Per i suoi contemporanei, Alcibiade rimase un mistero. Non capirono le aspirazioni di quest’uomo, che gli dei avevano così generosamente dotato di talenti e vizi, e su la cui vita cadde così tanta gloria e vergogna. Gli storici antichi lo valutarono in modo contraddittorio, guidati dai principi e dai criteri morali della loro epoca. Nessuno storico antico che scrisse sulla Guerra del Peloponneso poteva evitare di parlare di Alcibiade, ma lo fecero con assenza di obiettività e con giudizi di parte.
Secoli dopo è stato possibile interpretare ogni episodio della lotta tra Sparta e Atene in modo diverso e di rivalutare i valori delle personalità che vi presero parte.
Inoltre, la valutazione di Alcibiade dipendeva anche dall’atteggiamento nei confronti della società ateniese nel suo insieme, dalle simpatie democratiche o aristocratiche dello storico di allora. Di conseguenza, un ricercatore moderno deve fare i conti con due biografie di una figura che quasi tutti gli scrittori antichi consideravano il genio malvagio della Grecia.
Un uomo ambizioso e capace di corrompere, pronto a vendere la sua patria e i suoi amici. Un uomo malvagio per il quale non c’era nulla di sacro. Un traditore e un codardo che pensava solo alla propria salvezza. Il colpevole della distruzione della flotta ateniese e della sconfitta bellica di Atene. Così alcuni storici suoi contemporanei rappresentarono Alcibiade.
Altri storici, tra i quali Senofonte e Diodoro Siculo, lo descrissero come un comandante di talento, un politico lungimirante, una persona dai molti talenti che sopportò coraggiosamente le avversità del destino. Un vero patriota il quale fu ingiustamente attaccato e vittimizzato dall’invidia e dal tradimento.
Tucidide, Platone, Plutarco, Cornelio Nepote parlarono anche dei meriti di Alcibiade, anche se non negarono i suoi vizi, i quali, a quanto pare, non gli consentirono di ispirare molta simpatia. Plutarco lo paragonò alla fertile terra egiziana, che, secondo Omero, “dà alla luce molti cereali – sia buoni, curativi e cattivi, velenosi“.
Cornelio Nepote scrisse: “Su quest’uomo la natura ha ovviamente sperimentato tutto ciò che può fare. Tutti coloro che scrivono su di lui concordano sul fatto che nessuno lo ha superato nelle qualità migliori e in quelle peggiori. Discendente di una nobile famiglia ateniese, fece tutto con la massima abilità. Aveva un bellissimo aspetto, una mente eccezionale, comandava le truppe sia di terra che di mare. Era un abile oratore e in quest’arte non conosceva rivali, e soprattutto grazie a ciò ottenne un’enorme influenza. Era ricco e generoso, ma quando ne aveva bisogno, era laborioso e resistente, amava lo splendore della vita pubblica e della casa, sapeva adattarsi abilmente alle circostanze e non aveva nessuna cognizione nella misura delle sue azioni. Poteva essere amichevole e lusinghiero, dispettoso, dissoluto, voluttuoso. Rimane un mistero come potessero tali proprietà diverse essere state combinate in una sola persona“.
Ma per una valutazione storica, è molto più importante capire l’atmosfera sociale in cui tali persone possono agire, e non solo come individui, ma come statisti.
La maggior parte degli storici ammette che Alcibiade era un politico senza principi, che era ambizioso, egoista e, in termini moderni, immorale. Ma allora perché una persona del genere raggiunse l’apice della fama? Perché la società diede il suo destino nelle mani di un uomo su cui nessuno poteva contare e che, secondo le sue stesse parole, si fidava solo di se stesso?
Alcibiade apparteneva all’antica famiglia nobile degli Alcmeonidi, da cui emersero molti eroi, comandanti e legislatori. Alcibiade era il nipote di Pericle e dopo la morte di suo padre, caduto in battaglia, fu allevato nella casa del suo famoso zio. Fin dall’infanzia, fu circondato da attenzione e adorazione universali. Folle di giovani nobili lo seguirono, avvertendo ogni suo desiderio e inondandolo di adulazione. Era impossibile resistere all’assalto delle lodi. Quelli intorno a lui, come se cospirassero, incitavano ostinatamente in lui l’ambizione frenetica, il desiderio di essere il primo in tutto.
Ad Alcibiade fu insegnato ad adorare il bello, assicurando che avrebbe eclissato tutti i suoi coetanei con la bellezza. Aveva un corpo così allenato che i suoi muscoli sembravano costruiti, era elegante e abile nei movimenti. Tanto attento al suo aspetto, non voleva nemmeno imparare a suonare il flauto, perché avrebbe distorto il suo viso.
