Amnesty International è una delle organizzazioni non governative (ONG) più politicizzate e ciò determina che, nei suoi rapporti e dossier, la Russia è rappresentata come uno stato totalitario, le cui prigioni sono piene di «martiri combattenti contro il crudele regime» e dove i membri della comunità LGBT vengono rinchiusi niente di meno che in campi di concentramento. La stessa ONG che spende enormi quantità di denaro in Occidente per mobilitare l’opinione pubblica nella difesa del vile terrorista Oleg Sentsov e del falso «prigioniero di coscienza» Ildar Dadin.
Nell’analisi svolta in questo in questo articolo, noteremo come Amnesty International non è mai stata un’organizzazione particolarmente indipendente e come molto spesso soffra di cecità in relazione a molte violazioni dei diritti umani e, al contrario, di eccessiva paranoia rispetto ad altre circostanze. Amnesty International pratica doppi standard. Un esempio emblematico riguarda il Donbass: nessun rapporto è stato mai redatto per i moltissimi bambini uccisi nelle repubbliche di Donetsk e Lugansk, fiumi di inchiostro ed enormi quantità di denaro vengono invece investiti per sponsorizzare la causa della difesa di terroristi arrestati in Crimea ma spacciati in modo ridicolo per «prigionieri politici». Per quanto riguarda la Russia, si inventano violazioni dei diritti dei membri della comunità LGBT, ma allo stesso tempo non ci si accorge invece delle violazioni dei diritti dei pellerossa negli Stati Uniti. Prima dell’adozione in Russia della legge sulle organizzazioni non governative, gli ultimi progetti di Amnesty International in Russia riguardavano gli adolescenti LGBT, la raccolta firme a tutela del mafioso Chorkovskij o delle squallide Pussy Riot.
Negli ultimi anni i rapporti di Amnesty International sono stati creati ad arte per essere utilizzati come arma da far valere nella contesa geopolitica relativa alla questione siriana. Più volte il Ministero della Difesa della Federazione Russa ha provato come i rapporti di Amnesty International siano stati creati fuori dalla Siria, perchè nel Paese l’ONG non è presente e che tali rapporti sono stati creati mediante ipotetici racconti telefonici raccolti dai terroristi presenti in Siria. Il Ministero della Difesa della Federazione Russa ha anche osservato: «È strano che Amnesty International non presti attenzione a chi ha commesso i crimini di guerra in Siria prima dell’intervento dell’aeronautica militare russa«. Il Ministero della Difesa ha anche chiesto: «Perché Amnesty International ha iniziato a parlare dell’uso delle bombe a grappolo da parte dell’aeronautica russa, affermando una enorme falsità poiché nella base di Khmeimim tali armamenti non sono disponibili, ma tuttavia allo stesso tempo questa ONG ha taciuto e non si è resa conto della reale prova inconfutabile relativa all’uso delle munizioni a grappolo delle forze armate ucraine nel Donbass?«1
Tre anni fa un’interessante inchiesta francese fece emergere una scomoda verità riguardo alcuni obiettivi perseguiti dalle ONG. In un primo momento, le ONG perseguivano obiettivi lodevoli legati alla difesa dei diritti umani e della dignità umana, ma nel corso degli anni, in seguito all’infiltrazione al loro interno di funzionari governativi occidentali, sempre più prove hanno dimostrato che per alcune di tali organizzazioni le loro finalità sono divenute uno strumento di propaganda politica.
