Dopo la morte di Socrate avvenuta il 399 a.C., la “filosofia socratica” fu insegnata ad Atene da Antistene, il quale – unico tra i suoi discepoli – non si era allontanato dalla città dell’Attica. Nato e vissuto ad Atene tra il 444 e il 365 a.C., Antistene tenne le sue lezioni filosofiche nel ginnasio ateniese di Cinosarge, rivelando grande attenzione per le tematiche dialettiche connesse al metodo d’indagine sviluppato da Socrate. Particolarmente rilevante è il nome del ginnasio in cui Antistene tenne le sue lezioni: “Cinosarge”, infatti, significa letteralmente “cane agile” e secondo un’antica tradizione di qui sarebbe derivato il nome di “Cinici” a coloro che si richiamarono all’insegnamento di Antistene, tanto più che i suoi seguaci predicavano e conducevano una vita sciolta da qualsiasi vincolo familiare o politico, al di fuori di tutte le convenzioni sociali: una vita, insomma, simile a quella dei cani, che sono appunto liberi da qualsiasi legame, e pienamente autosufficienti.1
I principali esponenti del “cinismo” antisteneo furono Diogene di Sinope, Cratete, Metrocle, e nel III secolo Menedemo e Menippo. Antistene era giunto a Socrate dopo una lunga frequentazione dei Sofisti (soprattutto Gorgia di Lentini) e ciò contribuì a metterlo in una posizione di particolare attrito con l’altro condiscepolo Platone, cui contese il titolo di vero interprete delle dottrine del maestro: in realtà, dalle interpretazioni che danno Antistene e Platone emergono due figure di Socrate diverse e inconciliabili; attento alle problematiche gnoseologiche, alle quali sa fornire – nei dialoghi della maturità – risposte incontrovertibilmente salde, perché poggianti sull’iperuranico mondo delle Idee, il Socrate di Platone è un Socrate “metafisico”; interamente assorbito dalle problematiche di ordine etico, incurante dei problemi concernenti la conoscenza, il Socrate di Antistene è un Socrate “antimetafisico” e completamente votato all’etica. Va subito precisato che i Cinici furono i rappresentanti di una filosofia “popolare” (c’è chi ha qualificato il loro pensiero come “filosofia del proletariato greco”) che continuò a sussistere per molto tempo nell’ambito della cultura greca e ispirò anche generi letterari, tra i quali famosa fu la satira; anche quando i loro insegnamenti confluirono nelle dottrine degli Stoici (a partire dalla fine del IV secolo a.C.), l’atteggiamento “cinico” rappresentò sempre l’anima popolare dello Stoicismo, parallela e contrapposta all’ispirazione aristocratica e colta di quella scuola.1
Alla base del pensiero di Antistene è il cosiddetto “intellettualismo socratico”, secondo il quale la virtù si può insegnare e può essere raggiunta attraverso un laborioso esercizio interiore che addestra lo spirito come la ginnastica fa col corpo. Da qui nasce l’inflessibile rigorismo morale che perviene a conclusioni diametralmente opposte a quelle cui era addivenuto Aristippo, propugnatore dell’edonismo, con la condanna di ogni “vanità” umana in nome di una vita basata sull’autosufficienza del saggio: atteggiamento ben compendiato dalla figura di Diogene di Sinope, il quale faceva addirittura a meno di una dimora fissa e conduceva la propria esistenza in una botte.1
La riflessione etica elaborata da Socrate è dunque da Antistene portata alle estreme conseguenze, con un’estremizzazione che certo non era socratica: “preferirei impazzire piuttosto che provare piacere“, asserì significativamente Antistene, in netta rottura con Aristippo. La virtù poggia interamente sullo sforzo e sulla fatica: perciò l’eroe modello al quale fare costante riferimento è Ercole, che ha vittoriosamente affrontato le sue fatiche. Essendo la felicità riposta nell’autosufficienza, diventa necessario non soltanto non cedere ai piaceri, ma anche liberarsi dai desideri e dalle passioni che ingombrano il nostro animo. Il criterio a cui fare riferimento è, in tale ottica, la natura e non il mondo delle istituzioni umane, convenzionali, le quali incrementano i bisogni umani e quindi accrescono le forme di dipendenza: “La virtù è sufficiente, da sola, per il raggiungimento della felicità, e non ha bisogno di niente altro. La virtù è propria delle opere, e non ha bisogno né di molti discorsi né di nozioni. Il sapiente è autosufficiente: tutte le cose degli altri sono sue. Il sapiente non si regola secondo le leggi stabilite dalle comunità politiche, ma secondo la legge della virtù“. (Diogene Laerzio Vl, 10)1
