Nessuna fonte contemporanea di Annibale è giunta fino a noi. Tutte le cronache, i documenti e le fonti cartaginesi sono scomparse con la distruzione di Cartagine. Tutto ciò che sappiamo su Annibale ci viene da un solo storico dell’antichità: Polibio. Senza gli scritti dello storico greco, il nome di Annibale probabilmente sarebbe sparito insieme a Cartagine. Polibio per ricostruirne la storia, la personalità e le vicende che videro Annibale protagonista, incontrò coloro che l’avevano conosciuto, ripercorrendo il suo itinerario in Italia attraverso le Alpi. Polibio mostrò un approccio molto moderno, basato sulla ricerca, per questo la sua ricostruzione di Annibale è sicuramente il resoconto più attendibile a nostra disposizione. Polibio scrisse: «Gli eventi cui andarono incontro entrambi i popoli, romani e cartaginesi, furono determinati da una sola forza, da una sola mente, da un solo uomo: sto parlando di Annibale«.
Il condottiero cartaginese Annibale, famoso per le sue vittorie durante la Seconda Guerra Punica e definito dallo storico tedesco Theodor Mommsen «il più grande generale dell’antichità«, fu chiamato dagli storici romani Annibale Barca.
Noi in questo articolo continueremo a chiamarlo Annibale Barca, ma prima di procedere con la descrizione della sua storia, è utile soffermarci sull’analisi del suo nominativo. Nella lingua fenicia, quella parlata a Cartagine, il nome era Hanniba’al, che significa «dono di Ba’al», e Ba’al era il dio supremo dei Fenici. Il padre di Annibale si chiamava Amilcare, un condottiero cartaginese che durante la Prima Guerra Punica si era guadagnato l’appellativo di «Barak«, che in lingua fenicia significa «fulmine». Fu così che il nome Hanniba’al Barak, nei racconti degli storici antichi divenne Annibale Barca.
Prima di riuscire a espandere il suo immenso dominio in gran parte del Mediterraneo, Roma dovette combattere contro nemici molto agguerriti, uno dei quali era Cartagine, un antico regno che aveva il suo centro nella zona dove oggi si trova la Tunisia. I Cartaginesi erano una popolazione mediterranea che non era ancora entrata in contatto con il mondo arabo-persiano.
Annibale nacque a Cartagine nel 247 a. C. e quindi aveva 9 anni quando i Cartaginesi persero la prima cruenta guerra contro Roma. Assistette alla crocifissione dei condottieri sconfitti e quella visione lo impressionò notevolmente.
Annibale apparteneva alla famiglia Barca («Barak»), una famiglia che fornì a Cartagine uomini dell’élite militare, ma che al contempo occupava anche un ruolo scomodo nella società cartaginese. I Barca infatti erano dei grandi guerrieri all’interno di una società che non prediligeva le arti militari. I Cartaginesi eccellevano nel commercio e nei traffici marittimi. Ciò emarginò i Barca dal potere.
Il padre di Annibale, Amilcare Barca era il miglior generale di Cartagine, una ricca città di mare con una storia antica e gloriosa, che aveva dominato le rotte commerciali del Mediterraneo occidentale finché non entrò in collisione con la crescente potenza romana. I Romani conquistarono la penisola italiana arrivando a lambire Cartagine e le coste del Nord Africa. Poi 13 anni prima della nascita di Annibale, Roma invase la Sicilia, all’epoca colonia cartaginese. Amilcare Barca guidò l’esercito di Cartagine nella Prima Guerra Punica, perse migliaia di uomini ma non fu mai sconfitto in battaglia. All’improvviso però Cartagine si arrese. Amilcare si sentì tradito dalla sua patria, ma riservò il grosso del suo rancore ai Romani, i nemici di tutta una vita.
Nessuno come Amilcare sapeva che con Roma ogni coesistenza era impossibile. A differenza dell’aristocrazia cartaginese gli era chiaro che Roma desiderava espandere Il suo dominio sull’intero Mediterraneo e che ciò avrebbe condotto alla fine di Cartagine. Intendeva fare di tutto per evitarlo e così anche senza il consenso dei governanti cartaginesi si adoperò per formare un nuovo esercito con il quale combattere contro Roma. Ma per assemblare il suo esercito, Amilcare aveva bisogno di farlo lontano dalla città di Cartagine e dagli ostacoli imposti dai suoi governanti, i quali non apprezzavano la sua iniziativa. Prima di partire, Amilcare offrì sacrifici agli dei per ottenerne il favore. Subito dopo decise di trasferirsi in Spagna portando con se Annibale, il suo primogenito. Amilcare chiese al figlio di giurare solennemente odio eterno a Roma. Con questo semplice giuramento, Annibale si allineò alla tradizione della sua famiglia. La guerra ai Romani, il giuramento di odio a Roma, risuonarono in seguito costantemente nella mente e nella sua anima: divennero la sua ragione di vita.
I Barca arrivarono in Spagna con i loro mercenari africani. Fondarono una nuova città e la chiamarono Nuova Cartagine, l’odierna Cartagena, dove Annibale si preparò alla guerra contro Roma. Seguì attentamente il padre mentre radunava un esercito che un giorno sarebbe spettato a lui guidare.