L’inchiesta francese si riferiva in modo particolare al caso di Amnesty International. Come nacque questa ONG? Amnesty International fu fondata dall’inglese Peter Benenson. Prima di praticare la professione di avvocato, Benenson lavorò al Ministero dell’Informazione e della Stampa inglese durante la Seconda Guerra Mondiale. Successivamente fu assegnato al Centro di Decrittazione inglese, con la mansione di responsabile della decifrazione dei codici tedeschi. Nel 1960, Benenson rimase colpito da un articolo che riportava l’arresto di due studenti condannati a sette anni di carcere per aver brindato alla libertà sotto la dittatura di Salazar, in Portogallo. Disgustato, lanciò sul giornale «Observer» un appello ai «prigionieri dimenticati» in cui fu utilizzato per la prima volta il termine «prigioniero di coscienza». Benenson ricevette migliaia di lettere di sostegno. L’appello, ripreso dai giornali di tutto il mondo, chiedeva ai lettori di scrivere lettere per protestare contro l’arresto dei due giovani.2
Per coordinare tale campagna, Benenson fondò nel luglio 1961 l’associazione Amnesty International, dichiarando che tale organizzazione era finanziariamente indipendente grazie a donazioni di benefattori e che tra l’altro era indipendente da qualsiasi governo. Ma la storia ha mostrato che ciò non è affatto vero e che fin dall’inizio delle sue attività, era chiara e palese la stretta collaborazione con i governi britannici prima e statunitensi dopo.
Infatti, già nel 1964, tre anni dopo la sua fondazione, Benenson sollecitò l’assistenza del Foreign Office (Ministero degli Esteri della Gran Bretagna) al fine di ottenere un visto per Haiti. Il ministero rilasciò il visto e scrisse al suo rappresentante ad Haiti, Alan Elgar, perchè «sostenesse gli obiettivi di Amnesty International«. Benenson si infiltrò nell’isola fingendosi pittore, come gli aveva consigliato il ministro Padley prima di partire: «Dovremo stare attenti a non dare agli haitiani l’impressione che la tua visita sia effettivamente sponsorizzata dal governo di Sua Maestà«.3
Nel 1966, un rapporto di alcuni inviati di Amnesty International nella colonia britannica di Aden, una città portuale dell’attuale Yemen, descrisse dettagliatamente le torture inflitte dal governo britannico ai detenuti del centro di interrogatorio di Ras Morbut. I prigionieri venivano denudati durante gli interrogatori, erano costretti a sedersi su pali che penetravano nel loro ano, venivano torturati nella zona dei loro genitali, erano costretti a subire ustioni di sigarette sul volto e le celle nelle quali erano rinchiusi avevano il pavimento coperto di escrementi ed urina.3
Questo rapporto così scioccante non fu mai pubblicato da Amnesty International. Successivamente il Lord Cancelliere Gerald Gardiner scrisse al Primo Ministro Harold Wilson che «Amnesty aveva mantenuto il rapporto segreto il più a lungo possibile semplicemente perché Peter Benenson non voleva fare nulla che potesse danneggiare un governo laburista«.3
Nel mentre, aveva luogo uno scandalo finanziario che scosse fortemente Amnesty International. Polly Toynbee, un’attivista della ONG da 20 anni, era inviato in Nigeria e nella Rhodesia del Sud, la colonia britannica dello Zimbabwe, governata allora dalla minoranza di coloni bianchi. Lì, Toynbee soleva fornire denaro a famiglie di detenuti avendo accesso ad una riserva di contanti apparentemente inesauribile. Toynbee disse che si era incontrato lì con Benenson e questi aveva ammesso che i soldi provenivano dal governo britannico.3
Toynbee e altri funzionari di Amnesty International furono costretti a lasciare la Rhodesia nel marzo 1966. All’uscita, gli furono sequestrati documenti rinvenuti in una cassaforte abbandonata, comprese le lettere di Benenson agli ufficiali di Amnesty che lavoravano nel Paese. Nelle lettere era dettagliatamente descritta la richiesta di denaro che Benenson aveva inviato al Primo Ministro britannico Wilson.3
Nel 1967, fu rivelato che la CIA segretamente creò e finanziò un’altra organizzazione per i diritti umani, fondata all’inizio degli anni ’60, la Commissione Internazionale dei Giuristi (ICJ), attraverso una associazione sussidiaria interamente controllata, l’American Fund for Free Jurists Inc.3
