La parola tedesca «Anschluss» («connessione»), rappresenta oramai universalmente l’annessione dell’Austria alla «Grande Germania».
L’idea era sorta già ai tempi di Bismarck, ma non era stata mai realizzata. Dopo la Prima Guerra Mondiale, con la stipula del Trattato di Versailles del 18 gennaio 1919 e con quella del Trattato di Saint Germain en Laye del 10 settembre 1919, l’unione dell’Austria alla Germania fu espressamente vietata. Con specifico riferimento all’Austria, il 20 maggio del 1925, Benito Mussolini aveva esposto la linea politica italiana in un discorso tenuto al Senato: «L’Italia non potrebbe mai tollerare quella patente violazione dei trattati che consisterebbe nell’annessione dell’Austria alla Germania. La quale annessione, a mio avviso, frustrerebbe la vittoria italiana, aumenterebbe la potenza demografica e territoriale della Germania e darebbe questa situazione di paradosso: l’unica Nazione ad aumentare i suoi territori e la sua popolazione, facendo di se il blocco più potente nell’Europa centrale, sarebbe precisamente la Germania«.
Quando il nazionalsocialismo tedesco fece apparire evidente il pericolo che il divieto imposto all’Anschluss potesse essere ignorato, fece la sua apparizione, con metodi di governo radicali, la meteora austriaca Engelbert Dollfuss. Il servizio che egli cercò di rendere all’Occidente consisteva nel tentativo di incanalare verso sbocchi di piccolo patriottismo locale il fino allora dominante pangermanesimo del popolo viennese. Dollfuss mostrò di orientarsi verso soluzioni di tipo autoritario e corporativo ed esibì i suoi ottimi rapporti con Mussolini e col Vaticano per ingraziarsi gli elementi conservatori, i gruppi dei combattenti e le forze sinceramente anti-democratiche del suo Paese. I nazionalsocialisti esigettero, però, di sottoporre il suo «patriottismo» alla cartina di tornasole dell’Anschluss: non esisteva infatti in Austria altro sentimento patriottico che non fosse quello tedesco. Dollfuss non superò l’esame. Il partito nazionalsocialista fu messo allora fuori legge. Ma la strategia di Dollfuss fu decisamente più vasta: seguirono, infatti, provvedimenti come la chiusura del Parlamento, la revoca della Costituzione e la soppressione dei restanti partiti democratici. Pochi mesi prima di perdere la vita in un tentativo di sollevazione nazionale, nel febbraio del 1934, Dollfuss impiegò addirittura l’esercito e l’artiglieria per stanare i rivoltosi lavoratori viennesi arroccati nei loro quartieri.
Questo era il bastione che le democrazie occidentali opponevano al nazionalsocialismo. Un uomo i cui emissari accettavano prestiti internazionali condizionati dalla rinnovata rinuncia all’Anschluss, un uomo che concordava con lo straniero le strategie da opporre alla dichiarata volontà dell’opinione pubblica del proprio Paese, quella di essere inglobati nel grande Reich tedesco. Alla lunga i suoi tentativi erano destinati a fallire. Era logico che la prima creatura di Versailles prossima a dissolversi fosse proprio l’Austria, in quanto in essa non vi era alcuna forza autenticamente popolare che ne desiderasse un’esistenza indipendente. I governi austriaci che avevano dovuto piegarsi al volere dei vincitori e al divieto dell’Anschluss, non potevano godere, proprio per questo motivo, di alcun sostegno popolare.
Dollfuss morì assassinato a Vienna il 25 luglio 1934. Il 12 febbraio del 1938 Hitler invitò il cancelliere austriaco Kurt von Schuschnigg al suo rifugio di montagna di Berchtesgaden, a sud-est di Monaco. Lì lo sottopose ad una diatriba di due ore, avanzando le sue pretese che nel governo austriaco venisse incluso un gruppo di nazisti e che tutti i suoi epigoni fossero rilasciati dalle carceri in cui erano stati rinchiusi. Poi presentò un ultimatum: Schuschnigg doveva firmare un accordo, che era già stato redatto, con il quale si accettavano le richieste di Hitler. Se non avesse firmato, la questione sarebbe stata risolta con la forza. Hitler disse: «Rifletteteci, Herr Schuschnigg, rifletteteci bene, Aspetterò solo fino a oggi pomeriggio. E farete meglio a prendere le mie parole per buone. Non ho l’abitudine di bluffare e il mio passato lo dimostra«. Dopo averci riflettuto, l’intimidito Schuschnigg firmò. Tuttavia, tornato a Vienna, il suo coraggio si risvegliò e indisse un plebiscito popolare per stabilire se, o meno, l’Austria dovesse restare indipendente. Fuori di sé, Hitler gli intimò di revocare subito il plebiscito, pena l’invasione. Schuschnigg capitolò e poi si dimise. Il suo successore provvisorio il Ministro degli Interni Arthur Seyss-Inquart, informatore nazista alle dipendenze di Berlino, prontamente sollecitò l’invasione tedesca per «ripristinare l’ordine«. Prima di agire, però, Hitler si preoccupò di chiarire la sua decisione con Mussolini che nulla eccepì al riguardo.
