Un giorno, il Principe Vladimir indisse a Kiev un lauto banchetto. Invitò i principi che reggevano le grandi città russe e i nobili del suo seguito, invitò i ricchi mercanti ed i sacerdoti. Invitò anche i forti e possenti bogatyri, i guerrieri della Santa Rus’.
Gli ospiti sedettero vicini e intorno al tavolo, mangiarono e bevvero tra grandi risate ed iniziarono a vantarsi delle loro ingenti ricchezze. A questo punto il Principe Vladimir si alzò dicendo: “Smettetela tutti quanti di vantarvi! Vi darò io, piuttosto, un premio. Darò a taluni argento puro, ad altri oro prezioso, ad altri ancora donerò perle preziose.” A tutti elargì munifici doni, dimenticando però il vecchio cosacco Ilya Muromets. E quando la principessa Apraksija gli ricordò che ad Ilya non era stato fatto alcun dono, Vladimir sbuffò e rispose: “Tu, principessa, sei davvero irragionevole! Premierò l’audacia del vecchio cosacco con i doni che mi sono stati mandati dai tatari e dai besurmani. Ecco, gli donerò questa pelliccia di zibellino.“
Ilya Muromets si rattristì e fu preso da grande sdegno. Si alzò in piedi furibondo. Intimorito, il Principe Vladimir cercò di correre ai ripari dicendo: “Oh Ilya Ivanovič, non sta bene adirarti col tuo principe. Piuttosto, bevi e mangia con noi, e assumi la carica di Governatore.” Il vecchio cosacco rispose: “Io non voglio bere e mangiare con voi. E non voglio essere Governatore per voi.“
Di fronte a quell’orgoglioso rifiuto, il Principe si adirò. Chiamò i suoi uomini e ordinò loro di afferrare Ilya e cacciarlo via dal grande salone. Ma il vecchio cosacco stese al suolo chiunque provasse solo ad avvicinarsi e, dopo aver abbattuto tutte le guardie, volse le spalle al Principe e uscì da solo dal palazzo.
Una volta che fu all’esterno, egli brandì il suo arco e trasse dalla faretra un mazzo di frecce. Scagliò le frecce colpendo volontariamente le cupole dorate del palazzo del Principe. Dopodiché si volse verso le chiese ed abbatté le croci dorate che si rizzavano sopra di esse, senza lasciarne più nemmeno una.
Poi, afferrate le croci sotto le braccia, Ilya le portò in una vicina osteria. Le rovesciò ai piedi dell’oste e chiese, in cambio, del vino. Ma poiché l’oste non volle sottostare a quello scambio, Ilya lo tolse di mezzo con uno spintone, spaccò con un calcio la porta della cantina e portò fuori tre botti di vino: una sotto il braccio destro, un’altra sotto il sinistro, e una terza spingendola avanti con il piede. E portatosi nella piazza principale, proprio di fronte al palazzo del Principe, chiamò a raccolta gli abitanti della grande città di Kiev dicendo: “Cittadini e contadini, straccioni e mendicanti! Accorrete al banchetto di Ilya Ivanovič! Bevete e non abbiate timori! Oggi io sarò per voi il Principe di Kiev!” Tutti gli uomini e le donne, andarono al banchetto di Ilya Muromets, e vi fu una grande festa.
I nobili corsero dal Principe Vladimir: “O piccolo sole! Ilya Muromets ha imbandito un banchetto davanti al tuo palazzo, ti sfida apertamente! Ha detto che vuole divenire lui stesso il principe e mettere il popolo al posto dei nobili!” Allora il Principe Vladimir gridò: “Prendete Ilya Muromets, il vecchio cosacco, afferratelo per le braccia e gettatelo in una fossa profonda. Chiudete con grate di ferro e serrate con sbarre di quercia! E non dategli da bere e da mangiare per quaranta giorni. Che quel cane muoia di fame!“
L’ordine venne eseguito. Ilya fu gettato in una profonda fossa, e questo venne chiusa con una grata di ferro e serrata con sbarre di quercia. Sopra di essa venne posta una pesantissima pietra, a sua volta ricoperta di sabbia. Ma sdegnati dal comportamento del Principe, tutti gli altri bogatyri abbandonarono la grande città di Kiev e svanirono al galoppo nella steppa, per non farvi mai più ritorno.