Benenson aveva fondato, insieme ad Amnesty, la filiale britannica dell’ICJ, chiamata «Justice». Il segretario di Amnesty International, Sean MacBride, era anche segretario generale dell’ICJ.3
Ufficialmente, Amnesty negò di essere a conoscenza dei pagamenti del governo Wilson. Ma Benenson ammise che il loro lavoro in Rhodesia era stato finanziato dal governo e che aveva fornito soldi di tasca sua. Scrisse al Lord Cancelliere Gardiner che lo fece per non «danneggiare la reputazione politica» delle persone coinvolte nel caso. Benenson poi restituì i fondi non spesi dalle altre due organizzazioni per i diritti umani, Justice (la filiale britannica dell’ICJ fondata dalla CIA) e il servizio di consulenza sui diritti umani (Human Right Advisory Service).3
Amnesty International è un’organizzazione non governativa (ONG)la quale dichiara di essere finanziariamente indipendente grazie a donazioni in maggioranza anonime. Tuttavia, resta il dubbio sulla natura del finanziamento dell’organizzazione. Le informazioni relative ai finanziamenti di Amnesty International non sono affatto chiare ed evidenti, ciò logicamente per proteggere il mito di «indipendenza» dell’organizzazione. Amnesty International infatti separa i legami finanziari compromettenti attraverso una serie di manovre legali ed organizzazioni ombra. Sul sito web della ONG si legge: «Il lavoro portato avanti dal Segretariato Internazionale di Amnesty International è organizzato in due entità legali, in conformità alla legge del Regno Unito. Queste sono Amnesty International Limited (“AIL”) e Amnesty International Charity Limited (“AICL”). Amnesty International Limited prende in appalto le attività caritatevoli per conto di Amnesty International Charity Limited, istituzione benefica registrata”.2
Ed è proprio attraverso Amnesty International Charity Limited, registrata come organizzazione caritatevole, che transitano i finanziamenti di organizzazioni statali, governative e corporative. Un caso emblematico è costituito dai finanziamenti elargiti dallo speculatore finanziario George Soros.2
Il sito web dell’organizzazione afferma che il suo reddito annuale viene generato attraverso «contributi e donazioni pubbliche«, ma non ci sono rapporti sulle fonti di finanziamento fino al 2014. Nel 2015 Amnesty International ha incassato circa 70 milioni di sterline, di cui 57,5 milioni sono proventi di donazioni.4 Dall’accesso libero on line, sono scomparsi i dati dopo che i media hanno divulgato e le informazioni sui generosi contributi del National Endowment for Democracy, l’organizzatore delle Rivoluzioni arabe del 2011. Addirittura, questa sovvenzione nella commissione per gli affari esteri del Congresso fu voluta dall’allora Segretario di Stato americano Hillary Clinton.
Così come è emblematico il conflitto di interessi che ha caratterizzato Suzanne Nossel, direttrice di Amnesty International USA nel 2012-2013, la quale contemporaneamente ricopriva la carica di assistente personale di Hillary Clinton, allora Segretario di Stato degli Stati Uniti. La nomina di Suzanne Nossel a Direttore Esecutivo di Amnesty International USA, fu indicata direttamente dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, evidenziando ancora una volte le contraddizioni delle dichiarazioni di Amnesty International, secondo le quali l’ONG sarebbe indipendente da governi e da interessi corporativi. Perché il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti avrebbe dovuto indicare la nomina di Suzanne Nossel? Una prima risposta la si può trovare già da quanto riportato dal sito internet di Amnesty International, che ha menzionato specificamente il ruolo della Nossel dietro le risoluzioni dell’ONU appoggiate del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, riguardanti Iran, Siria, Libia e Costa d’Avorio.2