Intanto a Roma le spie informarono il Senato del crescente potere dei Barca in Spagna. Roma non restò a guardare e affidò il compito di contrastare i Cartaginesi a una famiglia potente e ambiziosa che diverrà la nemesi dei Barca: gli Scipioni. Annibale se li trovò di fronte per tutta la vita. Non c’era posto per due grandi imperi nel Mediterraneo, eppure la guerra tra Roma e Cartagine si può ridurre allo scontro tra due famiglie: i Barca contro gli Scipioni.
In Spagna i Barca si prepararono all’inevitabile conflitto. Padre e figlio crearono il primo esercito per la guerra di movimento, un concetto in anticipo sui tempi. I Barca spiccavano per un approccio razionale alla guerra, erano tutt’altro che bruti, le loro tattiche erano sempre originali ed ambiziose. Erano degli abili strateghi. L’arte della guerra fu l’unica educazione che ricevette Annibale, il giovanissimo ragazzo crebbe solo con il padre il quale gli impartì esclusivamente insegnamenti militari. Annibale imparò anche ad usare l’arma più potente e suggestiva di Cartagine: gli elefanti da battaglia. Provenivano dall’Africa centrale e dall’India, e costituivano una presenza costante nelle guerre cartaginesi. Erano addestrati per travolgere la fanteria e spiazzare la cavalleria, la loro vista e il loro odore terrorizzavano i cavalli. Un’arma suggestiva ma molto difficile da controllare e che si poteva ritorcere contro. Gli elefanti infatti erano efficaci in battaglia solo se erano perfettamente addestrati, in quanto il loro istinto non li avrebbe portati a lanciarsi al centro della battaglia, tra i dardi che li bersagliavano e il caos di colori, forme e rumori che provenivano dagli scontri. Poteva accadere che gli elefanti si spaventassero, e un elefante in preda al panico avrebbe potuto calpestare anche i soldati del proprio schieramento. Nonostante i rischi però, i Barca non rinunciarono a quest’arma psicologica, simbolo della potenza di Cartagine. L’elefante incarnava una forza, un potere, una dignità quasi assoluti. Agli occhi dei Cartaginesi era un simbolo di straordinaria potenza, rappresentava tutto ciò che rendeva unica Cartagine. Annibale quindi cresce con un unico obiettivo, aiutare il padre a vendicare Cartagine, ma Amilcare non gustò mai il sapore della vendetta e Annibale dovette combattere i Romani da solo.
Infatti, prima che tornasse a combattere contro Roma, Amilcare Barca morì combattendo contro tribù ribelli iberiche. Annibale doveva però tenere fede al suo giuramento e rispettare la volontà del padre, tanto da farne un’ossessione per il resto della sua vita.
Presto Annibale mantenne la sua promessa. Raggiunta la maggiore età, assunse il comando dell’esercito dei Barca, composto per lo più da mercenari, e lo guidò contro Roma.
Annibale intendeva colpire al cuore la Repubblica romana e il suo potere. Per realizzare quest’obiettivo era necessario portare la guerra sul suolo italico e sconfiggere i Romani non sulle coste della Sicilia, ma «sull’uscio di casa».
A Roma nel frattempo cresceva la preoccupazione di Scipione e del Senato per le manovre di Annibale in Spagna. Fu deciso così di ricordargli la potenza di Roma stringendo un’alleanza con una città iberica nel suo territorio: Sagunto. La provocazione di Roma era chiara e rappresentava un’ingerenza nella zona di influenza di Annibale. Ma i Romani avevano provocato l’uomo sbagliato al momento sbagliato. Infatti Annibale ordinò al suo esercito di assediare Sagunto. Sorpresi dal suo sangue freddo, i Romani gli inviarono un’ultima offerta: se non si fosse ritirato vi sarebbe stata la guerra.
Nonostante i moniti di Roma, Annibale non si ritirò e anzi attaccò Sagunto. Le sue vittime non erano ancora romane, ma faceva poca differenza, la guerra di Annibale contro Roma era iniziata.
Roma non poteva accettare un simile affronto e stava analizzando come preparare una risposta. La vittoria di Sagunto segnò il destino di Annibale, da quel momento la guerra divenne inevitabile ma al contempo, per Annibale, Sagunto era solo l’inizio, ormai la Spagna gli stava stretta e voleva prendere la città di Roma. Gli occorreva solo l’appoggio ufficiale della sua patria. Sfidando la potenza romana, Annibale pose Cartagine di fronte ad un drammatico dilemma. I governanti cartaginesi ricevettero un emissario di Roma. I cartaginesi odiavano i Romani ma ne temono la potenza militare. L’ambasciatore romano giunse a Cartagine e minacciò la guerra. Davanti al consiglio cartaginese, l’emissario romano attaccò a testa bassa, fu perentorio e non lasciò spazio a trattative. L’opzione era chiara: Annibale doveva essere consegnato vivo ai Romani, altrimenti vi sarebbe stata di nuovo guerra. I Cartaginesi fecero presente che Annibale era andato via da Cartagine quando aveva 9 anni, che aveva costruito un esercito di mercenari sul quale loro non avevano alcuna influenza, così come non l’avevano nei confronti di Annibale stesso che ormai a Cartagine era uno sconosciuto. La popolazione non sapeva chi era, per chi combattesse, che obiettivi avesse. L’ambasciatore romano interruppe bruscamente i governanti cartaginesi che gli stavano prospettando tali impedimenti. Ripeté con tono ancora più perentorio: «Annibale o la guerra!«. Il portavoce del consiglio cartaginese si alzò e disse: «Scegli tu!», ben sapendo che in un modo o nell’altro i Romani avrebbero comunque dichiarato guerra a Cartagine.