Ricchezza, nobiltà, deterioramento, l’abitudine di soddisfare qualsiasi capriccio, crescente vanità, sembrava che il percorso di Alcibiade fosse determinato. I giovani avrebbero riconosciuto volentieri come loro leader un coetaneo che spargeva soldi, che era amante di orge rumorose e di avventure piccanti. Eppure due persone completamente opposte a lui, lo ispirarono con una nuova passione.
Uno di questi fu Pericle. Il sovrano di Atene riteneva che la moderazione fosse la principale norma morale e principio di ordine pubblico. Pericle influenzò il suo allievo con un amore per la politica. Ma la politica richiede flessibilità mentale, lungimiranza, capacità di obbedire alle circostanze. Ma per Alcibiade, il suo tutore è un esempio di statista irraggiungibile e quindi non un esempio da seguire. E poi perché diventare il secondo Pericle quando poteva rimanere Alcibiade?
I sogni di gloria lo eccitarono sempre di più. E qui Alcibiade incontrò Socrate. Il filosofo riteneva che lo splendore della mente, del talento e dell’energia inesauribile, avrebbero dovuto essere dirette esclusivamente in un’unica direzione. E così Socrate si mise al lavoro. Seguì ogni passo del suo studente, allenò il suo ingegno, lo ispirò con pensieri inaspettati e insoliti. Pranzava con lui, praticava la lotta, sviluppava in lui l’arte di parlare e discutere con i rivali. Durante le campagne militari, visse con lui nella stessa tenda e nel 432 a.C., quando Alcibiade fu ferito in battaglia, lo coprì con il suo corpo e, respingendo gli aggressori, gli salvò la vita. Dopo 8 anni, cambiarono ruolo e Alcibiade protesse il suo insegnante.
Non fu facile per Socrate tenere costantemente vicino a sé un allievo irrequieto. Spesso, convinto dai suoi compagni si allontanava per divertirsi e il filosofo lo inseguiva per la città, come se stesse inseguendo uno schiavo fuggiasco. Socrate era l’unica persona la cui autorità era indiscutibile per Alcibiade. Lo ammirava, aveva paura e addirittura si pentiva davanti a lui per avergli mancato di rispetto.
Lo stile di vita di Alcibiade, il suo carattere e le sue aspirazioni contraddicevano assolutamente ciò che predicava Socrate. È difficile trovare una discrepanza più evidente tra il mentore e il suo allievo. Alcibiade si considerava uno studente fedele di Socrate, anche se tutte le sue attività non avevano nulla a che fare con i principi che il filosofo difendeva. Socrate gli insegnava che la gloria non era nulla, che la politica era un’occupazione vuota e senza valore, che lo Stato, nella forma in cui esisteva, era vizioso. Per Socrate lo Stato non garantisce l’unità e l’uguaglianza dei cittadini, non è in grado di proteggere né le persone nel loro insieme né un individuo. La vera vocazione di un uomo è di volgersi dentro di sé, pensare al miglioramento personale, al servizio della verità e non alla ricchezza e alla gloria.
Alcibiade, come molti giovani ateniesi, percepiva solo la parte negativa del programma del suo insegnante. La tragedia storica di Socrate fu che nacque troppo presto, quando il terreno per le sue teorie non era ancora maturo. La società non era ancora in grado di apprendere il suo programma etico, che richiedeva il rispetto incondizionato della persona e dei suoi diritti, e l’osservanza della più severa giustizia nei rapporti tra lo Stato e il cittadino. Ma, avendo suscitato interesse per la sua personalità, difendendo il suo diritto di avere una propria opinione diversa dall’opinione della maggioranza e di agire secondo i dettami della coscienza, Socrate mise armi pericolose nelle mani dei suoi seguaci. Il suo programma divenne per loro il fondamento teorico dell’individualismo. Disprezzando la società, le persone, riconoscevano solo il punto di vista personale come l’unico corretto.
Mai nella storia di Atene ci fu un’atmosfera più adatta per le persone ambiziose, desiderose di potere, in cerca di onori.
Alcibiade era ancora giovane e non poteva contestare la fama di politici esperti. Ma era già abituato a essere in vista, ad attirare l’attenzione, suscitando applausi ed entusiasmo. La sua natura artistica richiedeva adorazione. La vanità lo costrinse ovunque a cercare rivali per provare la gioia della vittoria. Nonostante la giovane età, padroneggiava nell’arte oratoria, rendendosi conto di quanto fosse grande il potere della parola sulle persone.
Alcibiade non ebbe eguali anche ai Giochi olimpici. Nessuno inviò mai sette carri ad Olimpia, e nessuno fu in grado di vincere così tante gare in un’olimpiade. Fu il protagonista delle olimpiadi del 416 a.C..
Diverse città lo onorarono. Gli Efesini allestirono una tenda decorata, gli abitanti dell’isola di Chio gli donarono cavalli e animali sacrificali, gli abitanti di Lesbo vino e prodotti per le feste.
