La storia di Alba Fucens è strettamente legata a quella dei Marsi, un popolo italico storicamente stanziato nel I millennio a.C. nel territorio circostante il lago Fucino, zona che attualmente corrisponde a un’ampia area dell’Abruzzo chiamata appunto Marsica.
Nei corredi funerari di tutto il mondo antico, l’uomo usava deporre all’interno delle tombe oltre ai beni personali del defunto, anche cibi e bevande, che secondo le credenze popolari questi avrebbero consumato durante il viaggio verso l’aldilà. Solo una popolazione in tutta l’antichità rifiutò questa usanza in maniera categorica: i Marsi. Nelle loro tombe infatti, non trovarono mai cibo, piatti o altre cianfrusaglie da cucina, ma solo ed esclusivamente armi, dalle quali sembrava non volessero separarsi neanche da morti.
La presenza dell’uomo nella Marsica è indiscutibilmente antica. Già circa centomila anni fa gli uomini che transitavano dal Tirreno all’Adriatico, scoprirono la feracità è la bellezza di queste terre.
Ma fu solo approssimativamente diciassette mila anni fa che l’uomo si stabilì definitivamente nelle numerose accoglienti grotte disponibili ai margini del lago.
Intorno al 450 a.C., gli abitanti che vivevano sulle sponde del terzo lago d’Italia, si specializzarono nella guerra e soprattutto nel mercenariato, meritandosi così il nome di Marsi, ovvero figli di Marte, dio della guerra.
Oggi per identificare il pericolo di morte si usa il simbolo del teschio con le ossa incrociate, nell’antichità invece veniva usata la Chimera. Ecco perché quei leggendari guerrieri Marsi scelsero proprio la Chimera come simbolo distintivo. Riportandone l’effigie sui loro scudi, ricordavano al nemico di essere portatori di morte.
Le gesta storiche dei Marsi iniziarono a diventare leggenda in tutto il mondo intorno al 350 a. C.
Roma divenuta ormai una potenza egemone, si trovò a dover affrontare una coalizione di popoli italici guidati dai Marsi e dei Sanniti che chiedevano il riconoscimento dei loro diritti sociali. Il campo di battaglia conobbe subito la violenza dei Marsi, che come loro solito, grazie alla loro forza e audacia si conquistarono subito la fama di incredibile popolo guerriero. Uno in particolar modo, distintosi contro i Troiani per tempra e valore, fu ricordato e lodato perfino da Virgilio nell’Eneide: il suo nome era Umbrone.
Nonostante l’esercito Romano fosse immensamente più numeroso e organizzato, arrivò ad un soffio dall’essere spazzato via dall’accoppiata marso-sannita che guidava la coalizione dei popoli italici. Dopo una sanguinosa guerra intestina Roma dovete scendere a patti con quegli indomiti guerrieri e si trovò costretta a concedere loro la cittadinanza romana, con tutti i diritti ad essa connessi.
I generali romani si accorsero già dalle prime battaglie dell’elevato valore militare dei Marsi e cambiarono idea, invece di combattere quel temibile popolo gli proposero un’alleanza, entrare a far parte del più potente e ambito esercito del mondo antico.
I Marsi accettarono, ma imposero le loro condizioni, non volevano essere impiegati come semplici soldati ma come corpo d’élite, un vero e proprio corpo speciale. Divennero le forze speciali del più grande e potente esercito che la storia ricordi. L’Impero ricorreva costantemente a questi battaglioni quando c’era qualche compito particolarmente ingrato o difficile da far digerire a chiunque altro. Infatti furono proprio due guerrieri Marsi a crocifiggere Gesù sulla croce, poiché erano loro gli addetti a portare termine quelle crude esecuzioni che non tutti avevano il coraggio di attuare. Al battaglione dei guerrieri Marsi apparteneva anche Longino, il soldato romano che trafisse con la propria lancia il costato di Gesù crocifisso, per accertare che fosse morto.