Annibale comprese e si rammaricò che Cartagine non lo sostenne con aiuti e forniture militari. Doveva agire da solo e realizzò un piano, attaccare Roma prendendola di sorpresa, attraverso l’unico confine da cui i Romani non si aspettavano un attacco: le Alpi. Queste montagne costituiscono la più alta catena montuosa d’Europa, ma per Annibale era questa la via che portava sul suolo italico. Attraversarle con un esercito esponeva ad enormi pericoli, ma per Roma lo smacco sarebbe stato tremendo e Annibale decise di rischiare. Per rendere il suo attacco a sorpresa ancora più devastante, Annibale decise di portare oltre le Alpi anche i suoi elefanti da battaglia.
Ignari del piano di Annibale, i Romani si prepararono a scatenare la loro macchina bellica contro di lui. Il Senato scelse il comandante di questa armata: Publio Cornelio Scipione. Gli fu affidato l’incarico di portare l’esercito romano in Spagna per schiacciare Annibale. Roma intendeva risolvere il problema nel modo più diretto, vincendo la guerra con rapidità ed efficacia colpendo il nemico nella sua roccaforte e costringendolo ad arrendersi. Ma Annibale aveva già preceduto la strategia del Senato romano e fu lui a portare il suo esercito sul suolo italico.
Annibale si preparò a lasciare Nuova Cartagine (l’odierna Cartagena). Ordinò di effettuare i preparativi per la spedizione militare, facendo scorta di calzature e abbigliamenti pesanti, di ingenti provviste alimentari. Mentre si svolgevano i preparativi, i suoi emissari lo informarono della minaccia di tribù ostili lungo il percorso e così Annibale pianificò tutto nei minimi dettagli.
Annibale lasciò la Spagna nella primavera del 218 a.C. Il suo esercito avanzò rapidamente, aprendosi la strada nei Pirenei e nel sud della Gallia. In soli quattro mesi giunse ai piedi delle Alpi. Al di là di quelle montagne c’era l’oggetto di un’ossessione che durava da una vita: Roma. La città che aveva umiliato suo padre, umiliato Cartagine, umiliato la famiglia Barca.
Annibale iniziò la sua marcia alla fine d’ottobre, il periodo peggiore per valicare le Alpi. La neve aveva già reso i passi insidiosi, tormente e valanghe potevano trasformare la traversata in un inferno. Ma Annibale rifiutò i consigli dei suoi più stretti collaboratori di attendere la primavera, non voleva perdere l’occasione di sorprendere i Romani. Ma l’attraversamento delle Alpi si rivelò una delle marce più drammatiche della storia. Il suo esercito pagò un prezzo terribile.
La marcia di Annibale tra le Alpi procedette tra insidie crescenti. Nessuno aveva mai osato attraversare queste montagne con truppe ed elefanti al seguito. Annibale era un invasore in un territorio ostile, pieno di pericoli. Il freddo aumentava sempre più, il vento rendeva difficoltoso il cammino, alcuni elefanti precipitavano nei burroni, gli uomini morivano per congelamento, la fame divenne sempre meno sopportabile, il morale era divenuto il punto debole dell’armata cartaginese. Annibale non era sicuro di quale fosse la strada migliore e più di una volta l’esercito dovette tornare sui suoi passi. Furono assoldate guide presso le tribù dei Galli che vivono tra le montagne. Annibale non sarebbe mai riuscito ad attraversare le Alpi senza la guida dei Galli, senza la loro conoscenza dei passi e dei valichi più sicuri. Con alcune tribù dei Galli riuscì a scendere a patti facilmente, con altre no e furono necessari combattimenti in mezzo alle montagne per riuscire a proseguire il suo cammino.
Intanto a Roma i senatori attendevano che Scipione raggiungesse e distruggesse Annibale in Spagna, ma gli eventi presero una piega inattesa. Mentre navigava verso la Spagna con la sua flotta, Scipione apprese che Annibale si era diretto verso le Alpi per giungere sul suolo italico. Desideroso di coprirsi di gloria, Scipione ignorò gli ordini del Senato e invertì la rotta. Intendeva precedere Annibale ed arrivare in territorio italico prima di lui.

Publio Cornelio Scipione
Intanto decimata e allo strenuo delle forze l’armata cartaginese riuscì a valicare le Alpi e giunse nel nord della penisola italiana. L’esercito di Annibale contava 46 mila uomini prima di attraversare le Alpi, dopo la traversata, ne contava 26 mila. Ciò significava che 20 mila uomini erano morti durante la traversata delle montagne. Comunque, avendola condotta al di là delle Alpi, Annibale si dimostrò un condottiero eccezionale e determinato. La scelta poi di portare gli elefanti sarebbe già sufficiente per fare di lui una leggenda.