Altro elemento che induce a riflettere sulla dubbia imparzialità, fu la nomina di Franck Jannuzi, scelto per sostituire ad interim Suzanne Nossel. La scelta di Jannuzi alla carica di vicedirettore esecutivo di Amnesty International USA, risulta alquanto sorprendente se ci si sofferma ad analizzare la sua carriera. Jannuzi lavorò per il Bureau of Intelligence and Research degli Stati Uniti come analista politico-militare della regione asiatica.2
Ma è così recente tale collusione tra il governo degli Stati Uniti e Amnesty International? Due casi dimostrano che tale legame esiste da oltre 20 anni. Prima dell’avvio della prima guerra del Golfo, l’amministrazione statunitense trasmise informazioni secondo cui i soldati iracheni avevano tolto dalle incubatrici più di 300 neonati prematuri, in un ospedale del Kuwait. Secondo tali informazioni, i bambini furono gettati a terra ed uccisi. Tale fatto fu determinante nel convincere il pubblico statunitense ad essere a favore dell’intervento in Medio Oriente. Amnesty International svolse un ruolo chiave nel supportare il governo degli Stati Uniti durante tutta l’operazione.2
Successivamente, Amnesty International lanciò la campagna per sostenere l’intervento della NATO in Afghanistan, «Enduring Freedom».2
Purtroppo molto spesso, le bugie ricorrenti narrate da Amnesty International sono così ridicole che talvolta si fatica a comprendere come l’opinione pubblica occidentale possa credervi. Così negli ultimi anni, Amnesty International ha più volte realizzato campagne per screditare ed accusare il governo di Bashar al-Assad in Siria. Uno su tutti, alquanto patetico il caso inventato di sana pianta riguardo le presunte stragi nel carcere siriano di Saydnaya ed i fantomatici forni crematori di Assad. Accuse inventate ad arte per scioccare l’opinione pubblica e renderla interventista come fosse un toro da eccitare e provocare,agitandogli davanti agli occhi il panno rosso.
Il 7 febbraio 2017, Amnesty International, organizzazione particolarmente attiva quando si tratta di individuare responsabilità del governo di Damasco, aveva redatto un rapporto di 48 pagine intitolato «Mattatoio umano: impiccagioni di massa e sterminio nella prigione di Saydnaya in Siria», nel quale sosteneva che all’interno di questo carcere, il governo siriano, mediante impiccagioni di massa, avesse giustiziato senza processo tra le 5.000 e le 13.000 persone, dando l’idea dell’esistenza di un vero e proprio lager.
Dal canto suo invece, il Ministro della Giustizia siriano, Najem al-Ahmad, smentì tutto ciò che era stato riportato nel rapporto di Amnesty International su Saydnaya, ma venne praticamente ignorato dalle cancellerie e dai media occidentali.
Ancora una volta, questo rapporto si dimostrò essere solo un ulteriore strumento di propaganda contro Assad, in una guerra che purtroppo ha visto il continuo utilizzo di falsità artificiosamente costruite a tavolino, con il solo scopo di delegittimare di fronte all’opinione pubblica internazionale il Presidente siriano.
Il rapporto di Amnesty International presenta alcune incongruenze che ora analizzeremo.
Amnesty International bollò il risultato di questo rapporto come crimini contro l’umanità, salvo poi contestualmente ammettere che tale rapporto fu fabbricato presso una filiale di Amnesty International del Regno Unito, con un processo da loro definito di «architettura forense«, cioè in mancanza di prove reali, fisiche, fotografiche e video, si ricorse ad animazioni 3D ed effetti sonori ideati da creativi da loro assunti. Lascia basiti, ma anche riflettere, la superficialità che emerge in un video redatto da Amnesty International. Nel video allegato al rapporto, il narratore ammette in apertura che Amnesty International non ha alcuna prova reale sulla prigione. Il narratore dichiara: «Non ci sono immagini esterne (tranne quelle satellitari) ed alcuna interna. E ciò che vi accade era avvolto nel segreto, finora». Gli spettatori sono inizialmente portati a credere a delle prove che svelano ciò che avverrebbe nel carcere, ma il narratore continua spiegando: «Abbiamo ideato un modo unico di rivelare la vita nella prigione della tortura. E l’abbiamo fatto parlando con persone che vi erano e sono sopravvissuti ai suoi orrori … utilizzando