Persino i Pretoriani, le guardie private dell’Imperatore, erano guerrieri Marsi. Il mito dei guerrieri Marsi crebbe così velocemente che, in pochi anni, non esisteva un angolo in tutto l’Impero Romano in cui non si sapesse che per far fronte ad un guerriero marso servivano almeno quattro legionari romani. Fu così che a partire da quel momento, almeno una compagine di guerrieri Marsi accompagnò l’esercito romano in un’impresa militare, dentro e fuori il territorio italico.
Gli impavidi guerrieri consentirono a Roma di dominare il mondo. Da allora e nei secoli a venire, non ci fu cittadino romano o schiavo dell’Impero che non conoscesse il detto tramandatoci da Appiano di Alessandria: “Nec sine marsis nec contra marsos triumphari posse” (“Non si può vincere né senza i Marsi né contro di essi”).
Roma non poteva più fare a meno di quei temibili alleati. Diversi furono i casi documentati, in cui gli impavidi guerrieri risultarono determinanti in battaglia, come per esempio contro i terribili Galli, Parti, i Traci e i Daci, che come scrisse Flacco: “ancora nascondono in cuore il terrore dei Marsi“.
Oltre ad affiancare i Romani nelle più importanti battaglie contro i Cartaginesi, i Celti, i Macedoni, i Siriani di Re Antioco, gli Illiri, durante la guerra contro i Numidi i guerrieri Marsi da soli riuscirono a fermare la terribile e imponente cavalleria di Re Siface. Costui, dopo essere stato fatto prigioniero da Scipione l’Africano, fu confinato ad Alba Fucens dove fu seppellito dopo la sua morte. Altrettanto toccò in seguito a Perseo, Re di Macedonia, e a Bibuito, Re degli Averni. In tutta la sua storia, ad Alba Fucens furono confinati molti prigionieri importanti.
Meglio ancora fece Publio Cornelio Scipione Emiliano, il quale riuscì a radere al suolo Cartagine solo grazie ai fieri guerrieri Marsi, e non appena tornato in Italia, quale segno di riconoscimento volle a tutti i costi visitare Marruvium, l’allora capitale dei Marsi, l’attuale San Benedetto dei Marsi. Publio Cornelio Scipione Emiliano donò a Marruvium le migliori opere d’arte sottratte alla potente città africana.
I Romani avevano costruito una propria città nel territorio dei Marsi, scegliendo quale luogo la sponda settentrionale del lago del Fucino. Sorgeva in alto, a quasi 1000 m s.l.m., ai piedi del Monte Velino, a 7 km circa a nord di Avezzano. La città fondata dai Romani si chiamava Alba Fucens, la più grande colonia militare mai fondata nella Roma Repubblicana, che con un presidio di seimila uomini e poderose mura di fortificazione visibili ancora oggi, permettesse anche di controllare i bellicosi guerrieri Marsi.
Il geografo e storico greco Strabone, nella sua opera “Geografia”, afferma che Alba Fucens fu fondata da Roma come colonia di diritto latino nel 304 a.C., nel territorio al confine tra quello occupato dagli Equi e quello occupato dai Marsi, in una posizione geografica strategica. Si sviluppava su tre colline appena a nord della via Tiburtina Valeria. Gli Equi, non potendo tollerare una colonia romana sul loro territorio, l’attaccarono più volte cercando di espugnarla, ma sempre senza successo.
Alba Fucens era una vera e propria città militare, con uno statuto creato ad hoc solo per lei.
Solo a tre città nell’Impero Romano fu dato il nome di Alba. Alba Pomeia, l’attuale Alba in provincia di Cuneo, oggi famosa per i suoi preziosi tartufi. Alba Julia in Transilvania, nota per essere il capoluogo dell’antica Dacia romana. E Alba Fucens, senza ombra di dubbio l’Alba più famosa della storia dell’Impero. Alba Fucens significa “Alba del Fucino” e Tito Livio nelle sue “Storie” racconta come ad Alba Fucens si verificasse il miracolo “dei due soli”. Sembra infatti che in alcune ore del giorno, prevalentemente all’alba, nel cielo della città si potessero scorgere non uno, ma ben due soli affiancati.