Quando le avanguardie romane videro con i loro occhi quelle migliaia di soldati e gli elefanti al seguito, avvertirono i loro comandanti ma non furono creduti.
Annibale, giunto in pianura divenne ansioso di affrontare i primi soldati Romani: non dovette attendere a lungo! Poche settimane dopo aver raggiunto l’Italia settentrionale, incrociò la cavalleria romana presso il fiume Ticino. La comandava Scipione, tornato per essere il primo a sbarrare la strada ad Annibale.
Gli uomini di Annibale erano preparati ad una guerra di movimento e girarono intorno ai Romani cogliendoli di sorpresa. Gravemente ferito, Scipione non ottenne la vittoria che si aspettava, ma un giorno suo figlio, Scipione l’Africano lo vendicherà. Il figlio di Scipione presente durante questi combattimenti, ricordò la Battaglia del Ticino come un chiaro monito, per la prima volta fu testimone dell’efficacia della strategia di Annibale.
Annibale, insieme con suo fratello Magone, festeggiò la sua prima vittoria sul territorio del nemico. Lasciò che l’eco della vittoria si diffondesse per sfruttarne l’effetto psicologico. Infatti in poco tempo, la notizia della sconfitta dei soldati romani si diffuse e Roma fu presa dal panico.
Inoltre, il trionfo nella Battaglia del Ticino ebbe un effetto immediato. Di notte, nel campo di Scipione, i coscritti Galli tagliarono la gola alle sentinelle romane e fuggirono. I Galli odiavano i Romani che avevano conquistato le loro terre e dopo la Battaglia del Ticino si ribellarono e si allearono con Annibale. In lui vedevano l’uomo capace di sfidare i Romani e sconfiggerli.
Annibale era sul suolo italico da meno di un mese e già la potenza di Roma vacillava. Il nord della penisola, con le sue piccole città-stato era già nelle mani di Annibale, il quale con i nuovi alleati marciò verso sud distruggendo legioni e terrorizzando i popoli che restarono fedeli a Roma.
I Romani fecero di tutto per fermarlo, come schierare un numero sempre maggiore di legionari. Erano così sicuri di vincere che gli ufficiali portavano con loro già le catene per catturarlo vivo. Non avevano idea di cosa li attendesse.
In termini molto semplici ma chiarificativi, la differenza tra la tattica militare cartaginese e quella romana si può descrivere in questo modo: i Cartaginesi volavano come farfalle e pungevano come api, i Romani invece sapevano solo picchiare duro e continuavano a farlo testardamente, sperando che prima o poi riuscissero ad infliggere il colpo definitivo.
Ma per Annibale non giunsero sono solo buone notizie. In pochi giorni morirono tutti i suoi elefanti. Annibale però dimostrò di saper tenere testa alle legioni romane anche senza gli elefanti. Infatti fece cadere in una trappola un’intera armata presso il Lago Trasimeno. Alla fine i Romani contarono 30 mila caduti.
La pressione su Roma cominciò ad aumentare, da quando era arrivato, Annibale aveva inflitto migliaia di morti ai Romani e agli italici. Il suo esercito aveva realizzato imprese impensabili, ma aveva capito che era giunto il momento di spingersi oltre.
Nonostante le ripetute sconfitte, i Romani finsero di non accusare le vittorie di Annibale. Il Senato radunò il più grande esercito nella storia romana, affinché Annibale fosse sconfitto con sicurezza. Publio Cornelio Scipione aveva già affrontato l’esercito di Annibale, fu ferito gravemente ma era sopravvissuto ed era pronto a fronteggiarlo nuovamente, in uno dei più grandi scontri di tutti i tempi: la Battaglia di Canne.
I Romani avevano seguito attoniti l’avanzata di Annibale lungo l’Italia e il suo tentativo di isolare Roma, ma nella primavera del 216 a. C., Annibale decise a sorpresa di non attaccare Roma e si diresse verso Canne, in Puglia. Lì si impadronì dei granai dell’esercito romano, tagliandola la via dei rifornimenti da sud.
Spronati dalla minaccia della fame, i Romani arrivarono in massa per schiacciarlo. Annibale aveva ben chiara la situazione. Roma stava giocando il tutto per tutto per eliminarlo e ancora una volta, puntò a farlo con la solita tattica: per pura superiorità numerica. Le legioni romane marciarono senza sosta verso Canne. Alla fine i Cartaginesi si trovarono davanti 86 mila uomini. La notte prima della battaglia, nel campo di Annibale l’atmosfera era tesa, i soldati si aspettavano di sapere da lui come pensava di vincere quella sfida impossibile contro un enorme esercito. Nella sua tenda Annibale stilò il piano, sentendosi sicuro di vincere nonostante la superiorità numerica romana. Annibale confidava di vincere tramite la sua tattica superiore, intuiva che i Romani avrebbero tentato un attacco frontale avanzando senza preoccuparsi di esporre i fianchi dello schieramento. Annibale sapeva che i Romani contavano sulla forza delle loro legioni e sulla pressione che esercitavano sul centro dello schieramento avversario. Decise quindi di sfruttare la forza d’urto delle legioni per metterle in trappola. Convocò i suoi ufficiali nella sua tenda e spiegò loro la tattica che avrebbero adottato in battaglia. Quando i Romani avrebbero iniziato ad avanzare, loro sarebbero pian piano arretrati ed assicurò alle sue truppe che lui stesso avrebbe combattuto in prima linea controllando la ritirata. Il piano di Annibale prevedeva che durante la ritirata della sua prima linea, le truppe schierate sulle ali si allargassero fino a quando i Romani non fossero stati completamente circondati.