i loro ricordi e testimonianze, abbiamo costruito un modello 3D interattivo che vi porterà per la prima volta all’interno di Saydnaya». Il narratore spiega poi: «In modo unico, Amnesty International ha collaborato con Architettura Forense della Goldsmiths University of London, ricostruendo suono e architettura della prigione di Saydnaya, utilizzando un’avanzata tecnologia di modellismo». In altre parole, la presentazione di Amnesty International non presenta fatti e prove raccolte in Siria, ma è realizzata esclusivamente a Londra utilizzando modelli 3D, animazioni e software audio, secondo resoconti infondati di presunti testimoni che affermano di esser stati in un modo o nell’altro nella prigione.5
Sulla natura di questi testimoni è comunque utile soffermarci: Amnesty International dichiarò di aver raccolto le testimonianze di 85 persone; di cui, 31 ex detenuti, 4 guardie carcerarie che lavoravano nella prigione, 3 ex giudici siriani, 3 medici dell’ospedale militare di Tishreen, 4 avvocati, 17 esperti di diritto carcerario internazionali e siriani, 22 parenti di persone ancora detenute nel carcere. Poiché Amnesty International non ha accesso alle zone della Siria sotto la giurisdizione governativa, «la maggior parte di queste interviste sono state fatte nel sud della Turchia, mentre altre sono state effettuate per telefono o attraverso strumenti remoti«. Gli intervistati al momento dell’intervista risiedevano in Siria (ma non si specificava se nei territori governativi o in quelli controllati dai terroristi), in Libano, in Giordania, in alcuni paesi Europei e negli Stati Uniti. Ovviamente tutti i testimoni erano oppositori del Presidente Assad e tutti anonimi.6
Questi testimoni furono rintracciati attraverso tre ONG delle quali, almeno due, appartengono all’universo di organizzazioni civili finanziate direttamente o indirettamente da governi occidentali ed ostili ad Assad: il Syria Justice and Accountability Centre, organizzazione fondata in Turchia e con sede a Washington e la Rete Siriana per i Diritti Umani (SNHR), fondata in Gran Bretagna, per molti legata ai Servizi britannici e parte del World Federalist Movement–Institute for Global Policy, finanziato da diversi governi occidentali e da fondazioni private come la Open Society di Soros e la Ford Foundation. Insomma, non certo soggetti neutrali e imparziali nel giudizio.7
In pratica quindi, il rapporto di Amnesty International non basava su alcuna prova concreta e la sua presentazione consisteva nella dichiarata fabbricazione di immagini, suoni, mappe e diagrammi. Amnesty International senza prove, ha abusato della propria reputazione e delle classiche tecniche per manipolare il pubblico sul piano emotivo. Ciò che Amnesty International ha compiuto, non è stato «difendere i diritti umani», ma piuttosto una propaganda di guerra politicamente motivata.5
Il rapporto di Amnesty International iniziava con queste parole: «La prigione di Saydnaya è il posto in cui lo stato siriano massacra silenziosamente il proprio popolo«.7
E’ importante analizzare (nella migliore delle ipotesi) la superficialità che sta alla base del rapporto di Amnesty International. Come abbiamo già accennato, le fonti sulle quali si fondava il report di Amnesty International sarebbero alcuni ex detenuti di Saydnaya, funzionari e guardie della prigione rifugiati in Turchia, Giordania, Europa e Stati Uniti, tutti rigorosamente anonimi. Si sosteneva che lo erano per garantire la loro incolumità e quella delle loro famiglie. Ma garantirla da chi? Da possibili ritorsioni messe in atto dal governo di Assad? Suona strano, in quanto se veramente si fosse trattato di ex detenuti, ma soprattutto di funzionari e guardie della prigione, il governo siriano avrebbe conosciuto esattamente le loro identità e non solo.7