Furono realizzate odi in suo onore, ma una risultò molto allarmante. Come riportato da Plutarco, Timone, il famoso misantropo ateniese, riferendosi ad Alcibiade scrisse: “Adoro questo ragazzo, perché prevedo quanti danni arrecherà agli ateniesi“.
Socrate era preoccupato per qualcos’altro, dell’ambizione di Alcibiade. Socrate, notando che Alcibiade si vantava della sua ricchezza, e in particolare delle terre che gli appartenevano, cercò di dimostrargli l’insignificanza di ciò di cui era orgoglioso. Perciò una volta lo condusse ove c’era una cartina geografica e gli chiese di indicargli ove si trovasse l’Attica. Quando il giovane Alcibiade la trovò, Socrate gli chiese di indicargli ove si trovassero i suoi beni, e alla risposta: “Non ce ne sono affatto“, gli disse: “Guarda, sei orgoglioso di possedere una parte insignificante della Terra“.
Lo studente non ascoltava però gli avvertimenti dell’insegnante. Credeva che il cinquantenne Socrate fosse troppo vecchio e incapace di capire la nuova generazione.
All’età di trent’anni, Alcibiade entrò decisamente nell’attività politica. In Grecia in quel momento storico si stava vivendo una fase particolare. Nel 421 a.C. furono sospese le operazioni militari tra Atene e Sparta. Ma i rivali non si fidano l’uno dell’altro e si stavano preparando a riprendere la lotta per l’egemonia in Grecia. Gli spartani erano uniti nel loro desiderio di riabilitarsi per i fallimenti nella guerra del Peloponneso. Ad Atene, la situazione era diversa. I mercanti, artigiani e marinai, chiedevano nuove conquiste. Gli aristocratici erano soddisfatti di ciò che era stato raggiunto e insistevano nell’osservare le condizioni di una tregua. Naturalmente, entrambi stigmatizzavano i leader del partito ostile, giuravano amore per il popolo e predicavano la morte dello stato se fosse stato adottato il programma rivale.
L’Assemblea nazionale non era in grado di comprendere la complessità dei discorsi degli oratori. Si prestava facilmente alla persuasione e cambiava le sue decisioni con incredibile facilità.
Nel 420 a.C. Alcibiade fu eletto stratega e convinse l’Assemblea nazionale a prepararsi febbrilmente alla ripresa della guerra. La sua energia ebbe lo scopo di isolare Sparta indebolendo la sua influenza nel Peloponneso e ampliò la sfera dell’influenza ateniese. Alcibiade intrecciò intrighi complessi, organizzò cospirazioni e colpi di stato in varie città. In breve tempo, come osservò Plutarco, sconvolse l’intero Peloponneso.
Nel 419, Atene attaccò Epidauro, a cui Sparta fornì immediatamente assistenza. Questo fu sufficiente per riaccendere il conflitto. Su indicazione di Alcibiade, gli Spartani furono accusati di violare la pace. La guerra tra Atene e Sparta riprese.
Gli aristocratici compirono ogni sforzo per estinguere il fuoco. Oratori esperti fecero appello ai contadini, paventandogli la distruzione delle colture. E l’Assemblea, che poco tempo prima aveva applaudito Alcibiade, prese improvvisamente le distanze da lui ed elesse un nuovo stratega.
Ma nel 417 a.C., per Alcibiade si riaprirono le strade che conducevano al potere. In quel momento era la figura più adatta per l’attuazione dei piani bellicosi degli Ateniesi, i quali affermavano sempre più che era tempo di raggiungere finalmente la supremazia in mare e realizzare il sogno di lunga data di invadere la ricca Sicilia.
Alcibiade comprese che era giunto il suo momento. Pensò di essere in grado di fare finalmente ciò che le menti più audaci non avevano ancora osato. Il suo piano fu grandioso: propose di creare una potenza mediterranea sotto gli auspici di Atene, coprendo il Peloponneso, l’Italia, la Sicilia, Cartagine e l’Africa. La conquista della Sicilia doveva essere il primo passo verso questo obiettivo. Alcibiade iniziò l’agitazione. Parlò costantemente in Assemblea, parlò in case private, raccolse folle di persone intorno a lui, persuase i religiosi, calmò i dubbiosi, promise favolose ricchezze e prospettò incredibili meraviglie. Le persone, che recentemente si erano rallegrate per la conclusione della pace, furono entusiasmate dalla speranza che i loro problemi finissero: lo stato sarebbe potuto uscire dalle difficoltà finanziarie, avrebbe aumentato gli stipendi e la distribuzione di pane e denaro.
La città si stava eccitando. Le persone si radunavano ovunque, disegnavano sulla sabbia una mappa della Sicilia, di Cartagine, della costa dell’Africa. L’idea divenne la mentalità di tutto il popolo, che non vedeva nulla di illegale nel derubare le città e conquistare le tribù dei barbari. Tucidide scrisse: “Gli scettici non potevano essere ascoltati. I dubbiosi erano silenziosi, in modo da non apparire come cattivi patrioti“.
