di ottenere non la parità dei sessi (argomento ancora impensabile a quei tempi e in effetti non trattato nell’opera), ma la pace.
LE RANE (405 a.C.)
Le rane è una commedia teatrale di Aristofane, messa in scena per la prima volta nel 405 a. C. ad Atene, alle Lenee (feste dell’antica Atene dedicate al dio Dioniso Leneo), nel corso delle quali gli autori erano chiamati a gareggiare in agoni comici. Nella competizione l’opera vinse il primo premio. Fu replicata l’anno successivo, (fatto alquanto atipico per quei tempi), per il suo valore artistico e sociale.
LA TRAMA: Dioniso, dio del teatro, non rassegnato per la morte di Euripide, decide di raggiungere l’Ade per riportarlo in vita, poiché nessuno dei tragediografi più giovani possiede la stessa creatività e lo stesso suo genio.
Decide allora di mettersi in viaggio con il servo Xantia e si muove da Atene verso la casa di Eracle, a cui vuole, giacché la conosce, chiedere la via più breve per giungere all’Ade. Dopo qualche presa in giro, Eracle, decide di indicargli la strada: dovranno attraversare una palude, l’Acheronte.
Durante il viaggio, Dioniso incontra un morto e gli chiede se sia disposto a portargli il bagaglio, ma il morto gli chiede in cambio una sorta di mancia e il dio rifiuta.
Giunto a destinazione, Dioniso incontra il traghettatore Caronte, il quale si rifiuta di trasportare Xantia, perché è un servo.
Mentre remano attraverso la palude, Dioniso e Caronte incontrano le rane (il coro): esse intonano un canto in onore di Dionisio, canto ben poco gradito al dio, che presto si infastidisce.
Finalmente raggiungono la dimora di Plutone, il dio degli inferi, il quale, avendo scambiato Dionisio per Eracle (poiché l’uno si era vestito a imitazione dell’altro), insulta il dio e lo minaccia (Eracle infatti, aveva rubato Cerbero, il cane di Plutone).
Spaventato, il dio impone al suo servo di scambiare le vesti e i ruoli. A questo punto però compare una servetta, che fa gran festa ad Ercole, e Dioniso, vedendo ciò, decide di scambiare nuovamente le vesti con Xantia, immaginando un galante incontro con la servetta. Ma qui si ritrova oggetto di una furia vendicativa di un’ostessa e delle sue ancelle: Eracle, infatti, aveva precedentemente saccheggiato tutte le provviste della taverna.
Trovatosi quindi di nuovo in pericolo, il dio ordina di nuovo velocemente a Xantia lo scambio di vesti.
Finalmente i due trovano Euripide, impegnato in una disputa con Eschilo, a proposito di chi meriti il trono di miglior tragediografo di tutti i tempi.
Comincia allora una gara, nella quale Dioniso è il giudice. Viene portata in scena una bilancia dove verranno pesati i versi: i due poeti reciteranno un verso per ciascuno e quello che «peserà» di più vincerà.
La gara è vinta da Eschilo e questo mette in crisi Dionisio, il quale non sa più chi riportare in vita.
Decide infine che sceglierà colui che troverà una soluzione migliore perché Atene si salvi dal declino. Euripide dà una risposta generica e poco comprensibile, invece Eschilo dà un consiglio più pratico e preciso, perciò Dioniso decide di riportare in vita quest’ultimo.
Per concludere, Eschilo, raccomandandogli di non cederlo mai ad Euripide, cede il trono di miglior tragediografo a Sofocle.
COMMENTO: la commedia è stata scritta da Aristofane nel 405 a.C. mentre Atene stava vivendo uno dei periodi più difficili e incerti della sua storia. La guerra del Peloponneso stava giungendo al termine e la polis era sul punto di perdere la sua egemonia, tanto militare quanto culturale. Nessuno sapeva ancora quale sarebbe stato il destino di Atene e come se non bastasse, i due più grandi tragediografi ancora in vita, Sofocle ed Euripide, erano morti nel 406 a.C.. Aristofane scrisse perciò una commedia profondamente nostalgica, tanto che, il viaggio di Dioniso, inizialmente un tentativo di salvare la tragedia, si trasforma nel tentativo di salvare Atene.