Trascorsero vent’anni. E poi accadde che un’ombra nera si stese sulla grande città di Kiev. Una nera nuvola si levò all’orizzonte, coprendo il sole, e una puzza fortissima invase la città, rendendo difficile persino il respirare. Le sentinelle corsero dal Principe, dicendo: “Vladimir, piccolo sole! La città è seriamente minacciata dai tatari. E’ giunto il nero esercito dei pagani, è arrivato Kalin-zar ! Lo accompagnano quaranta re e ognuno di essi ha quarantamila guerrieri al suo seguito.“
A quelle parole, Vladimir e tutti i nobili furono presi da grande paura ed agitazione. Ma non vi era nulla che potessero fare. Vent’anni prima, i bogatyri avevano abbandonato la grande città di Kiev, e non vi era più nessuno che potesse difenderla.
Giunto nei pressi della grande città di Kiev, l’imponente esercito tataro si accampò a breve distanza, nei pressi del fiume Dnepr. Kalin-zar inviò un messaggero verso la città il quale giunto alle porte del palazzo le sfondò con un violento calcio. Il messaggero non s’inchinò dinanzi al Principe, né alla principessa. Gettò sul tavolo una lettera scritta in lingua russa e si allontanò senza dire una parola. Il Principe Vladimir chiese che la lettera venisse letta. Sulla lettera Kalin-zar ordinava: “Cedimi immediatamente, gran Principe Vladimir, la grande città di Kiev, senza combattere e senza spargere inutilmente il sangue. Se non adempierai alla mia richiesta, io raderò al suolo la grande città di Kiev. Userò le chiese come stalle per i miei cavalli. Le icone le getterò nel fango e i monasteri li raderò al suolo. Degli abitanti di Kiev, non ne lascerò nessuno in vita, ma tutti li passerò a fil di spada, compresi i vecchi e i bambini. In quanto a te, gran Principe Vladimir, sarai torturato, e la principessa Apraksija la prenderò come moglie. Questo accadrà, se non ti arrenderai.“
Il principe Vladimir fu preso da gran paura. Le sue gambe si piegarono e cominciò a piangere dicendo: “Non c’è nulla da fare. La grande città di Kiev dovrà arrendersi senza combattere, visto che nessuno dei bogatyri è qui a difenderla. A causa del banchetto Ilya Muromets fu giustiziato e tutti gli altri bogatyri abbandonarono la città. O moglie, mia adorata, principessa Apraksija! È giunto il momento di consegnare la gloriosa capitale, al cane senza Dio, a Kalin-zar‘”.
Ma Apraksija, la Principessa, disse: “Vladimir, piccolo sole. Non è morto, Ilya Muromets, ma è tra i vivi. Quando tu ordinasti di gettarlo in una fossa e lasciarlo morire di fame, io feci segretamente scavare un passaggio e, da allora, io stessa lo rifornii di cibo e di acqua, di coperte e di cuscini.“
Una luce di speranza accese lo sguardo del Principe e chiese ad Apraksija di fargli strada nel profondo sotterraneo. Giunti nel sotterraneo videro Ilya Muromets il quale apparve molto invecchiato e lunghi bianchi capelli lo avvolgevano come un mantello. Vladimir si gettò ai suoi piedi e gli rivelò del pericolo in cui versava la grande città di Kiev. Ma il vecchio cosacco rimase immobile senza parlare, gli occhi fissi a terra, e a nulla valsero a smuoverlo le parole del Principe, né i ricchi doni che gli promise in cambio del suo aiuto.