Si trattava di una città enorme. Alba era presidiata da 20 coorti che facevano capo a due legioni, la Quarta e la Martia, tra le più leggendarie e gloriose di Roma. Per un lungo periodo fu la città più popolosa e importante di tutto l’Abruzzo. Diverse testimonianze raccontano che tra i soldati, relativi familiari e gli immancabili schiavi, arrivò ad una popolazione di oltre 40 mila abitanti, che per l’epoca rappresentavano una ragguardevole cifra, calcolando che nel 270 a. C., Roma stessa contava appena 187 mila residenti, e nel Mediterraneo era seconda solo a Cartagine.
Per un breve periodo vi stazionarono circa un terzo delle truppe regolari dell’Impero Romano. Da questo avamposto infatti, da sempre considerato come uno snodo particolarmente strategico dal punto di vista geografico, era possibile raggiungere qualsiasi destinazione del centro Italia in un massimo di sette giorni di marcia.
A livello militare poi, Alba Fucens divenne la città fortezza per antonomasia di tutta la penisola italica, con le sue tre inespugnabili linee difensive costituite da imponenti mura ciclopiche non dovete mai ricorrere alle sue difese estreme. Nessun nemico riuscì mai ad entrare, neanche nella sua cintura urbana, e grazie a questo invidiabile primato rimase l’unica città romana della storia a non essere mai stata violata.
Alba Fucens offrì un’assoluta fedeltà a Roma, come dimostrò già dai primi anni del III secolo a.C., quando una forte coalizione tra Etruschi, Umbri, Sanniti e Galli minacciò Roma. Alba si alleò a Roma seguendola fino alla vittoria di Sentinum nel 295 a.C..
Durante l’invasione di Annibale, Alba Fucens intimorì gli invasori i quali evitarono di assediarla. Avendo compreso che le truppe di Annibale si stessero recando ad assediare Roma, Alba Fucens inviò un contingente di duemila legionari per soccorrere Roma. Legionari che non dovettero mostrare tutto il loro valore poiché Annibale desistette dall’assedio e si diresse verso sud.
La sua prosperità, nel periodo imperiale, è testimoniata dai monumenti creati all’epoca, sia pubblici che privati. Notevole impulso economico dette anche la bonifica del lago Fucino.
Fu Strabone il primo autore ad occuparsi del Fucino, che descrisse come “un lago che sembra un mare“, che subiva “delle forti variazioni di livello“.
Altri storici tra cui Tacito, Plinio il Vecchio e Svetonio ricordano che furono le popolazioni della Marsica a chiedere a Roma di regolare le acque.
Giulio Cesare concepì il progetto, Nerone fece iniziare gli scavi, Claudio li completò tra il 41 e il 52 d.C., facendovi lavorare 30 mila schiavi.
Dal IV secolo d.C. la città antica fu progressivamente abbandonata, e finì per l’essere abbandonata del tutto dopo un grave terremoto avvenuto nella prima metà del VI secolo d.C.. Successivamente, nel corso dei secoli, delle ricchezze architettoniche romane si persero progressivamente le tracce. I magnifici resti che possiamo oggi ammirare, sono venuti alla luce solo pochi decenni fa. Infatti nel 1949 iniziarono ad Alba Fucens degli scavi sistematici realizzati un gruppo di lavoro dell’Università di Lovanio guidata da Fernand De Visscher, seguita dal Centro belga di ricerche archeologiche in Italia diretto da Joseph Mertens.
Ecco che così oggi possiamo ammirare le ciclopiche mura della città. La cinta muraria era lunga circa 2,9 km e si è conservata integra in gran parte. Le mura sono a massi poligonali perfettamente incastonati fra di loro con le superfici levigate.
Se ne conserva anche una torre e due bastioni a protezione di tre delle quattro porte principali. Su uno dei bastioni sono scolpiti simboli fallici probabilmente scaramantici. Sul lato settentrionale, per circa 140 m, c’è una triplice linea difensiva eretta in epoche diverse.
La struttura viaria urbana, ancor oggi chiaramente identificabile, era basata sull’incrocio degli assi stradari principali, cardo e decumano. Pertanto le strade intersecandosi formano una scacchiera di edifici, e la via principale percorre l’intero asse centrale della città.