Mussolini non era più l’uomo del 1934, colui che aveva garantito l’indipendenza austriaca quando sentendo Hitler parlare di Anschluss, mobilitò quattro divisioni e le inviò immediatamente al confine del Brennero; messaggio chiaro e forte che Hitler comprese perfettamente. A differenza di quanto accadde nel 1934, questa volta Benito Mussolini non intervenne in aiuto dell’Austria. Erano accadute molte cose nel frattempo. Il Duce nel 1935 si era impegnato nella guerra d’Etiopia e successivamente in quella civile Spagnola, inimicandosi Francia e la Gran Bretagna e trovandosi così costretto, suo malgrado, ad avvicinarsi al Führer. Ma soprattutto Hitler non era più quello di allora, il quale colse l’occasione al volo per annettersi l’Austria, la quale divenne una provincia tedesca, con il nazista Arthur Seyss-Inquart nominato come Governatore.
Sotto un cielo primaverile sereno, la Germania invase l’Austria. Il 12 marzo 1938 la Wehrmacht attraversò la frontiera tra i due paesi. Il giorno dopo, 13 marzo 1938, l’annessione divenne ufficiale e la bandiera con la svastica sventolò su Vienna. Hitler cancellò una Nazione e portò i confini della grande Germania al Brennero.
L’austriaco nato a Braunau, cioè Hitler, fece ritorno nel suo Paese da trionfatore, fra incredibili manifestazioni di gioia della popolazione austriaca. I gerarchi nazisti, stupiti, chiamarono l’annessione la «guerra dei fiori«.
L’esercito austriaco non oppose alcuna resistenza e il 15 marzo 1938, trecentomila viennesi inneggiarono ad Hitler durante la grande parata. Hitler durante il suo discorso sulla Piazza degli Eroi dichiarò: «Non sono venuto come un tiranno, ma come un liberatore«. La popolazione viennese era elettrizzata, era schierata dalla sua parte e non percepiva affatto quanto lui fosse pericoloso che avrebbe portato il Reich alla disfatta.
La macchina propagandistica a favore dell’Anschluss fu mastodontica. Manifesti, bandiere e striscioni in tutta l’Austria: 200.000 ritratti di Hitler soltanto a Vienna. Martellante la propaganda per il sì sui giornali e la radio (la televisione non c’era ancora): quella per il no non era formalmente proibita, ma semplicemente non aveva spazio sui media. Persino il timbro postale in quei giorni riportava la frase: «Il 10 aprile il tuo sì al Führer«. Nelle dichiarazioni di voto brillò particolarmente la gerarchia cattolica. Il cardinale Theodor Innitzer si dichiarò pubblicamente a favore dell’annessione e siglò una dichiarazione dei vescovi austriaci con il motto «Heil Hitler«. La cosa più tragicamente comica fu la scheda elettorale. Il testo dava del «tu» all’elettore e combinava due quesiti in uno: «Sei d’accordo con la riunificazione dell’Austria con il Reich tedesco avvenuta il 13 marzo 1938 e voti per la lista del nostro Führer Adolf Hitler?«. La casella del sì era centrale ed enorme, quella del no era situata in basso a destra ed era ben più piccola.
La Piazza degli Eroi (Heldenplatz) fu il simbolo dell’Anschluss. Fu su questa vasta spianata di fronte alla Hofburg, il palazzo imperiale ora sede della presidenza della Repubblica, che Adolf Hitler pronunciò uno storico discorso dopo essere stato acclamato da una folla di 200 mila persone: «In qualità di Führer e Cancelliere della Nazione tedesca e del Reich, annuncio davanti alla storia l’entrata della mia Patria nel Reich tedesco«.
La fine della Repubblica austriaca fu accolta dalla popolazione come il felice risveglio da un incubo. Con un plebiscito, il 10 aprile 1938, il 99,75 per cento degli austriaci approvarono l’Anschluss. Il popolo austriaco ebbe così per la prima volta, dopo la sconfitta del 1918, l’opportunità di esprimere liberamente il proprio parere pro berlinese. Bisogna però precisare che circa 200.000 ebrei, 177.000 persone «di sangue misto» e tutti coloro che erano stati incarcerati per motivi politici o razziali furono privati del diritto di voto. Schuschnigg fu mandato, per punizione, in un campo di concentramento. La scelta, nell’Austria d’allora, non fu tra il nazismo e la democrazia, ma tra le prospettive pantedesche della politica di Hitler e un regime autoritario, bigotto, attratto da segrete nostalgie asburgiche e sotto l’influenza dell’Italia di Mussolini.