Di fronte alle pressanti ma inutili suppliche del Principe Vladimir intervenne la Principessa Apraksija dicendo: “Non farlo, Ilya, né per il Principe né per me. Non farlo per la grande città di Kiev, non per le chiese e i monasteri. Ma fallo per la terra russa, per la fede ortodossa. Fallo per le vedove, gli orfani e i poveri.“
Si scosse allora il vecchio cosacco: “Sì. Io andrò a combattere per la fede ortodossa, e per la terra russa, e per le vedove, gli orfani e i poveri. Andrò anche per te, onesta principessa Apraksija. Ma sappi che per quel cane di Vladimir, non uscirei nemmeno dalla fossa.“
Emerso dopo vent’anni alla luce del sole, Ilya scrutò lontano nel campo aperto e, per la prima volta, sentì la paura nel cuore. L’esercito di Kalin-zar si stendeva sterminato dinanzi alla grande città di Kiev, e non si riusciva neppure a stimare il numero dei soldati. Il vecchio cosacco comprese che difficilmente, da solo, avrebbe potuto farcela, e decise di prendere tempo. Mandò un ambasciatore da Kalin-zar, chiedendogli di concedere tre giorni alla grande città di Kiev, affinché tutti i suoi abitanti si preparassero a morire cristianamente. Ilya sfruttò questi tre giorni di tempo per uscire dalla città alla ricerca dei valenti bogatyri, ma solo al tramonto del terzo giorno riuscì a trovare un accampamento dei bogatyri.
Il loro capo era l’anziano Samson Koljvanovič il quale ricevette Ilya con gioia, ma, quando questi gli narrò del pericolo che correva la grande città di Kiev, Samson scosse il capo. “Caro vecchio cosacco Ilya Muromets! Certo ne hai di coraggio, a venire a chiedere aiuto per conto del Principe Vladimir, dopo tutto quello che lui ha fatto a te e a noi. Il Principe ascolta solo i suoi nobili e ci ha tenuto lontani da Kiev per vent’anni. Perciò noi non selleremo i nostri cavalli e non difenderemo la grande città di Kiev, né la chiesa della madre di Dio. Non difenderemo la principessa Apraksija, né il Principe Vladimir.“
Fallita l’impresa di convincere i suoi vecchi compagni a difendere Kiev, Ilya tornò solo alla grande città. I tre giorni erano ormai scaduti e lo sterminato esercito di Kalin-zar già marciava verso le mura di Kiev. Si mise a piangere il vecchio cosacco e spronò il suo cavallo lanciandosi da solo contro i nemici in difesa della Santa Rus’.
Ilya combatté dal mattino fino all’alba del giorno seguente, senza riposarsi e senza mangiare e bere.
Avendo subito grandi perdite, i tatari decisero di tendere ad Ilya un tranello e scavarono una fossa profonda, nascondendola con arbusti e foglie. Presagendo un pericolo, il cavallo del vecchio cosacco si rifiutò di proseguire, ma Ilya lo spronò, vincendo a frustate la sua riluttanza, finché il cavallo purtroppo cadde insieme a lui dritto nella fossa. Subito, i tatari si gettarono su Ilya e, fattolo prigioniero, lo condussero in catene nella tenda di Kalin-zar.
Inaspettatamente, il capo dei tatari accolse Ilya Muromets con onore e rispetto. Ordinò che gli si togliessero le catene e gli offrì un posto alla sua tavola, proprio accanto a lui dicendogli: “Sarai uno dei miei migliori condottieri, se lo desideri, o valoroso Ilya Ivanovič. Avrai il mio tesoro a tua disposizione e non vi saranno onori e ricchezze che non dividerò con te.“
Queste attraenti promesse non scalfirono però l’animo russo di Ilya Muromets il quale si alzò ed uccise uno per uno tutti gli uomini di Kalin-zar presenti alla tavola iniziando dall’ambasciatore che i tatari avevano inviato a Kiev.
Intanto il vecchio bogatyr Samson Koljvanovič si pentì di non aver prestato aiuto ad Ilya e chiamò a raccolta tutti i bogatyri compresi Dobrynja Nikitič ed Alëša Popovič. I valorosi guerrieri russi si lanciarono contro i tatari. La battaglia durò tre ore e tre minuti e l’esercito tataro venne completamente annientato e distrutto fino all’ultimo soldato. Ilya staccò la testa di Kalin-zar e la issò su una lancia.
Conclusa vittoriosamente la battaglia con i tatari, Ilya Muromets e tutti gli altri bogatyri si allontanarono tutti insieme verso le montagne e non fecero più ritorno. Così i possenti bogatyri scomparvero dalla Santa Rus’.
Luca D’Agostini
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