Via Tiburtina Valeria (Alba Fucens)
Il foro, di fine IV secolo a.C., era rettangolare e circondato da edifici, probabilmente tempietti ed edifici pubblici.
Nel settore pubblico, a nord, c’era il comizio, risalente al III secolo a.C., un edificio circolare inscritto in un quadrato, con la porta assiale. Sul lato opposto c’era un portico con un triplice colonnato tardo repubblicano.
Parallela alla via Tiburtina Valeria, corre la via dei Pilastri, così denominata per la presenza di pilastri in pietra, tre dei quali sono stati rialzati. In questa via vi era un porticato con alcune botteghe che s’affacciavano sulla via stessa.
Nella seconda bottega si può ancora riconoscere un Thermopolium, o taberna di vini e vivande, fornita di vasca.
Vi era inoltre il macellum, o mercato, edificio circolare con i muri a raggiera del II secolo a.C., con varie botteghe ed ai margini, tra la via Tiburtina Valeria e la via dei Pilastri.
Oltrepassato il macellum si giunge al famoso miliario (quello esposto è un calco dell’originale) che dà il nome alla via, nel quale il nome dell’Imperatore è attentamente spicconato: era Magnenzio, che subì la damnatio memoriae.
E’ il cippo che indica in 68 miglia (circa 100 km) la distanza da Roma. È del 350 a.C. e dimostra appunto che la via Tiburtina Valeria attraversava la città.
A Sud del portico era posta la basilica, di epoca sillana, che si affacciava sul foro. Misurava 142 m di lunghezza per 43,50 di larghezza ed era suddivisa in tre navate, con tre ingressi sul lato principale.
All’interno si possono ancora ammirare i pavimenti e le pitture parietali del II secolo a.C. Visibile è anche la pianta delle tabernae aperte sulla via principale.
Qui si trattavano gli affari e si amministrava la giustizia.
Della Basilica, oltre il porticato, da notare le buche ancora conservate utilizzate dai romani per le votazioni.
Era il Diribitorium, dove avvenivano le consultazioni elettorali.
Più a sud troviamo le terme, con varie iscrizioni che attestano molteplici interventi edilizi, e ben riconoscibili dai pavimenti con suspensurae per il riscaldamento.
Interessanti sono anche le latrine, molto ben conservate.
Le terme presentano un bel mosaico d’ingresso. Furono costruite in età tardo-repubblicana, ma ampliate e abbellite in epoca imperiale, decorate con preziosi mosaici raffiguranti scene e soggetti marini.
Visibili sono anche gli ambienti del Tepidarium, Calidarium e Frigidarium che conservano la canalizzazione delle acque che, insieme a quelle reflue, erano di servizio anche alla lavanderia.
Un’area porticata di 83 metri per 36 metri ospita il Santuario di Ercole, del I secolo a.C., con due colonne che immettono in uno spazio ospitante un altare con la statua di Ercole a banchetto; il pavimento è a mosaico con tessere bianche e nere.
La statua che ha dato nome all’edificio, si trova al Museo Archeologico di Chieti. La statua colossale di Ercole è stata ritrovata la mattina del 28 giugno 1960, durante gli scavi ad Alba Fucens. L’Ercole, in marmo pentelico, dall’eccezionale altezza di 2,4 metri, è rappresentato seduto su un seggio purtroppo perduto, mentre regge una patera con la mano sinistra sollevata e con la destra stringe un oggetto andato perduto, con ogni probabilità ricostruibile come una clava rivolta verso il basso. Il volto è caratterizzato da una folta barba lavorata a ciocche simmetriche. Sulla fronte è visibile una corona di foglie di ulivo, che possono alludere alla partecipazione al banchetto, o piuttosto di alloro, simbolo di vittoria. Intorno al braccio sinistro e ai fianchi doveva essere rappresentata la leontè che caratterizza immancabilmente l’eroe, ma secondo altre ipotesi vi poteva essere avvolto un mantello.
La statua è identificata con la raffigurazione di Ercole detto Epitrapezios, “a tavola” (trápeza in Greco antico).