Socrate disse: “No! L’idea stessa di conquistare terre e popoli stranieri è mostruosa e immorale. Un popolo che opprime un altro popolo non può essere libero“. Alla fine, il saggio di 70 anni di età, fu ufficialmente definito nemico del popolo ateniese, accusato di minare le basi dello Stato e fu condannato a morte. Rifiuterà l’aiuto di amici pronti a schierarsi con lui ma riuscì a fuggire dalla prigione. Socrate, tuttavia, non era in grado di cambiare il corso degli eventi. Nessuno lo ascoltava, così come nessuno ascoltò l’astronomo Metone di Atene, il quale predisse il fatidico esito dell’impresa. Gli Ateniesi rimasero fedeli a se stessi: la parola di un politico per loro era molto più significativa dell’opinione di qualsiasi filosofo o scienziato. E così compirono il primo passo verso il disastro.
La spedizione fu organizzata con una velocità incredibile. Atene non aveva mai disposto di una flotta e di un esercito così potente. Il corpo di invasione era costituito da 134 triremi, 25 mila soldati, 4 mila opliti, 1.300 soldati leggermente armati, 130 navi con provviste e altro carico militare. L’intera gioventù ateniese era pronta a spostarsi a ovest, affidando il loro destino a tre strateghi: Nikias, Lamah e Alcibiade. Secondo gli ateniesi, un tale comando congiunto combinava nel migliore dei modi prudenza, coraggio e determinazione. E l’entusiasmo del vasto esercito non lasciava spazio a esitazioni e dubbi.
Tutto era pronto per la vela. Le navi erano raccolte al molo. Tutte le forniture e le attrezzature erano state stipate nelle navi. L’Assemblea popolare fornì agli strateghi poteri illimitati per tutta la durata della guerra. Nulla sembrava essere stato lasciato al caso. Si attendeva solo il segnale di inizio della missione.
Ma improvvisamente si verificò un evento inaspettato quanto fatale. Una mattina, quasi tutte le immagini di pietra di Hermes che adornavano le strade e le piazze furono mutilate.
Un inaudito sacrilegio fece precipitare gli abitanti nella confusione. Febbrilmente si iniziarono a cercare i patriarchi. L’atmosfera di sospetto generale era latente. Furono accusati gli aristocratici che si opponevano alla guerra. Furono incolpati anche i democratici, sospettati di aver voluto regolare i conti passati con Alcibiade. Furono sospettati anche i corinzi, che tempo prima avevano fondato Siracusa e ora stavano cercando di ostacolare la spedizione.
Fu creata una commissione speciale incaricata di indagare immediatamente sul crimine. Una grande ricompensa fu promessa a coloro che avessero indicato gli autori. Anche agli schiavi fu garantita la sicurezza se, contrariamente all’usanza, avessero accusato con le prove i cittadini liberi.
Furono effettuate una moltitudine di denunce ma gli autori del sacrilegio furono mai scovati. Ma allo stesso tempo l’enormità delle denunce effettuate dalla popolazione, fece emergere dettagli sulla vita privata di molti cittadini, i loro conoscenti e le loro comunicazioni; si venne a sapere con chi trascorrevano il tempo, di cosa parlano a tavola, chi criticavano, di cosa ridevano.
Si scoprì, ad esempio, che Alcibiade spesso riuniva rumorose compagnie nella sua casa, non si limitava a bere e intrattenere gli ospiti nel modo più osceno ma offriva spettacoli che parodiavano i sacramenti sacri: i Misteri Eleusini.
È difficile capire quanto l’accusa corrispondesse alla verità, sebbene, conoscendo l’audacia spericolata e il cinismo di Alcibiade, si potrebbe pensare che non fosse senza fondamento. Alcibiade comunque richiese un processo su se stesso e per di più, immediato. Sapendo che l’esercito e la marina erano dalla sua parte, credeva di essere assolto facilmente e si stava già preparando per un discorso difensivo. Gli oppositori, al contrario, prolungarono il processo in ogni modo possibile, sostenendo che era impossibile ritardare l’inizio della campagna, in attesa della fine delle indagini. Alcibiade fece invano riferimento al fatto di non poter condurre una spedizione sotto il peso di accuse così gravi. L’Assemblea nazionale decise che tutti e tre gli strateghi dovessero partire per la Sicilia, e solo dopo essere tornato alla fine della guerra, Alcibiade avrebbe avuto il permesso di giustificarsi davanti ai concittadini.
Nel mezzo dell’estate del 415 il corpo di spedizione ateniese si mosse verso ovest. Presto apparve al largo delle coste italiane. Avendo occupato diverse città, Alcibiade iniziò a prepararsi all’assedio di Siracusa. Sviluppò un piano dettagliato di operazioni militari. Non ebbe il tempo di fare nient’altro. Da Atene arrivarono i messaggeri che gli consegnarono la decisione dell’Assemblea nazionale sulla sua immediata convocazione in tribunale.