Annibale era convinto della vittoria e che dopo questa disfatta, i Romani gli avrebbero chiesto di trattare la pace e che lui sarebbe stato in grado a quel punto di imporre le sue condizioni.
Il mattino seguente l’esercito Romano marciò sul campo di battaglia. Né Annibale, né i suoi uomini e neanche i Romani, avevano mai visto tanti soldati tutti insieme. Come previsto da Annibale, i Romani si disposero in un unico fronte compatto che si estendeva per oltre un chilometro.
Sul campo di battaglia c’era anche Publio Cornelio Scipione l’Africano, figlio di Publio Cornelio Scipione. Publio Cornelio Scipione l’Africano era divenuto ufficiale, un giorno avrebbe segnato il destino di Annibale, ma a Canne era ancora un giovane inesperto.
Nei secoli a venire i generali hanno studiato l’accorta disposizione delle truppe di Annibale di fronte alla fanteria romana. Annibale schierò in prima linea i suoi alleati Iberici ed i Galli; una linea di pochi uomini che aveva l’incarico di parare l’urto dell’attacco romano. La cavalleria era schierata su entrambi i fianchi. Circostanza insolita, Annibale tenne in riserva, in posizione arretrata, i mercenari africani, i suoi veterani. Annibale combatté in prima linea al fianco di Iberici e Galli, rischiando personalmente la vita, ma la sua sola presenza motivò gli uomini a resistere. L’autorità di Annibale nasceva dall’esempio, era un Barca, era l’erede di Amilcare, non poteva starsene su una collinetta in groppa a un cavallo a guardare i suoi che combattevano. Annibale era al centro della mischia a combattere ed esponeva se stesso ad enormi rischi, come l’ultimo dei soldati semplici.
Le legioni romane si lanciarono all’attacco frontale, credevano di aver già vinto ed invece stavano realizzando proprio ciò che Annibale desiderava. Mentre Annibale teneva impegnate le legioni romane, la cavalleria cartaginese aggirò quella romana spingendola lontana dalla mischia. A quel punto Annibale fece scattare la sua trappola. Ordinò alla riserva formata dai terribili mercenari africani di attaccare i fianchi indifesi dello schieramento romano. Improvvisamente i Romani si trovarono attaccati da ogni direzione e non riuscirono a riorganizzarsi. La fanteria romana era completamente accerchiata. Migliaia di Romani furono uccisi in combattimenti corpo a corpo. La battaglia divenne luogo di un lento massacro di inaudita violenza. Publio Cornelio Scipione riuscì a fuggire, ma 50 mila soldati romani non vi riuscirono. Annibale concluse la battaglia massacrando i nemici uno ad uno, ogni soldato romano ferito fu immediatamente ucciso. Nessuno dei 50 mila soldati romani sopravvisse.
Fu la peggiore sconfitta nella storia di Roma. Un bagno di sangue di proporzioni immense, la più grande vittoria di Annibale, il quale finita la battaglia diede ordine di estrarre dalle dita dei soldati romani patrizi, i loro anelli d’oro. Dovevano costituire la prova del suo trionfo, per fugare ogni dubbio di fronte ai governanti di Cartagine.
Dopo Canne, la realizzazione del sogno di Annibale sembrava solo una questione di tempo. A Roma il massacro lasciò il segno per decenni. I Cartaginesi avevano ucciso decine di migliaia di Romani, la linea maschile di innumerevoli famiglie era stata cancellata. Tutti in città tremavano nell’ascoltare il nome di Annibale ed in molti si aspettavano Roma fosse attaccata e saccheggiata. Ma non sapevano che il condottiero cartaginese non era in grado di farlo, il suo esercito era forte ma era troppo ridotto. Era stato concepito per rapire vittorie sul campo di battaglia, non per lunghi assedi.
Per questo motivo, Annibale aveva bisogno di uomini e usando gli anelli d’oro dei caduti romani di Canne come prova della sua vittoria, inviò suo fratello Magone a Cartagine, chiedendo rinforzi. Allo stesso tempo inviò un emissario al Senato di Roma per proporre una resa che ponesse fine alle pesanti sconfitte romane. Ma con sorpresa di Annibale, i Romani cacciarono il suo emissario senza neanche incontrarlo.