La stessa domanda sarebbe stato legittimo porsela anche per quanto concerneva un presunto disertore della polizia militare siriana, un fantomatico «Caesar», che secondo Amnesty International, durante i suoi 13 anni trascorsi nella Polizia Militare Siriana, avrebbe fotografato migliaia di prigionieri delle carceri siriane dopo la loro esecuzione e che restava ancora senza nome nonostante lui e la sua famiglia vivessero da cinque anni all’estero. Se questo «Caesar» fosse stato veramente chi sosteneva di essere, cioè un dipendente del Ministero degli Interni Siriano, che avesse prestato 13 anni di servizio presso alcune carceri siriane ben identificate, per poi divenire un disertore, che lui e la sua famiglia non vivessero più in Siria, quale persona di buon senso avrebbe potuto credere che il suo ex datore di lavoro, cioè il Governo di Damasco, non conoscesse il suo nome e che quindi occorreva garantire il suo anonimato.7
A rendere poi davvero ridicolo il parallelo tra la bufala delle «foto di Caesar» e il rapporto su Saydnaya c’era un certificato di morte (pag. 39 del rapporto) nel quale, così come i cartellini mortuari delle «foto di Caesar», i dati salienti del morto (per proteggere la sua incolumità?) erano celati».7
E poi soprattutto, perché mai la Polizia militare di Assad avrebbe dovuto trasportare in un ospedale militare i prigionieri, ammazzarli, fotografarli e realizzare così questa macabra collezione? Caesar, nel rapporto «into the credibility of certain evidence with regard to Torture and Execution of Persons Incarcerated by the current Syrian regime«, rispondeva così: «era per creare un certificato di morte da prodursi senza che le famiglie necessitassero di vedere il corpo, evitando così alle autorità di dover dare un resoconto veritiero della loro morte«. Anche qui si scendeva nel ridicolo: per quale assurdo motivo le autorità avrebbero dovuto esibire un certificato di morte («per problemi cardiaci e attacchi respiratori») alle famiglie dei terroristi scomparsi nelle carceri siriane? Per spingerle ad avere indietro il corpo del loro caro e constatare così i segni delle torture? E poi, quale regime conserverebbe una documentazione così dettagliata sui propri crimini? Ovvie considerazioni che spinsero il bizzarro «Caesar» a ritirare la storia dei «certificati di morte» e delle «famiglie da informare» e abbandonarsi a strampalate precisazioni che si conclusero con questa comica frase: «A volte mi domando se i responsabili dei servizi di sicurezza non siano in realtà più stupidi di quanto si pensi!«8
Inoltre, come mai su internet il presunto archivio di Caesar non veniva messo a disposizione dei tanti che in Siria sono nella trepida ricerca dei loro cari? Anche in siti che avrebbero dovuto essere deputati a questo scopo, come il celebratissimo Syrian Human Rights Committee (SHRC) le uniche foto presenti erano una decina e sono sempre le stesse). Foto di corpi che riportavano i segni di un combattimento armato, foto nelle quali per inspiegabili «motivi di sicurezza e privacy» il volto delle vittime era celato da un rettangolo nero o da pixel.8
La «superficialità» di Amnesty International è risultata evidente anche in altri punti del rapporto. Ad esempio le foto satellitari di nuove aree cimiteriali che, a detta di Amnesty International avrebbero custodito le salme dei 13.000 impiccati a Saydnaya (e non delle migliaia di civili uccisi dalla guerra). Ma a pagina 29 e 30 del report, si può notare come quelle foto riguardassero l’allargamento del «Cimitero dei Martiri», un cimitero monumentale a sud di Damasco riservato ai soldati dell’esercito siriano. Strano davvero che il governo di Assad andasse a seppellire proprio lì i presunti prigionieri impiccati a Saydnaya.7
Poi sul tema delle esecuzioni, l’intento del rapporto emerge in tutto il suo squallore. Amnesty International affermava che si trattava di «esecuzioni extragiudiziali» salvo poi riportare l’esistenza di un tribunale militare che le comminava. Il tutto costellato da una precisazione sbalorditiva e cioè che le sentenze di morte, per essere eseguite, dovevano essere inviate al Gran Muftì di Siria, al Ministro della Difesa e al Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, i quali erano incaricati di farle firmare al Presidente Bashar al-Assad, il quale dal canto suo specificava la data di esecuzione. Chiaro quindi alla fine dove si voleva andare a parare!