Perplesso, Alcibiade si imbarcò sulla nave appositamente inviata per lui e partì diligentemente per la sua terra natale. Non sapeva però che il processo nei suoi confronti si era già svolto ed era anche già terminato. Infatti dopo la partenza di Alcibiade, improvvisamente apparve un uomo che risvegliò una coscienza civile: Andocide, un giovane oratore di una nobile famiglia il quale si prese la responsabilità di avanzare una serie di accuse senza risparmiare amici, conoscenti e persino il suo stesso padre. È vero, le sue accuse erano piene di contraddizioni e anche i testimoni da lui forniti non ispiravano fiducia. Tuttavia, senza controllare l’attendibilità delle testimonianze, gli Ateniesi imprigionarono cittadini completamente innocenti sulla base di prove inattendibili. La corte del tribunale si mostrò implacabile: coloro che apparvero davanti alla corte furono giustiziati, accusati di blasfemia e del desiderio di sovvertire la democrazia.
Ora il tribunale era in attesa dell’arrivo di Alcibiade per occuparsi della sua blasfemia e decidere se lasciarlo a capo dell’esercito.
Appena salito sulla nave che lo doveva portare verso Atene, i dubbi cominciarono ad assalire Alcibiade. Cominciò a comprendere cosa lo stava attendendo una volta approdato ad Atene. Così abbandonò la nave e si nascose in Italia, poi in seguito si trasferì nel Peloponneso. Agli occhi degli Ateniesi, la sua fuga era una prova indiscutibile della sua colpa. Fu condannato a morte in contumacia, le sue proprietà furono confiscate e la sua memoria fu maledetta. La frase con la maledizione fu scolpita su una colonna di marmo, a garanzia della vergogna eterna di Alcibiade.
Nessuno degli storici antichi rimproverò Alcibiade per non essere comparso dinanzi alla corte. Era chiaro che il risultato del processo non dipendeva dalla colpa, ma dall’allineamento delle forze nell’Assemblea del Popolo, dove prevalevano i suoi avversari. Tucidide si mostrò il più vicino alla verità: “Gli Ateniesi, temendo le aspirazioni della tirannia di Alcibiade, iniziarono ad essere ostili nei suoi confronti. Sebbene Alcibiade condusse perfettamente affari militari per lo Stato, ogni cittadino individualmente era un peso per il suo comportamento. Alcibiade si preoccupava tanto dell’oligarchia quanto della democrazia“.
Indifferente alle forme di governo, Alcibiade pensava principalmente a se stesso e al suo ruolo nello Stato. Desiderava la popolarità e cercava il potere non perché vedesse in esso una fonte di arricchimento o un modo per attuare un programma politico, ma proprio perché apriva la strada alla gloria.
La catastrofe scoppiò nel momento in cui raggiunse l’apice della fama. La decisione dell’Assemblea nazionale, tra le altre cose, aveva inferto un colpo all’orgoglio. “Dimostrerò loro che sono ancora vivo!” esclamò dopo aver appreso della condanna a morte. E lo dimostrò immediatamente. Dichiarò guerra al suo stesso paese.
Alcibiade si recò a Sparta e offrì un piano eccellente per combattere Atene. Ma gli Spartani erano perplessi: per loro era del tutto impensabile che un cittadino, figuriamoci un comandante, anche se ingiustamente condannato, tradisse la sua patria e si vendicasse in questo modo. Per dissipare la sfiducia, Alcibiade effettuò un discorso che avrebbe dovuto presentarlo come una persona onesta e di principio.
Condannando il sistema democratico per la sua “sfrenatezza” e chiamandolo “follia generalmente accettata“, come racconta Tucidide, Alcibiade si rivolse a Spartani inesperti, abituati alla brevità e alla chiarezza di espressione, con sofisticati paradossi: “Spero che nessuno di voi mi tratti con meno fiducia perché vado contro la mia patria. Spero anche che nessuno sospetti che le mie parole siano spiegate dall’amarezza contro Atene per la mia espulsione da lì. Vero, sono fuggito dalla meschinità delle persone che mi hanno espulso e non per aiutarvi. Non siete voi i nemici malvagi di Atene: i nemici malvagi Atene li ha al suo interno. Non provo amore per Atene, poiché soffro delle sue bugie. Non penso che ora sto andando contro lo stato che rimane ancora la mia patria. Al contrario, voglio riguadagnare la mia patria, che non ho più. Un vero patriota non è uno che non va contro la sua patria, è uno che liberare la sua patria, farebbe di tutto“.