Infine, è di fondamentale importanza la sfida tra Eschilo ed Euripide, nella quale le caratteristiche principali dei due tragediografi vengono analizzate con attenzione, i pregi e i difetti dell’uno e dell’altro poeta vengono messi in luce. Durante la discussione, si nota nettamente la preferenza di Aristofane nei confronti di Eschilo, infatti la scelta finale di Dioniso sarà di riportare in vita quest’ultimo. Si può notare anche quando Dioniso e Caronte incontrano le rane e succede qualcosa di strano: le rane cantano in onore di Dioniso, ma quando lo vedono non lo riconoscono e lo considerano solo un seccatore. La maggior parte degli studiosi ritiene che ciò avvenga perché, prediligendo Euripide, Dioniso tradisce il suo ruolo di dio del teatro; per questo le creature che lo amano non lo riconoscono.
LE DONNE AL PARLAMENTO (392/1 a.C.)
In italiano è tradotta anche come «Le donne all’assemblea» o «Ecclesiazuse«. Il titolo originale greco deriva dal termine «ecclesia», l’assemblea del popolo, che deliberava su importanti questioni di Stato.
LA TRAMA: nella prima parte, le donne, guidate da Prassagora, si trovano riunite a provare i discorsi per l’assemblea, travestite da uomini, e a cercare di liberarsi dei modi e della grammatica femminili. Queste prove serviranno, una volta presi i posti nell’ecclesia (parlamento), ad ingannare gli uomini per ottenere il comando dello stato. Quindi viene redatto un «programma politico» apparentemente conservatore, in cui, però, viene dato il potere alle donne.
Nel frattempo le donne tornano a casa dall’assemblea. Prassagora, tornata a casa, fingendo di essere stata da una partoriente, viene informata da Blepiro dell’esito dell’assemblea: il governo verrà affidato alle donne. La donna, dissimulando il proprio coinvolgimento, accoglie con favore la notizia. Enuncia così i punti principali del suo programma di governo:
1) la comunione totale di tutti i beni e delle proprietà, donne comprese, per eliminare ogni sopraffazione e garantire che nessuno rimanga privo del necessario. Quindi anche le donne divengono un bene comune, tuttavia, siccome questo potrebbe favorire le persone fisicamente belle, si decide che sia gli uomini che le donne dovranno prima soddisfare i desideri sessuali dei brutti e delle brutte.
Nelle scene seguenti, si manifestano le contraddizioni di questo nuovo sistema: vengono evidenziate dallo stesso popolo che si divide tra favorevoli e contrari, e dai discorsi stessi degli uomini che si interrogano sulla correttezza di queste nuove usanze. Da una parte, per esempio, c’è chi è restio a cedere i suoi beni, dall’altra si assiste alla scena di un ragazzo che, per poter avere la donna amata, è costretto a soddisfare per interi giorni prima i desideri di tre vecchie megere.
Durante lo svolgersi di queste scene, viene anche organizzato un banchetto, nel quale a fine commedia si ritroveranno tutti i personaggi.
COMMENTO: il grande genio di Aristofane è tale da riuscire a creare situazioni comiche e assurde, anche se tratta temi delicati come la politica, la società utopistica, il comunismo platonico e lo status sociale femminile del tempo. Tutti i principali bersagli di Aristofane (Cleone, Euripide e Socrate fra gli altri) sono ormai morti e la stessa commedia antica va modificandosi verso la commedia di mezzo. Aristofane è costretto a cambiare la vena comica e a toccare temi surreali, i quali, tuttavia, seppure ironici non toccano più i livelli comico-stilistici delle opere della sua gioventù.
PLUTO (388 a.C.)
La commedia prende il nome dal dio greco della ricchezza, Pluto, ed è incentrata sulla diseguale distribuzione tra gli uomini del denaro, movente principale delle azioni umane.
