In Unione Sovietica il 16 aprile 1936 fu introdotto il titolo onorifico di Eroe dell’Unione Sovietica.
Per oltre 60 anni, il titolo di Eroe dell’Unione Sovietica fu assegnato ad oltre dodici mila persone. I nomi di molti di loro sono ben noti a tutti fino ad oggi. Ma l’elenco inizia sempre invariabilmente con i primi sette che ottennero questo alto grado nel 1934: Anatolij Ljapidevskij, Michail Vodopjanov, Ivan Doronin, Nikolaj Kamanin, Sigismund Levanevskij, Vasilij Molokov e Mauritius Slepnev.1
Il primo a ricevere il titolo di Eroe dell’Unione Sovietica fu il pilota venticinquenne Anatolij Vasil’evič Ljapidevskij. La decisione in merito fu assunta il 20 aprile 1936.1
Prima della guerra, sia gli adulti che i bambini sovietici conoscevano il nome dell’eroico salvatore del rompighiaccio Čeljuskin. Tuttavia, dopo la guerra, alla fine degli anni ’40, il nome di Anatolij Ljapidevskij scomparve dalle pagine dei giornali e non comparve più in pubblico. Scopriamo il perchè!
Anatolij Ljapidevskij nacque in un villaggio nei pressi di Krasnodar il 23 marzo 1908 e da piccolo non immaginava di intraprendere la carriera militare. Nella sua autobiografia, lo stesso Ljapidevskij scrisse: “Mio padre Vasilij Ivanovič lavorò come insegnante nella scuola di un villaggio di campagna. Beveva moltissimo. Nel 1914, per non arruolarsi nell’esercito, si unì ai frequentatori della chiesa è più tardi divenne un prete“.1
Se la rivoluzione di ottobre non fosse avvenuta con la sua conseguente diffusione forzata di ateismo, molto probabilmente il ragazzo avrebbe seguito le orme di suo padre, divenendo anche lui prete.
Nel 1924 Ljapidevskij si trasferì a Rostov, dove conobbe il pilota Žigalov. Nella sua biografia racconta: “Abbiamo parlato tutta la notte del fascino di volare. Gli aerei mi hanno sempre affascinato e l’incontro con Žigalov alla fine mi condusse a scegliere una scuola di volo“.1
Tanti anni dopo, il 22 marzo 1983, lo stesso Anatolij Ljapidevskij rilasciò un’intervista al giornale “Sovetskaja Rossija” presentando una versione completamente diversa da quanto aveva scritto nella sua autobiografia: “Ho sognato di diventare un marinaio, anche se l’infanzia e la giovinezza le ho trascorse in un villaggio nella steppa di Kuban. Nel 1920, un distaccamento speciale di marinai si stabilì nel nostro villaggio. Erano vestiti con gilet, giacconi, visiere con lettere d’oro. Ero un semplice ragazzo ed il loro aspetto mi impressionò. Qualche tempo dopo, mentre lavoravo al frantoio, mi rivolsi all’organizzazione Komsomol con la richiesta di arruolarmi in marina. Fui invece arruolato in aviazione“.1
Nel 1926 fu arruolato nell’Armata Rossa ed inviato alla scuola di volo teorica di Leningrado, poi passò alla scuola di piloti navali di Sebastopoli, seguita da un servizio nelle unità di combattimento dell’aviazione della flotta baltica e dal ruolo di istruttore nella scuola di piloti marini di Jeisk. Nel 1933 fu trasferito nella riserva ed iniziò a compiere voli di trasporto merci, con lunghe rotte da un estremo all’altro dell’immenso Paese sovietico.
Nello stesso anno accadde un fatto di rilevante importanza. Il 16 luglio 1933 il piroscafo Čeljuskin era impegnato in un viaggio di trasporto merci da Leningrado fino Vladivostok. Alla fine di settembre però il piroscafo rimase bloccato dal ghiaccio formatosi nel Mare del Nord. La nave andò alla deriva per quasi cinque mesi e l’equipaggio era convinto che ormai il peggio era passato, ma il 13 febbraio 1934 il Čeljuskin fu schiacciato dal ghiaccio ed affondò in due ore. Sul ghiaccio circostante c’erano 104 persone che nel frattempo avevano già precedentemente preparato tutto per l’evacuazione dell’imbarcazione.2
Per il Čeljuskin era preoccupato l’intero Paese. La salvezza poteva avvenire solo per via aerea. Ma l’intenso gelo (40 gradi sotto zero) ed il vento forte impedirono ai piloti di raggiungere la pista d’atterraggio approssimativamente creata. Furono effettuate 29 missioni di volo, ma ogni volta gli aerei tornarono alla base senza aver potuto compiere la loro missione. Fu solo il 5 marzo 1934 che Ljapidevskij riuscì ad atterrare nella pista di fortuna appositamente creata su una lastra di ghiaccio in mare. Quando le persone ormai sfinite videro l’aereo atterrare, la loro gioia non conobbe limiti. Il coraggioso ed abile pilota Ljapidevskij riuscì a mettere in salvo sul suo aereo 10 donne e 2 bambini, incluso un neonato di pochi mesi.