Annibale nel frattempo continuava a cercare alleati tra le città-stato del sud Italia, ma soprattutto attendeva con ansia rinforzi da Cartagine. Annibale si aspettava che Cartagine cogliesse l’opportunità di fronte alle attuali difficoltà di Roma. Magone, il fratello di Annibale giunse a Cartagine per chiedere rinforzi. Portò con se un messaggio raccolto sul campo insanguinato di Canne, gli anelli di migliaia di patrizi romani caduti in battaglia. Magone spiegò al consiglio che Annibale era ad un passo da una grande vittoria, ma i governanti cartaginesi temevano le ripercussioni di un’eventuale sconfitta e negarono il loro appoggio. Frustrato dall’indifferenza dei governanti cartaginesi, Magone lasciò Cartagine. Annibale avrebbe dovuto continuare la sua guerra da solo.
Il suo esercito saccheggiò città e villaggi per costringere i Romani ad attaccarlo di nuovo. L’intenzione era quella di attirarli in una nuova battaglia campale. Ma Annibale ignorava che proprio sul campo insanguinato di Canne era iniziata la riscossa di Roma. Il suo simbolo era Publio Cornelio Scipione l’Africano. I Romani sopravvissuti consideravano Annibale imbattibile e si preparavano a fuggire. Scipione li spronò a non disperare, parlò quasi ad ognuno di loro personalmente. Li convinse a resistere, gli ricordò il giuramento di fedeltà a Roma e che non dovranno mai arrendersi. Non ammise mai la sconfitta di fronte ai suoi soldati, ripeteva costantemente il principio: «Roma non può perdere!» Scipione riuscì a rimotivare il suo esercito.
Nessuna potenza del mondo antico avrebbe continuato a combattere dopo simili sconfitte. Tutti si sarebbero arresi, ma per i Romani questa possibilità non era contemplata. Nel momento di massima crisi, il Senato modificò le leggi di Roma; per tradizione i comandanti supremi erano ultra-quarantenni, ma il giovane Scipione l’Africano fu promosso sul campo.

Publio Cornelio Scipione detto l’Africano
Erano anni che Scipione l’Africano seguiva da vicino le imprese di Annibale, era l’uomo giusto per risollevare Roma dalla polvere, ma prima c’è da ricostruire un esercito. Le vecchie regole furono rese più flessibili, l’età per l’arruolamento fu abbassata, agli schiavi che combatteranno fu promessa la libertà, a criminali e debitori l’amnistia, le tasse raddoppiarono per finanziare la guerra, ma nessuno a Roma si lamentò. Nel momento del massimo pericolo i Romani restarono fermi, non vacillarono. Emerse qui una delle qualità più forti di Roma: non erano soltanto i patrizi a voler continuare la lotta, anche i comuni cittadini si arruolarono per combattere. Sentirono che era loro dovere, che la posta in gioco era troppo alta. Il destino della Repubblica costituiva una causa per cui valeva davvero la pena di combattere e morire.
Una buona notizia giunse per Roma: gli alleati restarono fedeli. Le città-stato dell’Italia centro-settentrionale offrirono le loro truppe per le legioni. Preferirono la stabilità romana al caos di Annibale. Roma offriva a questi popoli legge e ordine, li proteggeva, Annibale non offriva nulla di altrettanto tangibile. Sosteneva che voleva liberarli, ma da che cosa? La sua risposta era vaga, «dalla tirannide romana«, «hanno sconfitto mio padre«, «vogliono distruggere Cartagine«. La stragrande maggioranza della gente italica non sapeva neanche dove fosse Cartagine, desideravano solo vivere tranquilli. Gli alleati garantirono a Roma il più grande serbatoio di uomini e mezzi del mondo antico.
Annibale per provocazione continuò a bruciare e distruggere città, ma i Romani non si fecero trascinare in un’altra Canne, avevano imparato dai loro errori non gli fecero questo favore. Annibale era frustrato dalla ferma resistenza romana.
Scipione mise a punto un piano per scacciare Annibale dalla penisola italiana. Egli stesso guidò un esercito in Spagna per distruggere le basi di Annibale, poi invase Cartagine per costringerlo a tornare in Africa. In Spagna, Scipione trasformò le legioni romane in una macchina da guerra molto più agile di quella che aveva affrontato Annibale. Scipione si dimostrò un condottiero carismatico quanto il suo rivale.
Le sue prime vittorie in Spagna segnarono una svolta decisiva per Roma: la nascita di un impero nell’Europa continentale. Nella lotta per sconfiggere Annibale, Roma sviluppò quella forza e quella determinazione con la quale in seguito dominò il mondo. E tutto questo si deve ad Annibale. Paradossalmente, nel tentativo di distruggere Roma, la fece risorgere più forte.
Mentre Scipione combatteva in Spagna, sul suolo italico le legioni romane scacciavano Annibale da una città dopo l’altra. Ma quattro anni dopo Canne, Roma vide materializzarsi il suo incubo: Annibale si era deciso ad assediarla e conquistarla. Per fermare le rappresaglie dei Romani contro i suoi alleati, marciò fino a giungere alle porte di Roma. Ma la reazione dei Romani alla sua mossa, lo colse di sorpresa. Roma questa volta era determinata ad affrontarlo di nuovo. In città non si parlava di resa ma di come difendersi da un assedio. Per mostrare a tutti la determinazione di Roma, il Senato mise all’asta il terreno su cui Annibale si era accampato. Il messaggio era chiaro: Annibale non sarebbe rimasto a lungo ad assediare Roma.