Cremilo, un vecchio contadino ateniese molto preoccupato per le sorti del figlio, a causa della decadenza che la città sta vivendo in quegli anni, decide di consultare l’oracolo di Febo: il responso gli suggerisce di seguire la prima persona che incontrerà e di invitarla a casa sua. Così mentre passeggia con Nocciola, il suo servo, si imbatte in un vecchio, a cui sottopone una serie di domande; lo sconosciuto inizialmente si rifiuta di rispondere, ma in seguito, costretto, decide di ammettere che è Pluto il dio della ricchezza.
Cremilo ragiona sulla ingiusta distribuzione delle ricchezze e capisce che Pluto, essendo stato accecato da Zeus, non può vedere le persone dabbene e quindi distribuisce le ricchezze, a caso, a buoni e malvagi. Decide allora di invitarlo e gli promette di fargli riacquistare la vista. Chiama infatti a sé un gruppo di contadini (che formano il coro), annunciando che i loro raccolti avrebbero fruttato maggiormente, ma mentre questi guidavano Pluto verso il tempio, incontrano Penia (La Povertà).
Nella seconda parte della commedia Penia tenta di dissuadere Cremilo, spiegando che se avesse guarito Pluto non ci sarebbero stati più schiavi, perché nessuno avrebbe lavorato, ma non ottiene nessun risultato.
Pluto, dopo qualche tentennamento, segue Cremilo al tempio di Ascelpio, dove viene curato dal medico Colionone, e può beneficare di nuovo i buoni.
La commedia si conclude con l’apparizione di Ermes che informa Pluto e Cremilo dell’ira degli altri dei poiché questi non ricevono più nessun sacrificio, essendo tutti destinati a Pluto.
COMMENTO: Pluto è l’ultima delle commedie superstiti di Aristofane. Molto criticata, è sempre stata considerata come la prova della decadenza di Aristofane. La commedia non è certo un capolavoro, in quanto per via dell’età l’estro di Aristofane è stanco e i tempi sono cambiati.
AFORISMI
— Tristi eventi nascono da cause malvagie.
— Mai otterrai che il granchio cammini dritto.
— Occorre essere stati vogatori prima di tenere il timone, aver tenuto la prua ed osservato i venti prima di governare da soli la nave.
— Bevendo gli uomini migliorano: fanno buoni affari, vincono le cause, son felici e sostengono gli amici.
— Chi vi vuole bene vi fa paura.
— Pensieri elevati debbono avere un linguaggio elevato.
— Ognuno faccia il mestiere che sa fare.
— I vecchi sono due volte bambini.
— Presto! Portatemi una brocca di sidro affinché possa bagnare la mia mente e dire qualcosa di saggio!
— Gli uomini assennati spesso imparano dai loro nemici. È dai suoi avversari, non dai suoi amici, che le città imparano la lezione di costruire alte mura e navi da guerra; e questa lezione salva i loro bambini, le loro case e le loro proprietà.
— Chiunque è un uomo libero non può starsene a dormire.
— La patria è sempre dove si prospera.
— Non esistono al mondo creature più sfrontate delle donne.
— La donna: non si può vivere con questo accidente, né senza!
— Ingiuriare i mascalzoni con la Satira è cosa nobile, a ben vedere significa onorare gli onesti.
— Le persone oneste ed intelligenti difficilmente fanno una rivoluzione, perché sono sempre in minoranza.
— Si decide in fretta di essere amici, ma l’amicizia è un frutto che matura lentamente.
— Se c’è una soluzione perché ti preoccupi? Se non c’è una soluzione perché ti preoccupi?
— Non c’è nulla al mondo peggio delle donne impudiche, tranne forse le donne.
— La speranza è un sogno a occhi aperti.
— La dignità non consiste nel possedere onori, ma nella coscienza di meritarli.
— La natura non fa nulla invano.
— Ciò che dobbiamo imparare a fare, lo impariamo facendo.
— La gioventù invecchia, l’immaturità si perde via via, l’ignoranza può diventare istruzione e l’ubriachezza sobrietà, ma la stupidità dura per sempre.
Luca D’Agostini
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Fonti
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