L’impresa realizzata da Ljapidevskij ebbe dell’incredibile. Nessun altro pilota prima di lui era riuscito ad atterrare sulla quell’improbabile pista di atterraggio frettolosamente costruita su di una lastra di ghiaccio galleggiante. Per di più gli aerei utilizzati per la missione di salvataggio non disponevano di cabine vetrate, non erano forniti di comunicazioni radio ed i piloti non indossavano nemmeno gli occhiali di sicurezza. Per proteggersi in qualche modo dal gelo e dal vento, avvolgevano la loro testa nella pelle di cervo, praticando su di essa solo due sottilissimi buchi per gli occhi.2
Era richiesta un’abilità fuori dal comune per far atterrare l’aereo su una piccola banchisa di ghiaccio galleggiante, lunga 400 metri e larga 150 metri ed essere poi in grado di decollare dalla pista stessa. Ljapidevskij tornato alla base dopo la missione realizzata parlò con gli altri piloti, fornendo loro indicazioni e consigli tecnici utili per riuscire ad effettuare l’atterraggio ed il successivo decollo. Dopo i suoi suggerimenti altri sei piloti riuscirono a ripetere l’impresa di Ljapidevskij. Il 13 aprile 1934, fu effettuato l’ultimo volo che completò il salvataggio di tutti i membri della spedizione.1
Fu per questo motivo che i sette piloti i quali effettuarono il salvataggio dei membri del Čeljuskin furono premiati con l’onorificenza di Eroe dell’Unione Sovietica. Anatolij Vasil’evič Ljapidevskij, il primo di loro a riuscire ad effettuare l’impresa, fu premiato con la medaglia n. 1.
Si narra che durante il ricevimento di gala al Cremlino in onore dei piloti che salvarono i passeggeri del Čeljuskin, Iosif Stalin si avvicinò agli aviatori con una bottiglia di vino. I giovani eroi erano intimiditi dalla presenza delle alte autorità del Paese e stavano bevendo acqua minerale. Stalin disse che era necessario bere il vino per i festeggiamenti e porse un bicchiere a Ljapidevskij. Il pilota era titubante ed allora Stalin bevendo il vino dal collo della bottiglia gli disse: “Ricorda, Anatolij, so che tuo padre era un prete ed anche io, avendo studiato in seminario sono quasi un prete. Non vergognarti delle tue origini. Potrai venire a trovarmi o contattarmi sempre, per qualsiasi motivo“.2
Ljapidevskij chiese immediatamente a Stalin il permesso di entrare all’Accademia dell’Aeronautica Militare dell’Armata Rossa intitolata a Zhukovskij, dove non sarebbe mai stato ammesso in quanto figlio di un prete. Qualche giorno dopo, al fine di soddisfare la richiesta dell’eroe pilota, Stalin convocò il Commissario alla Difesa Popolare dell’Unione Sovietica, Kliment Voroshilov, ordinando che Anatolij Ljapidevskij fosse ammesso all’Accademia come se avesse superato gli esami necessari per essere ammesso. Voroshilov logicamente eseguì l’ordine di Stalin.1
Durante la guerra Ljapidevskij comunicò di voler combattere battaglie aeree contro i nemici, ma non gli fu concesso e ricoprì solo incarichi di comando. Dopo la guerra fu nominato vice capo dell’ispezione dell’industria aeronautica e direttore di una fabbrica di aerei.1
Ma nell’aprile del 1949 la sua vita cambiò. Fu senza preavviso sollevato da tutti gli incarichi ed a tutto l’establishment politico sovietico fu vietato di avere qualsiasi tipo di rapporto con Ljapidevskij. Nessuno poteva neanche parlargli. L’eroe rischiò di impazzire in quanto era convinto che si trattasse del prologo del suo arresto.1
Nessuno si aspettava questa drammatica iniziativa nei confronti di uno dei più famosi eroi del Paese. Gli storici ritengono che in questo modo Stalin abbia voluto testare la resistenza allo stress di Ljapidevskij prima di affidargli un incarico di estrema importanza e delicatezza. Nei mesi successivi il nome di Ljapidevskij scomparve dai libri, dagli articoli di giornale e dalle riviste. Ormai sembrava un eroe dimenticato. Sparì dalla circolazione e nemmeno i suoi parenti sapevano dove fosse e cosa facesse.2
In realtà a Ljapidevskij fu assegnato un incarico ed una missione segreta. Fu nominato responsabile della centrale più importante nel sistema di creazione di armi nucleari sovietiche, allora impegnata nella creazione di una bomba all’idrogeno.1 2
Ciò che Ljapidevskij fu incaricato di gestire lo si scoprì solo nell’arcipelago polare il 30 ottobre 1961, quando l’Unione Sovietica realizzò il test dell’allora più potente arma nucleare della storia, una bomba da 50 megaton soprannominata “bomba dello zar”.1
Tutti i partecipanti al test, tra i quali Anatolij Ljapidevskij, ricevettero una dose molto elevata di radiazioni. La salute dell’eroe fu totalmente compromessa e gli fu diagnosticata la leucemia.2
Fu rimosso dal suo sensibile incarico ma lavorò per 21 anni, fino ai suoi ultimi giorni, come capo progettista presso l’ufficio di progettazione Mikojan.1
Comunque il suo stato di salute negli anni si aggravò ulteriormente. Così, il primo eroe dell’Unione Sovietica morì il 29 aprile 1983, per via di un raffreddore contratto al funerale del suo amico Vasilij Molokov, uno dei sette piloti autori del salvataggio del Čeljuskin.2
Intendo chiudere questo articolo con le parole di un operatore radio di nome Ernst Krenkel, il quale non avendo potuto aiutare Ljapidevskij nella sua missione di salvataggio per via dell’impossibilità di comunicare con lui via radio, volle essere uno dei primi a congratularsi con il pilota. Alla cerimonia di premiazione Krenkel disse: “Anatolij , ci saranno centinaia e migliaia di eroi, ma tu sarai sempre il primo!“2
Luca D’Agostini
Lascia un commento
Fonti
(2) Герой номер один
Devi accedere per postare un commento.