Ma anche in questo caso la ricostruzione dei fatti è stata totalmente incongruente, considerando che il Gran Muftì, lo sceicco sunnita Ahmad Badreddin Hassoun, è uno studioso moderato e molto stimato a livello internazionale.4 Inoltre, in una sua intervista rilasciata al settimanale italiano «Tempi», il Gran Muftì dichiarò non solo di non avere alcun ruolo nei procedimenti legali e militari in Siria, ma che addirittura aveva perdonato gli autori dell’omicidio di suo figlio, che sono tutt’ora in carcere, auspicandosi in un discorso tenuto in pubblico che possano essere presto rimessi in libertà e tornare dalle proprie famiglie.7 9
Ma questo logicamente, sullo squallido report di Amnesty International non c’era scritto.

Gran Muftì
Credete sia tutto qui? Se così fosse, vi state sbagliando di grosso! Al bizzarro rapporto di Amnesty International si affiancò contemporaneamente l’accusa del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti. In cosa consisteva questa accusa? In una rivelazione orribile: Assad dispone di un forno crematorio per eliminare ogni traccia delle esecuzioni di massa che sta conducendo contro gli oppositori. In una conferenza stampa il 15 maggio 2017, il Segretario degli Stati Uniti per le questioni del Medio Oriente, Stuart Jones dichiarò che: «a partire dal 2013 il regime siriano ha installato un forno crematorio all’interno della prigione di Saydnaya. Lo scopo è eliminare le prove e nascondere l’entità degli omicidi di massa che avvengono nel carcere stesso.6 Questo fa sprofondare Assad in un nuovo livello di depravazione. Col sostegno di Russia e Iran».10

Stuart Jones
Il Ministero degli Esteri della Francia si accodò: «a breve forniremo le prove!«6 Signor Macron, le stiamo ancora aspettando!
Eh vai! Le fanfare di sistema si misero subito in azione. I media occidentali, ricevuta la velina sulle scrivanie delle loro redazioni diedero fiato alle trombe. Per giorni sbandierano la bufala del Dipartimento di Stato sul forno crematorio di Assad, addirittura farneticando di una Auschwitz siriana da estirpare ed evocando un intervento ed una mobilitazione generale.
Il Corriere della Sera il 15 maggio 2017 riportava: «Siria, l’accusa degli USA ad Assad: <<50 impiccagioni al giorno e forni crematori nel carcere di Saydnaya>>. Il Dipartimento di Stato USA mostra una serie di immagini satellitari che provano la costruzione di una struttura per bruciare i corpi degli oppositori detenuti e uccisi nella prigione militare. La Casa Bianca: <<Siria non sicura fino a quando ci sarà Assad>>».11
Continuava il Corriere della Sera: «Avevamo detto mai più: ma il fumo dal camino del forno crematorio in Siria riporta l’umanità nel baratro. Non c’è insulto più grande alla dignità umana: offendere persino la morte. Ora l’Europa, terra di Auschwitz, ha il dovere di mobilitarsi«.12
Ma se ci fosse stato un forno crematorio in quel carcere, com’è possibile che nessuno dei «testimoni» interpellati da Amnesty International non ne avesse parlato nel famoso rapporto? Quei «testimoni», secondo la stessa Amnesty, sono stati in quella prigione e ne conoscono tutti i minimi dettagli. Hanno affermato che i corpi sono stati sepolti in fosse comuni. Perché nessuno dei media occidentali si pose questo dubbio?
Il meschino comportamento dei media occidentali toccò il culmine, quando il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, clamorosamente smentì l’esistenza di questo forno crematorio. I media occidentali, invece di scusarsi con i lettori, stettero vergognosamente zitti sperando di far dimenticare l’ennesima loro figuraccia. Infatti poco dopo la cagnara scatenata dai media occidentali, il Segretario degli Stati Uniti per le questioni del Medio Oriente, Stuart Jones, in una conferenza stampa ridimensionò tutto: «Nella prigione governativa di Saydnaya in Siria, probabilmente non c’è nessun forno crematorio. Una parte dell’edificio, ristrutturato nel 2013, risulta semplicemente più caldo«.12 Incredibile, vero?