La statua di Ercole detto Epitrapezios ritrovata durante gli scavi ad Alba Fucens
Sempre a sud troviamo uno dei monumenti più affascinanti di Alba Fucens: l’anfiteatro. Scavato nella roccia ed adiacente alle mura meridionali della città, misura 96 metri per 79 metri e poteva ospitare fino a cinquemila spettatori.
Qui si effettuavano le esibizioni dei gladiatori, documentate da molte iscrizioni. Oggi si riconoscono ancora i parapetti a protezione delle belve lungo il perimetro dell’arena.

Anfiteatro di Alba Fucens
L’anfiteatro romano di Alba Fucens, fu costruito dopo il 38 d.C., successivamente alla morte di Nevio Sutorio Macrone.

Nevio Sutorio Macrone
Macrone nacque ad Alba Fucens, nell’odierno Abruzzo, nel 21 a.C. da un certo Quinto Nevio. Tracce epigrafiche nella sua città natale ci testimoniano che egli ricopri sotto Tiberio il ruolo di prefetto dei vigili. Nel 31, Tiberio, che si trovava a Capri da quattro anni ormai, temendo per le ambizioni del prefetto del pretorio Lucio Elio Seiano, nominò in gran segreto Macrone al posto di questi per tale incarico. Alcuni storici sospettano che Macrone possa aver agito come spia di Tiberio, oltre ad essere usato come strumento per la caduta in disgrazia di Seiano. Infatti, quando Tiberio decise di agire contro il proprio ministro, istruì Macrone d’entrare nella capitale di notte e di avere un abboccamento con il console Publio Memmio Regolo ed il prefetto dei vigili Grecinio Lacone.
La mattina seguente, Macrone salì sul Palatino (dove, nel tempio di Apollo, il Senato si sarebbe riunito), e lì incontrò Seiano, preoccupato del fatto che Tiberio non gli avesse inviato nessun messaggio. Macrone tuttavia disse al prefetto che il principe intendeva conferirgli la potestà tribunizia. Eccitato dalla notizia, Seiano entrò giubilante nel tempio, mentre Macrone inviava i pretoriani che scortavano il prefetto ai Castra Praetoria, rivelandogli la propria nomina, sostituendoli con i vigili di Lacone. Infine lui stesso corse ai Castra Praetoria, per evitare disordini.
Intanto fu letta la lettera di Tiberio, che, con lo sbigottimento generale, chiedeva l’arresto di Seiano e di due senatori a lui collegati. Il prefetto fu giudicato dal Senato e giustiziato il giorno stesso, dato che i pretoriani non avevano reagito al suo arresto, come invece temeva Tiberio. Tutti i congiunti e gli alleati di Seiano furono parimenti perseguitati, ed in questo contesto Macrone riuscì a disfarsi di molti dei propri nemici, come Mamerco Scauro. Costui fu infatti accusato di aver alluso a Tiberio in alcuni versi di una sua tragedia, di aver praticato adulterio con Livia e di pratiche magiche. Scauro, per sfuggire alla condanna, si diede la morte tagliandosi le vene, suggerito dalla moglie Sestia, che si uccise assieme al marito.
Nel 37, inoltre, Lucio Arrunzio fu accusato d’aver compiuto adulterio con Albucilla. L’ascolto dei testimoni e la tortura degli schiavi furono però fatti in presenza di Macrone, e ciò, unito al fatto che non fosse giunta nessuna lettera da Tiberio contro l’accusato, fece sospettare a molti che il prefetto avesse montato l’accusa contro Arrunzio approfittando della debolezza dell’ormai anziano imperatore. Lucio Arrunzio decise anch’esso di darsi la morte, tagliandosi le vene.
Macrone sembra aver avuto un profondo rapporto di amicizia con Caligola, adottato come successore da Tiberio, anche prima che questi salisse sul trono, forse perché a questi piaceva l’adulazione del prefetto. La moglie di Macrone, Ennia Trasilla, era inoltre amante proprio di Caligola, il quale promise addirittura di sposarla.
Macrone, dal canto suo, metteva a tacere i dubbi di Tiberio, il quale, vedendo nel giovane Caligola comportamenti crudeli, dubitava sul fatto che questi fosse pronto ad assumere un incarico così solenne come quello di imperatore, sostenendo che avrebbe sorvegliato sulla condotta del futuro sovrano.
Nel 37, le condizioni di Tiberio si aggravarono e sembrò essere morto, tant’è che Caligola era già stato acclamato Imperatore. Tuttavia l’anziano Imperatore si riprese, gettando tutti nel panico; Macrone tuttavia non perse la calma e fece soffocare Tiberio sotto le sue stesse coperte.
Fu sempre il prefetto a portare in Senato il testamento di Tiberio. Sotto il nuovo Imperatore, Macrone raggiunse inoltre una grandissima influenza, tanto che Caligola si rifiutava addirittura di conferire con la nonna Antonia minore se non in presenza del prefetto.
Ben presto, tuttavia, Caligola iniziò a non sopportare più l’autorità del proprio prefetto. Incominciava ad inventare accuse contro Macrone, e si ingegnava in tutti i modi per incriminarlo. La sfortuna del prefetto fu anche quella d’essere amico di Aulo Avilio Flacco, il quale era stato a sua volta sostenitore di Tiberio Gemello, che Tiberio aveva lasciato come altro possibile erede nel proprio testamento, il che, agli occhi di Caligola, era una gravissima offesa.
Così, quando Macrone fu chiamato a succedere a Flacco stesso come prefetto d’Egitto, Caligola inviò a lui, alla moglie ed ai figli l’ordine di suicidarsi. Macrone rispettò l’ordine ed ottenne in cambio che la sua eredità non fosse requisita. Prima di morire, Macrone stilò il suo testamento donando ad Alba Fucens tutta la sua eredità, che secondo le sue stesse disposizioni avrebbe dovuto essere adoperata per la costruzione dell’anfiteatro romano di Alba Fucens.
Una targa di marmo posta sopra uno dei due ingressi dell’anfiteatro, ricorda proprio la donazione effettuata da Macrone, grazie alla quale ancora oggi possiamo ammirare questo meraviglioso anfiteatro.
Ad Alba Fucens restano inoltre vestigia di un tempio tuscanico incorporato nella romanica chiesa di San Pietro del XII secolo, edificata sui resti del Tempio di Apollo del III secolo a.C. con i graffiti di epoca romana ancora leggibili sulle mura riutilizzate.
Trasformato in chiesa cristiana e ampiamente ristrutturato in età medievale, contiene antiche colonne romane ed alcuni mosaici di fattura cosmatesca, ricavata dalla frammentazione dei marmi policromi romani.