La polemica sofistica (derivata da Gorgia) contro la convenzionalità delle leggi si trasforma così in Antistene e, ancor più, nei Cinici posteriori in un rifiuto totale delle regole della convivenza sociale e politica: “Diceva queste cose, ma dava anche l’esempio facendole: di fatto falsificava monete, non concedendo nulla né alle regole morali, né a quelle naturali. Egli diceva di vivere secondo il modello di vita che era stato proprio di Ercole, senza dare la preferenza a nulla rispetto alla libertà“. (Diogene Laerzio VI,71)1
La crisi dei valori politici e morali della politica (quella crisi che si era tragicamente manifestata nella condanna a morte di Socrate da parte della democrazia restaurata) trovò così nella filosofia “socratica” dei Cinici una prima tipica espressione: il cinico che non crede più nel regime democratico, ma nemmeno in quello aristocratico, trova troppo angusto per realizzare la sua “virtù” lo spazio offertogli dalla politica, sicché per lui “la sola vera città è quella che coincide con il mondo” (Diogene Laerzio Vl, 72).1
Il tema del cosmopolitismo sarà destinato a godere di grande fortuna anche presso gli Stoici. Interessato alla logica, Antistene ne contestò gli sviluppi metafisici arbitrariamente operati da Platone, soprattutto sul piano della dottrina delle idee. Celebre è, a proposito, l’affermazione di Antistene circa le Idee platoniche: “io vedo i cavalli, non la cavallinità!“. Il punto di partenza e il vero contenuto dell’apprendimento è costituito dai nomi; le definizioni, invece, in quanto connessioni tra termini, non colgono la vera natura delle cose, ma possono solamente indicare analogie tra cose. Di qui scaturisce per Antistene l’impossibilità della predicazione: le uniche proposizioni legittime sono le proposizioni identiche, per esempio “uomo è uomo“, “cane è cane“, e così via. Attribuire ad un soggetto un predicato diverso da esso equivale ad attribuire ad una cosa più nomi, ovvero a considerare ciò che è uno uguale a molti, il che è logicamente palesemente assurdo. Ogni cosa, dunque, ha un solo “discorso appropriato“, ovvero ogni cosa può essere espressa attraverso un solo nome: ne segue, allora, l’impossibilità che i nomi mentano; il falso è in questa maniera messo al bando. Antistene affermò che mentre è possibile vedere un cavallo non è altrettanto possibile vedere e quindi descrivere e comunicare la platonica idea della cavallinità (“io vedo i cavalli, non la cavallinità!“); perciò, si può solo affermare che il cavallo è il cavallo, e non è possibile connettere in un giudizio o in una definizione due nomi, visto che dire “un cavallo è un animale” implica affermare l’identità fra i due termini, e non la relazione di appartenenza ad un insieme più vasto.1
Per Antistene ad ogni nome infatti corrisponde una sola concezione, cosicché è impossibile dire “è un cattivo Re”, poiché col termine Re si intende un fattore soltanto, ovvero colui che amministra il regno per conseguire il bene dei propri sudditi, se è cattivo pertanto sarà qualcos’altro ma non certamente un Re. Di ogni parola esiste quindi un “discorso appropriato” che la definisce. In questa prospettiva sparisce la possibilità di sbagliarsi, poiché con ogni parola posso dire soltanto una cosa e se non intendo quell’affermazione allora starò dicendo qualcos’altro e quindi mi starò riferendo a qualche altro concetto. Viene meno anche la possibilità di dibattere, infatti riguardo ad una concetto due contendenti possono pronunciare entrambi il “discorso appropriato” e quindi sostenere la stessa idea, o possono entrambi pronunciare un discorso sbagliato e quindi parlare di fattispecie differenti, oppure uno pronunciare il “discorso appropriato” e l’altro no e quindi anche in questo caso non stanno realmente dibattendo sullo stesso argomento. Secondo Antistene, ciò si basa sull’equazione che “dire” equivale sempre a dire qualcosa, che equivale a dire l’essere e quindi dire la verità.2