L’australiano Tim Anderson, esperto di geopolitica ed autore del libro «La sporca guerra contro la Siria», ha dichiarato: «Ancora una volta, sono accuse prive di sostanza reale, cioè sono normale teatro di propaganda, e sono utilizzate per tentare di coprire l’aggressione illegale e l’invasione della Siria. Il problema più ampio è che gli Stati occidentali ed i media sembrano aver abbandonato il loro spirito critico. Ripetono le storie fabbricate da al-Qaeda, mostrando disprezzo per ogni versione siriana. Bastava sentire quello che l’ex ambasciatore britannico in Siria, Peter Ford, ha detto sui rapporti di Amnesty International usati dagli Stati Uniti per sostenere le accuse: <<Chiaramente nessuno degli autori del rapporto è mai stato a Saydnaya, io invece sì. Quando ero ambasciatore britannico a Damasco ho avuto occasione di andarci diverse volte. Non sono mai entrato nella prigione, ma ho visto l’edificio, che non ha nessuna possibilità di accogliere 10-20.000 prigionieri tutti assieme. Ne poteva ospitare al massimo un decimo>>. Insomma, i rapporti che gli Stati Uniti adoperano per sostanziare queste accuse sono quanto meno fuorvianti. Dopo che l’obiettivo è raggiunto, gli aggressori occidentali non si occupano se i loro falsi pretesti vengono smascherati. George W. Bush e altri si permettono persino di scherzare sulle leggendarie armi di distruzione di massa dell’Iraq. Lo stesso accade con la Libia. Qualcosa vorrà dire. Ma mentre la guerra in Siria è in corso, non possono ammettere la portata delle loro menzogne. In un tale contesto di manipolazione dell’informazione, l’opinione pubblica deve cercare fonti indipendenti ed allontanarsi dai media mainstream. Questo significa superare l’indottrinamento che sostiene non si possano leggere ed ascoltare i media russi. E’ indispensabile leggere l’altra versione per capire qualsiasi conflitto«.13 14

Tim Anderson
In conclusione, le menzogne sulla prigione di Saydnaya e sul forno crematorio di Assad, rappresentano un capitolo della narrativa dell’élite guerrafondaia occidentale. E’ accaduto con Saddam Hussein e le armi di distruzione di massa che non esistevano; è successo con Mu’ammar Gheddafi e le fantomatiche fossi comuni, salvo poi scoprire che si trattò di una clamorosa bufala. Il primo intervento militare spianò la strada per la nascita di Daesh (ISIS). Il secondo non solo ha ucciso Gheddafi, ma ha ridotto l’intera Libia in un Paese devastato dalla guerra civile. Ora che il governo siriano sta vincendo la guerra, chi mentì allora vuole convincere l’opinione pubblica che il Presidente Bashar al-Assad debba essere eliminato. Ad ogni costo. Fallita la strada del colpo di Stato mascherato da sedicente «rivoluzione», attuata finanziando ed armando bande di terroristi, ora si ritenta, per l’ennesima volta, l’arma della propaganda.
In considerazione del coinvolgimento di persone collegate al governo degli Stati Uniti nella gestione di Amnesty International, ci si può legittimamente interrogare sull’indipendenza e l’imparzialità di tale ONG. Al di là della difesa dei diritti umani e della dignità umana come obiettivo primario, traspare un secondo fine, quello di divenire uno strumento dell’influenza culturale statunitense in modo tale da creare un clima favorevole alle ambizioni geopolitiche degli Stati Uniti.
Per questo motivo la Federazione Russa ha adottato una legge che consente la chiusura ed il sequestro dei conti correnti delle organizzazioni non governative (ONG) straniere ritenute una minaccia per l’ordine e la sicurezza del Paese. Infatti come abbiamo notato nel corso dell’articolo, tali organizzazioni non governative, dimostrano costantemente di essere finanziate e manipolate dall’establishment politico occidentale, il quale le ha trasformate in un elemento della guerra di informazione condotta contro la Russia.
Luca D’Agostini
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Fonti
(2) Faro sul mondo
(3) Collaborazione di Amnesty International con l’intelligence britannica e statutinense
(4) antimaidan.ru
(5) Aurorasito
(6) Il Giornale
(8) Antidiplomatico
(10) Forno crematorio
(11) Primato Nazionale
(12) Articolo 21
(13) Dipartimento USA
(14) La Repubblica
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