Gli Spartani intendevano il patriottismo in modo nettamente diverso, ma decisero di non trascurare gli sforzi dell’inaspettato alleato. Alcibiade rivelò molti segreti militari e assicurò con successo un attacco agli Ateniesi: le operazioni militari presto si trasferirono nel territorio dell’Attica. Cominciò a riscuotere fiducia ma lo stile di vita di Sparta gli pesava enormemente. Abituato alle libertà ateniesi, alle controversie rumorose e ai piaceri squisiti, ora si trovava di fronte all’ordine regolato da uno stato paramilitare, il quale imponeva un comportamento uniforme dei cittadini. Ma alla fine fu in grado di adattarsi alle circostanze: imparò le abitudini degli Spartani, iniziò a portare i capelli corti, a fare il bagno in acqua fredda, a mangiare in modo semplice. Ciò non gli impedì però di sedurre Timea, la moglie del re spartano Agide II, dalla quale ebbe un figlio. Ma il re si rifiutò di riconoscere suo figlio ed il bambino perse tutti i diritti di eredità.
Inviato nel 412 a.C. sulle rive dello Ionio, Alcibiade reclutò un certo numero di città dalla parte di Sparta e indebolì fortemente la posizione di Atene sul mare. La sua fama stava crescendo. E con ciò, il sospetto e il malcontento a Sparta si intensificarono, invidiosi dello straniero o temendo la sua crescente influenza. Così fu impartito un ordine segreto per uccidere Alcibiade, un uomo che aveva fornito servizi inestimabili allo stato, ma che sarebbe stato in grado di commettere danni rilevanti in futuro.
Alcibiade fu così costretto a cercare una nuova patria. In esilio sia da Atene che da Sparta, si recò dal satrapo persiano Tissaferne e occupò immediatamente una posizione elevata nella sua corte. Tissaferne, il quale odiava i Greci in maniera netta e chiara, accolse con benevolenza l’inatteso ospite. Gli donò i suoi giardini migliori ed ordinò a tutti i persiani di continuare a chiamarlo Alcibiade. Con la sua solita facilità, Alcibiade fece propri i costumi e le usanze dei persiani. Il rigoroso moralista Plutarco lo condannò per il suo atteggiamento camaleontico e la rapidità delle sue trasformazioni.
Alcibiade convinse Tissaferne a non interferire nelle ostilità e a non sostenere Sparta. Egli avvertì che in caso di vittoria Sparta diventerà un pericoloso rivale, e quindi Atene non può essere sconfitta. E quel momento è già vicino: la missione militare ateniese in Sicilia si rivelò una catastrofe, con la distruzione della maggior parte dell’esercito e della flotta di Atene. La guerra stava prosciugando le casse ateniesi e il governo della città era prossimo alla sua caduta.
Anche gli Ateniesi avevano avvertito la criticità della situazione. La città era in subbuglio. La lotta politica si era inasprita al limite della guerra civile. I demagoghi accusarono gli aristocratici del tradimento, gli oligarchi invocarono i leader del popolo e chiesero un cambiamento nella costituzione. Esausta da continue contese, la popolazione era pronta ad accordarsi con qualsiasi governo, se solo fosse stato ripristinato l’ordine nel paese. Alcibiade seguiva attentamente ciò che stava accadendo. La situazione volgeva chiaramente a suo favore. L’esilio aveva dimostrato ad Atene quanto fosse pericoloso averlo come nemico. Ora potevano rendersi conto di cosa era capace come amico.
Avviò trattative segrete con i leader della flotta ateniese, che si trovava a Samos, e promise loro supporto, non solo il suo, ma anche quello dei persiani. L’unica condizione che poneva era un cambiamento nel sistema politico di Atene. La richiesta risultava piuttosto strana in quanto effettuata da una persona privata di qualsiasi principio politico, ma dietro di lui si nascondeva un calcolo diabolico. Era improbabile che gli oligarchi accettassero di riconoscerlo e sicuramente non gli avrebbero permesso di tornare in patria. Se gli oligarchi fossero arrivati al potere, non avendo autorità tra la gente di Atene, sarebbero stati costretti a fare affidamento solo sulla forza e avrebbero reso il terrore lo strumento principale della loro politica. Quindi Alcibiade avrebbe svolto il ruolo di salvatore della patria, ripristinando lo stato di diritto e la democrazia ad Atene. Questo piano non fu implementato. Ma il corso degli eventi confermò la previsione di Alcibiade.
Nel 411, l’Assemblea nazionale completamente sconcertata e spaventata adottò una decisione che autorizzava un colpo di stato. Gli oligarchi salirono al potere. Dissolsero il vecchio Consiglio e ne crearono uno nuovo, limitarono il numero di cittadini a cinquemila persone e iniziarono a governare senza alcun controllo da parte del popolo.