Il 1938 dovrà essere per sempre ricordato con rabbia, con il rimpianto delle occasioni perdute. Fu l’anno di Monaco, della grande rassegnazione che in modo ipocrita fu battezzata «appeasement», ma che non fu altro che una serie di concessioni ed elargizioni ad Hitler nel tentativo di indirizzare verso est, cioè verso l’Unione Sovietica, la sua politica di aggressione. Questa ipocrisia fu condita dall’acquiescenza italiana e dalla passività franco-britannica.
Dopo aver accettato passivamente l’annessione dell’Austria alla Germania, Mussolini s’impegnò con l’Inghilterra a ritirare ufficialmente le truppe fasciste dalla Spagna (che erano giunte a 50.000 unità) e gli inglesi riconobbero all’Italia la definitiva annessione dell’Etiopia. Lo stesso atteggiamento assunse la Francia. Inspiegabilmente davanti ai fatti austriaci che sancirono la preoccupante volontà espansionista di Hitler, Francia e Gran Bretagna si trovarono sulle stesse posizioni di Mussolini. Risultato: le due potenze desiderose di indirizzare l’espansionismo tedesco verso l’Unione Sovietica, assecondarono tutte le velleità del Führer, il quale naturalmente dopo l’Austria pensava già ad altro: all’incorporazione della Cecoslovacchia. Francesi e britannici fecero finta di mostrarsi preoccupati. I britannici mobilitarono la loro flotta. I leader franco-britannici mostravano talvolta una crisi di nervi ed in altri casi grande arroganza, ma non era nient’altro che un ipocrita atteggiamento davanti alle loro perplesse opinioni pubbliche.
Si legge nel Diario di Ciano: «Quando Hitler aveva occupato l’Austria, ne aveva dato comunicazione a Mussolini soltanto a cose fatte. Un sistema che poi avrebbe adottato per tutte le sue altre imprese. L’ingordigia di Hitler non aveva più freni. Il 15 marzo del 1939 ingoiò sotto diverse forme tutta la Cecoslovacchia. Il 7 maggio l’Italia e la Germania firmavano il Patto d’Acciaio, una vera e propria bomba a orologeria con la miccia all’articolo tre: «Se malgrado i desideri e le speranze delle parti contraenti dovesse accadere che una di esse venisse impegnata in complicazioni belliche con un’altra o altre potenze, l’altra parte contraente si porrà immediatamente come alleato al suo fianco e la sosterrà con tutte le sue forze militari per terra, per mare e nell’aria»«.
Mussolini mandò giù il rospo e disse a Ciano: «Dalla carta geografica d’Europa è stata eliminata un’ambiguità. Quando un evento è fatale deve verificarsi, ed è meglio che si verifichi con te o senza di te, piuttosto che contro di te«.
La Germania incorporò senza sparare un solo colpo d’arma da fuoco ben sette milioni di uomini. Gli oppositori furono immediatamente resi innocui: settantamila austriaci furono arrestati in pochi giorni e fra gli ebrei austriaci serpeggiò, il brivido del suicidio. Dopo essere entrato a Vienna, il primo pensiero del Führer fu quello di andare a scovare i suoi ex professori. Tutti coloro che lo avevano bollato agli studi dell’Accademia, dandogli del «mediocre», o quelli che l’avevano volgarmente disprezzato e trattato come un pezzente. Furono ostracizzati persino i singoli negozianti che gli avevano rifiutato un posto di lavoro. Fece loro intorno terra bruciata e li osteggiò affinché perdessero l’impiego ed anche la casa. Di alcuni non si seppe mai che fine abbiano realmente fatto. La diaspora si sparse nel mondo, subito, prima che fosse troppo tardi. Il Paese spalancò le porte ad Hitler ma le sue risorse umane migliori se ne andarono, come dimostrano le partenze di Sigmund Freud, Karl Popper, Arnold Schoenberg, Fritz Lang, Otto Preminge.
La politica estera di Hitler continuò indisturbata secondo i suoi piani. Il Führer, senza alcun pudore da parte della Francia e della Gran Bretagna, strappò una a una come a un carciofo le foglie dell’Europa. Così, dopo l’Austria, toccò alla Cecoslovacchia e nell’estate del 1939 la parola Danzica rimbalzò di bocca in bocca in tutta Europa. E Hitler, invadendo la Polonia, innescò la miccia che fece bruciare il mondo.
Luca D’Agostini
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