Annibale comprese la determinazione di Roma e dei suoi cittadini, per nulla impauriti dalla sua presenza. I suoi messaggeri lo avvisarono che imponenti legioni si stavano dirigendo a difendere la città. Questa volta aveva con se pochi uomini e non aveva davanti grandi pianure dove mettere in atto le sue strategie militari. Con la città alle spalle e le legioni in arrivo, questa volta ad essere circondato sarebbe spettato a lui. Molto probabilmente le legioni romane non lo avrebbero affrontato in campo aperto come avvenne in precedenza, ma avrebbero rimpinguato il numero delle truppe disponibili per la difesa della città. L’assedio sarebbe divenuto quindi impossibile. La ritirata era l’unica opzione.
Roma si era dimostrata troppo forte. Alla fine Annibale capì che Roma non era solo una città, era un’idea e per questo attaccarla solo sul piano materiale costituiva uno spreco di tempo, risorse ed energie. Anche se fosse riuscito a distruggere la città, Annibale capì che l’idea di Roma avrebbe continuato ad esistere. Così rimosse l’assedio e tornò nel sud della penisola italica. Lì, una delegazione di Cartagine giunse al suo accampamento con terribili notizie: Scipione aveva conquistato la Spagna e invaso il Nord Africa. Ora Cartagine chiedeva ad Annibale di tornare per difenderla.
Annibale avrebbe potuto rispondere negando il suo supporto, alla stessa maniera in cui precedentemente, i governanti di Cartagine gli avevano negato il loro aiuto. Invece Annibale tornò in patria.
Fu così che nel 202 a.C., Annibale lasciò il suolo italico e fece ritorno in Nord Africa. Ciò accadde per la prima volta da quando aveva 9 anni. Mise piede in una terra che considerava la sua patria ma che in realtà non ricordava più. Erano luoghi sconosciuti a lui che visse gran parte della sua vita nella penisola iberica e poi in quella italiana. Il ritorno in Africa aveva il senso della sconfitta, ma Annibale aveva sempre un unico obiettivo, sconfiggere i Romani e fece ritorno in patria esclusivamente per questo motivo.
Annibale non tornò direttamente a Cartagine, non voleva incontrare i suoi governanti; ma nelle terre circostanti vide i segni delle devastazioni portate dal nuovo esercito di Scipione: città e villaggi ridotti in macerie. Temendo che i Romani li distruggessero, i governanti cartaginesi decisero di arrendersi a Scipione, ma appena seppero che Annibale era sbarcato e si trovava nei dintorni della città, cambiarono idea. Desideravano che Annibale combattesse in loro difesa; quella gente che aveva tentennato per tutta la guerra, in quel momento cambiò idea. Sull’orlo della disperazione mostrarono una sicurezza che lo stesso Annibale ritenne infondata. Sapeva di non disporre delle stesse forze di prima, il suo esercito era un’ombra di quello che era, ed i politici cartaginesi non lo entusiasmavano. Annibale si trovava di fronte ad un dilemma: sapeva di non poter affrontare subito Scipione, ma decise di obbedire a Cartagine. Per la prima volta non fu lui a scegliere la tattica della battaglia.
Per la prima volta dopo Canne, Annibale affrontò i Romani in campo aperto, a Zama. Disponeva di un nuovo e numeroso contingente di elefanti, ma questa volta i suoi avversari erano di tutt’altra pasta e li comandava un altro Scipione. Prima dello scontro i due più grandi generali dell’epoca decisero di incontrarsi nel centro del campo di battaglia. Annibale era affascinato e incuriosito, non resistette alla tentazione di incontrare Scipione il quale rappresentava la sua nemesi, ma in un certo senso anche il suo erede.
Annibale decise anche di incontrare Scipione nella speranza di ricavare qualche informazione sui piani del suo avversario e soprattutto sperava di incutergli timore, sudditanza psicologica. Ma la realtà fu molto più sorprendente. Fu Scipione a prendersi gioco di Annibale, lo incontrò esclusivamente poiché aveva necessità di guadagnare un po’ di tempo. Scipione sapeva che altri rinforzi stavano giungendo a suo sostegno, necessitava di ritardare l’avvio della battaglia solo di qualche ora, poi tutto sarebbe stato pronto secondo i suoi piani. Scipione fu abilissimo e riuscì a prendersi gioco di Annibale.
Il condottiero cartaginese fu testimone sul campo della trasformazione e dell’evoluzione delle tattiche dell’esercito romano. Scipione aveva imparato la lezione del nemico. Ormai anche gli elefanti erano superati. Di fronte alla loro carica, Scipione aprì il suo schieramento lasciandoli passare senza subire il minimo danno. Nel frattempo, sorpresi e scioccati dalla reattività, dalla mobilità e dall’abilità delle legioni romane, i pochi veterani cartaginesi, i trionfatori di Canne, si arresero. Annibale perse la sua prima battaglia.