Il governo durò solo tre mesi. Fu sostituito da un gruppo più moderato di oligarchi, che riuscì a stabilizzare la situazione e riportare un po’ di calma. La persecuzione dei cittadini cessò, la decisione riguardo ad Alcibiade fu persino annullata. Diverse vittorie in mare ispirarono la fiducia che lo stato stava riguadagnando la sua precedente potenza marittima. Rianimati, gli Ateniesi si precipitarono di nuovo nel vortice della lotta politica. Alla fine, nel 410 a.C., i democratici tornarono al potere. Restaurarono la vecchia costituzione, condannarono, espulsero e giustiziarono i “nemici della patria” e restituirono il buon nome a coloro che erano stati sottoposti alla repressione.
Ricordavano ancora Alcibiade. Si aspettavano un’azione decisiva da lui, le speranze era affidate tutte nel suo ritorno. Grazie alla sua inventiva e ingegnosità, la flotta ateniese vinse la battaglia nell’Ellesponto. Ma quando il vincitore, ispirato dal successo, apparve con doni a Tissaferne, il satrapo dopo aver cospirato con gli Spartani alle sue spalle, ringraziò il suo amico Alcibiade mettendolo in prigione. Un mese dopo, Alcibiade riuscì a fuggire dalla prigione e presto comandò nuovamente le navi ateniesi. In quel momento non sperava più nella neutralità persiana, stava organizzando una campagna tenendo conto delle forze di entrambi gli avversari: gli Spartani e i Persiani.
Nel 410 a.C., le truppe del satrapo Farnabazo furono sconfitte e tutte le navi spartane a guardia del porto furono catturate. Questa vittoria consentì agli Ateniesi di consolidare le posizioni sulle rive dell’Ellesponto e di controllare completamente lo stretto. Sotto la minaccia dell’invasione, la Bitinia rifiutò un’alleanza con Sparta e passò dalla parte di Atene.
Negli anni 409 e 408 a.C., negoziò con alleati titubanti, gestì l’assedio delle città, prese parti ai combattimenti corpo a corpo. Ogni volta trovava soluzioni inaspettate che sconcertavano il nemico.
Espulse da Bisanzio una guarnigione unita di Peloponnesiani, Megariani e Beoti e costrinse la città a rendergli omaggio. Per tre anni, partecipò a una dozzina di battaglie, affondò e catturò 200 navi nemiche.
Nel frattempo Atene stava aspettando il loro salvatore. Gli ateniesi si sottomisero al destino, che non lasciò loro altra scelta: porre un uomo forte solo al comando.
Alcibiade ritornò ad Atene come un vincitore trionfante. La gloria del comandante, che non aveva perso una sola battaglia, fece dimenticare i tradimenti passati. Gli abitanti lo applaudono, lo coprono di fiori.
L’Assemblea Popolare accolse l’esule che era tornato per salvare la patria. Dall’ultima volta che parlò agli Ateniesi, trascorsero sette anni. Sette anni di vagabondaggio, alti e bassi, ricerche e tradimenti. Alcibiade si paragonò ai Dioscuri: come loro, muore, poi risorge di nuovo; quando la felicità lo accompagna, la gente lo esalta come un dio, quando si allontana, non è molto diverso dai morti.
Quali furono le parole di Alcibiade agli Ateniesi nel suo primo discorso alla popolazione? Minacciò vendetta a coloro che lo avevano disonorato? Si mostrò adirato per l’incostanza dei suoi concittadini? No, capì che erano necessarie altre parole. Parlò delle sue disavventure, si lamentò del destino e dell’invidia degli dei, non delle persone. E, soprattutto chiarì che quello non era il momento di soffermarsi al passato, ma era necessario guardare avanti, e guardarvi con speranza e coraggio.
L’Assemblea si rallegrò. Le persone furono perdonate, il loro eroe non ricordò il male causato a lui dai democratici. Tuttavia era chiaro che i calunniatori e gli invidiosi erano colpevoli di aver ingannato i cittadini e di aver cercato di distruggere una persona così degna come Alcibiade. L’Assemblea decise di restituirgli le proprietà confiscate e di rimuovere le maledizioni lanciate dai sacerdoti.
Alcibiade fu incoronato con una corona d’oro e gli fu concessa un’autorità militare illimitata. Divenne il comandante in capo di tutte le forze navali e terrestri di Atene.
Diodoro di Sicilia scrisse: “Quasi tutti pensavano che con il suo ritorno sarebbe arrivata anche la fortuna negli affari. Gli strati inferiori credevano che sarebbe diventato il loro miglior compagno e sostegno per i bisognosi e avrebbe scosso le basi dello stato“. Plutarco scrisse: “La gente comune e i poveri non sognavano nient’altro, tranne che Alcibiade divenisse il loro tiranno“.
Ma il rischio era troppo grande. Alcibiade sapeva che molti democratici e oligarchi erano sospettosi della sua esaltazione. Non si fidava dell’ardente amore dei suoi concittadini, rendendosi conto che tutta la sua autorità si basava solo sulla gloria militare e il minimo insuccesso era sufficiente per allontanarsi da lui.