Su questo problema scende in campo Platone in due dei suoi dialoghi: il Cratilo e il Sofista. Nel primo, egli dimostra come l’errore sia possibile, mentre nel secondo smaschera la possibilità (ammessa da Antistene) del “giudizio identico” (per cui ogni cosa ha un solo nome appropriato): “… e con questo, credo, abbiamo apparecchiato un lauto banchetto ai giovani e a quei vecchi che imparano tardi. Infatti, è alla portata di chiunque ribattere immediatamente che è impossibile che i molti siano uno e l’uno sia molti e certamente essi godono a non lasciar dire uomo buono, ma soltanto buono il buono e uomo l’uomo“. (Sofista, 251 b)
Ben emerge come sia impossibile costruire un discorso conoscitivo sulla realtà, che è fatta di tante entità individuali irriducibili l’una all’altra; ogni entità ha un proprio nome, che è l’unico segno che di essa noi abbiamo a disposizione. Sulla scia di Platone, anche Aristotele formulò un giudizio assai severo su Antistene: “Antistene rozzamente credeva che nulla si potesse dire se non il nome proprio delle cose, un nome per ciascuna cosa“. (Metafisica, 1024 b 32)1
Perciò non è possibile costruire un discorso scientifico sulle cose, perché di ciascuna di esse possiamo dire soltanto che è se stessa: l’albero è albero, il bue è bue, e così via. Le scienze sono quindi finzioni, e per di più inutili: “la musica, la geometria, l’astronomia e le altre discipline di questo genere devono essere trascurate, perché inutili e non necessarie“. (Diogene Laerzio Vl, 73)1
Messa da parte la sfera gnoseologica – poiché riconosciuta del tutto improduttiva -, l’unica via degna di essere seguita è allora la via etica, sulla quale si incammineranno le filosofie fiorite in età ellenistica. I discepoli di Antistene assumeranno via via posizioni sempre più radicali e, in certo senso, esasperate rispetto a quelle del maestro: ciò avverrà, in particolare, in Diogene di Sinope (400-325 a.C.) e nel suo allievo Cratete di Tebe, autore di poesie parodistiche e satiriche nonché maestro di quello Zenone di Cizio che fonderà lo Stoicismo, nel quale il Cinismo finirà per confluire.1
Frasi di Antistene:3 4
– “Osserva i tuoi nemici, perché scopriranno per primi i tuoi punti deboli.“
– “Se prendi una bella moglie non l’avrai solo per te, se la prendi deforme sarai solo tu a scontare la pena.”
– “Quando sento il bisogno di avere un rapporto con una donna la scelgo sempre molto brutta, in modo che me ne sia grata per tutta la vita.“
– “Bisogna stimare di più l’uomo giusto che il consanguineo.”
– “È meglio capitare tra i corvi che tra gli adulatori: gli uni divorano i cadaveri, gli altri i vivi.“
– “È proprio dei Re agire bene e sentirsi dire male.“
– “La scienza più necessaria è quella di non dimenticare ciò che si è appreso.“
– “Operare bene e sentirsi biasimati dà soddisfazioni da Re.“
– “È meglio lottare con pochi buoni contro tutti i malvagi che con molti malvagi contro pochi buoni.”
– “Non si deve far smettere chi contraddice contraddicendolo, ma bisogna convincerlo: neppure il pazzo infatti è curato da chi diventa a sua volta pazzo.“
– “Come il ferro è consumato dalla ruggine, così gli invidiosi sono consumati dalla loro stessa passione.“
– “Un avaro non può mai essere virtuoso.“
– “La virtù è un’arma che non può essere sottratta.“
Luca D’Agostini
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Fonti
1) Diego Fusaro
2) Antistene
4) Aforismi
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