Chiesa di San Pietro (Alba Fucens)

Chiesa di San Pietro (Alba Fucens)

Chiesa di San Pietro (Alba Fucens)
All’interno la chiesa di San Pietro conserva uno straordinario apparato liturgico, che è costituito dalla presenza della iconostasi e dell’ambone. L’iconostasi è un tipo di struttura che non è comune vedere nelle chiese occidentali, dopo il Concilio di Trento specialmente, quando a motivo delle riforme liturgiche, molte di queste antiche strutture furono eliminate.

Iconostasi – Chiesa di San Pietro (Alba Fucens)
L’ambone è a doppia scala la quale conferisce all’ambone stesso una forma trapezoidale.

Ambone – Chiesa di San Pietro (Alba Fucens)

Chiesa di San Pietro (Alba Fucens)
Il violentissimo sisma che colpì l’Abruzzo il 13 gennaio 1915, privò la chiesa di San Pietro di gran parte delle sue strutture architettoniche, degli arredi e degli affreschi. Solo la cella del Tempio di Apollo e l’ambone rimangono al loro posto. Tutte le opere recuperate sono esposte al Museo della Marsica, presso il Castello Piccolomini di Celano.
Il terremoto di gennaio del 1915 distrusse quasi interamente anche il Castello Orsini e il borgo medievale circostante.
Il castello sorge nei pressi dell’area archeologica caratterizzata dai resti dell’insediamento di Alba Fucens. Strategicamente posizionato a controllare l’originario tracciato della via Tiburtina Valeria, il castello fu ricostruito dai signori di Albe (famiglia Ocre) per poi essere distrutto nel 1268 da Carlo I d’Angiò, vincitore della battaglia di Tagliacozzo, ed infine ricostruito dalla famiglia Orsini a partire dal 1372.
Durante la Seconda Guerra Mondiale nei resti del castello si stabilì il quartier generale tedesco dello schieramento impegnato tra la linea Gustav e la linea Caesar.

Castello Orsini (Alba Fucens)

Castello Orsini (Alba Fucens)

Castello Orsini (Alba Fucens)
Luca D’Agostini
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Fonti
Carlo Promis, Le antichità di Alba Fucens negli Equi, Oxford University, Oxford 1836
Fiorenzo Catalli, Alba Fucens, Ministero dei Beni Culturali, Ufficio Centrale Beni Ambientali, Architettonici, Archeologici, Artistici e Storici – Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Libreria. dello Stato, Roma 1992
Daniela Liberatore, Alba Fucens: studi di storia e topografia, EdiPuglia, Bari 2004
Adele Campanelli, Effetto Alba Fucens. Rivive la piccola Roma d’Abruzzo, Carsa Edizioni, Pescara 2002
Fernand De Visscher, La caduta di Seiano e il suo macchinatore Macrone, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1960
Barbara Levick, Tiberius the politician, Thames & Hudson Ltd, Londra 1976
Marialuce Latini, Massa d’Albe (AQ), La rocca, in Guida ai Castelli d’Abruzzo, Carsa Edizioni, Pescara 2000
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