Scipione fu il primo e il solo a sconfiggere Annibale, per questo passò alla storia con l’appellativo di «Africano». Zama segnò per Cartagine l’inizio della fine. Negli anni successivi, il Nord Africa fu interamente conquistato dai Romani.
Ma la guerra di Annibale contro Roma non era finita. Negli anni successivi la continuò da solo fino alla drammatica resa dei conti.
Dopo 36 anni dalla sua partenza avvenuta insieme al padre, Annibale fece ritorno nella sua città: Cartagine. La sua guerra contro Roma non era ancora finita, ma dopo la Battaglia di Zama non disponeva più di un esercito. Cartagine era costretta ad accettare la resa imposta da Scipione e cercare di sopravvivere. In consiglio, Annibale si confrontò con i governanti che gli avevano sempre negato il loro aiuto. In questa occasione furono loro a fargli sentire il peso della responsabilità delle condizioni della resa.
Pur deluso dalla sua città, Annibale continuò la sua lotta contro Roma. Davanti a suo padre Amilcare, le aveva giurato odio eterno quando aveva 9 anni e quindi non si sarebbe mai arreso.
Annibale amava Cartagine, ma in realtà non la conosceva. Per tutto quel tempo aveva combattuto per una Cartagine ideale, un’illusione, un’utopia che esisteva solo nella sua mente. Nasceva dalle storie che gli raccontava suo padre, da quello che imparò crescendo in Spagna, ma senza mai vederla. Aveva combattuto, vinto, resistito e perso per un’illusione.
Dopo la delusione arrivò il tradimento finale. Annibale aveva rischiato la vita per Cartagine, aveva distrutto e sconfitto più volte i suoi nemici, era tornato per difenderla, ma in cambio ricevette il tradimento. I Cartaginesi intendevano consegnarlo vivo ai Romani, addossando a lui tutta la colpa e sperando così di salvarsi dalla furia romana. Annibale, appreso del tradimento ordito dai governanti cartaginesi, prese un cavallo e partì immediatamente da solo, fuggendo in fretta dalla città.
Tradito dalla sua patria, Annibale lasciò l’Africa e non vi tornò più. Ma era ancora deciso a continuare la sua lotta contro Roma. Si recò in Asia Minore ed offrì i suoi servizi di generale ai regni che resistevano all’espansione di Roma. Per tredici anni aiutò chiunque condividesse il suo odio per Roma.
L’esilio gli riservò un incontro sorprendente. In Asia minore si trovò di nuovo faccia a faccia con Scipione. Chiaramente i due si rispettavano l’un l’altro. I due discussero dei grandi condottieri del passato. I tempi dell’odio provato sul campo di battaglia erano distanti nel tempo e Annibale e Scipione si incontrarono per parlare del passato, delle battaglie che li avevano visti protagonisti.
Ma nonostante l’atteggiamento di stima provato da Scipione nei confronti di Annibale, i Romani continuavano a volerlo prigioniero per essere trasferito a Roma, dove ad attenderlo vi sarebbe stata una condanna a morte e un’esecuzione di fronte all’intera cittadinanza romana. L’odio di Roma nei confronti di Annibale era ancora molto forte, l’oltraggio della Battaglia di Canne era una ferita sempre aperta. Un’intera generazione di bambini era cresciuta senza padri, tutti uccisi e giustiziati a Canne da Annibale. Non alcuni, ma tutti! In Senato in molti ritenevano vergognoso che quell’uomo fosse ancora vivo.
Fu così che il Senato di Roma inviò dei sicari sulle tracce di Annibale. Annibale era braccato, non aveva più una casa. La penisola iberica, la terra dove era cresciuto, era divenuta una provincia romana. Cartagine fondata anche dalla sua famiglia, lo odiava e dipendeva ormai di fatto da Roma. Annibale apprese che i Romani volevano catturarlo vivo, esibirlo a Roma come un trofeo ed umiliarlo. Alla fine lo rintracciarono presso la corte del re di Bitinia, in Asia minore. Annibale si preparò alla resa dei conti, non avrebbe concesso a Roma la soddisfazione di averlo vivo.
Nel 183 a. C. a Lybissa, l’attuale città turca di Gebze, all’età di 63 anni, inghiottì un veleno e si tolse la vita. Mostrò il coraggio di uccidersi, piuttosto che farsi uccidere da Roma. L’incredibile epopea di Annibale era finita, aveva impresso alla storia un cambiamento radicale che segnerà il mondo per i millenni a venire.
Annibale non vivrà per vedere il nipote di Scipione, Scipione l’Emiliano tornare a Cartagine cinquant’anni anni dopo. L’esercito romano raderà al suolo la città. Il grande nemico di Roma sarà cancellato per sempre dalla Terra.
Annibale, l’uomo che aveva osato sfidare Roma, l’uomo delle imprese impossibili, che aveva varcato le Alpi, un genio militare che aveva dimostrato il suo valore nella Battaglia di Canne, l’uomo che più di ogni altro era arrivato vicino a sconfiggere la Repubblica romana, non riuscì ad impedire che Roma si trasformasse in impero.
Luca D’Agostini
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