Tentò di nuovo il destino. Alcibiade voleva dimostrare che gli dei erano ora favorevoli a lui. Allestì 100 triremi e nell’autunno del 408 a.C., tre mesi dopo essere tornato in patria, partì per una nuova campagna militare. Approdò sull’isola di Andros e sconfisse gli alleati degli Spartani. Lasciando la guarnigione per un assedio della città, si affrettò a Samos, che trasformò in una roccaforte per le operazioni nello Ionio.
Le battaglie decisive erano ancora lontane. Gli avversari accumulavano forza, cercavano nuovi alleati. Il tempo lavorava contro Alcibiade. Divenne vittima della sua stessa gloria. La fiducia nel suo talento geniale e nella fortuna era così grande che gli impazienti Ateniesi si aspettavano da lui vittorie immediate. Qualsiasi ritardo o precauzione era interpretata come negligenza o tradimento. Che l’invincibile comandante potesse avere delle difficoltà, che qualcosa fosse impossibile per lui, nessuno lo credeva. Ma bastava un giorno in cui la flotta ateniese risultasse inattiva, per scatenare i dubbi che avesse intenzione di tradire.
Nel frattempo, il prudente comandante spartano Lisandro ordinò alla flotta di evitare importanti battaglie. Allestì nuovi triremi, li equipaggiò e raccolse denaro. Il tesoro del re persiano Ciro era al suo servizio e fu in grado di aumentare lo stipendio dei marinai. Alcibiade, invece doveva fare i conti con la sfinita Atene, una città in preda a gravi difficoltà economiche. E questo il lungimirante Lisandro lo sapeva benissimo.
Da Atene nel frattempo giungevano notizie sul malcontento dei cittadini che chiedevano vittorie militari. Il comandante militare ateniese Antioco, contravvenendo al divieto più severo, fu coinvolto in battaglia e cadde nella trappola creata dagli Spartani. Perse 15 navi e morì. Dopo averne appreso la notizia, Alcibiade si precipitò a Samos e cercò di provocare Lisandro sfidandolo in un’ampia battaglia navale, ma Lisandro saggiamente non raccolse la provocazione di Alcibiade ed evitò la battaglia.
Ad Atene Alcibiade fu definito un traditore che aveva lasciato la flotta in balia del destino. Fu anche incolpato di essersi appropriato dei soldi dei suoi alleati, di aver organizzato feste per bere a dismisura e in generale di essersi preoccupato più dei suoi piaceri che dei bisogni dello stato. Fu privato della sua autorità, il posto di supremo stratega fu abolito, e furono invece eletti dieci strateghi al suo posto.
Avendo vissuto una nuova umiliazione, Alcibiade non poteva più rimanere nell’esercito. Si recò in esilio volontario e si stabilì in una piccola fortezza in Tracia. Visse lì tre anni, assistendo al crollo finale di Atene.
La tragedia cadde anche sui suoi successori. Dopo aver ottenuto una grande vittoria nelle Isole Arginuse nel 406 a.C., gli strateghi furono processati per non essere stati in grado di seppellire i caduti e salvare i feriti rimasti sulle navi che la tempesta spazzò via. L’immenso processo allestito ad Atene si concluse con una condanna a morte unanime e l’esecuzione di tutti i generali.
I nuovi comandanti ateniesi erano fiduciosi nella fine vittoriosa della guerra, ma poco dopo la flotta ateniese fu distrutta. Atene capitolò. Con il sostegno degli Spartani, un governo di 30 tiranni salì al potere, stabilendo una dittatura militare. Iniziarono le rappresaglie contro i democratici. E di nuovo emerse il nome di Alcibiade. Molti si lamentarono che fosse stato trattato ingiustamente. Si diceva che non tutto era perduto finché Alcibiade era vivo. Ma il nuovo governo ateniese persuase emanò un decreto speciale per ucciderlo.
Alcibiade cercò di nuovo rifugio. Dalla Tracia si trasferì in Bitinia, da lì a Frigia, dal suo ex rivale, Farnabazo. Il satrapo accolse l’ospite inatteso con cura e attenzione. Si mostrò gentile e cordiale, e il sorriso non lasciò il suo volto quando arrivò una lettera da Sparta in cui gli venne chiesto di sbarazzarsi di un criminale pericoloso. Gli assassini inviati diedero fuoco alla sua casa in esilio. Alcibiade riuscì a saltare fuori dalle fiamma e con la spada si precipitò contro i suoi nemici. Nessuno osò combattere corpo a corpo con lui: lo bombardarono da lontano con le frecce.
Così, a Frigia nel 404 a.C. morì Alcibiade, il comandante e politico di 45 anni che perse amici, esercito e patria. La sua testa fu portata a Farnabazo.
Il mondo antico lo ricordò come un brillante leader militare, un grande avventuriero e una persona rara nella sua natura senza principi, la quale si sforzava solo di soddisfare la sua ambizione esorbitante.
Luca D’Agostini
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