Vi sono alcune date che nelle scuole si imparano a memoria. Gli studenti italiani, per esempio, imparano a memoria la data dell’uccisione di Giulio Cesare verificatasi nel 44 a.C., l’incoronazione di Carlo Magno avvenuta la notte di Natale dell’800 d.C., la scoperta dell’America effettuata nel 1492, la Rivoluzione Francese realizzata nel 1789 e la data dell’Unità d’Italia proclamata nel 1861.
Purtroppo, all’appello ne mancano moltissime, importanti sia per la storia europea, ma soprattutto mondiale, perché interessano regioni più a oriente rispetto all’orizzonte culturale occidentale.
Tra queste date, una di quelle che riveste maggiore importanza nella storia mondiale, vi è certamente quella della Caduta di Costantinopoli, avvenuta il 29 maggio 1453, dopo circa due mesi di combattimenti.
In questo articolo analizzeremo, per l’appunto, gli eventi che caratterizzarono questo fondamentale avvenimento storico.
I diversi nomi, che ha avuto l’odierna Istanbul, riflettono il succedersi delle civiltà che ne hanno segnato la storia nel corso dei secoli. Fondata dai coloni greci di Megara, nel 667 a.C., fu chiamata originariamente Βυζάντιον (Byzántion) in onore del loro re Byzas. Divenne Byzantium in latino e successivamente Bisanzio in italiano.
Il nome latino Constantinopolis e l’italiano Costantinopoli, significa “Città di Costantino“. Tale nome le fu dato in onore dell’imperatore romano Costantino I, quando la città divenne capitale dell’Impero Romano, l’11 maggio 330. Costantino la ribattezzò Nova Roma, ma questa denominazione non entrò mai nell’uso comune, sebbene ancora oggi la denominazione ufficiale, secondo la Chiesa ortodossa e il Patriarcato ecumenico, sia “Costantinopoli Nuova Roma“. Costantinopoli divenne successivamente la capitale dell’Impero Bizantino fino a quando, nel 1453, fu espugnata dagli Ottomani.
Iniziamo con un quadro storico degli eventi.
Dalla fine del Trecento, uno degli stati più potenti nella regione caucasica era l’Impero Timuride. Si trattava di un impero turco-mongolo che si estendeva negli odierni Stati dell’Uzbekistan, Turkmenistan, Tagikistan, Kazakistan, Iran, la regione meridionale del Caucaso, Iraq, Kuwait, Afghanistan, gran parte dell’Asia centrale, nonché parti di Russia, India, Pakistan, Siria e Turchia.
L’impero fu fondato da Tamerlano (versione latinizzata di Timur) detto “lo Zoppo”, un signore della guerra di stirpe turco-mongola, che lo creò tra il 1370 e la sua morte nel 1405. Proponendosi come grande restauratore dell’impero mongolo di Gengis Khan, cavalcò il mito dell’antico imperatore per tutta la sua vita.

Tamerlano detto “lo Zoppo”
Alle porte del XV secolo, il potente emiro possedeva un impero che andava dai territori a occidente del Volga e del Caucaso fino ai confini con la Cina e dal lago d’Aral, all’Oceano Indiano fino alla valle del Gange, in India.
Il motivo per cui Tamerlano ricominciò a marciare verso ovest nel 1399, riguardò quanto stava accedendo in Azerbaijan, specialmente per via delle condotte di Miran Shah. Dopo essere diventato il sovrano di Khorasan, Miran Shah assunse il comando delle terre una volta comprese nell’Ilkhanato, soppresso nel 1393, acquisendo, poi, il controllo dell’Azerbaijan e dei territori circostanti e non prendendo parte alla campagna in India. Tamerlano ricevette segnalazioni di un vuoto di potere in Iran e Azerbaijan, considerando che Shah era diventato infermo di mente a seguito di una caduta di cavallo e stava ordinando l’uccisione di oppositori politici senza criterio, la distruzione di monumenti storici per motivi futili e la profanazione di tombe, considerate sacre da alcune confessioni religiose.
Per questo motivo, Tamerlano iniziò una nuova campagna quattro mesi dopo il suo ritorno dalla terra indiana. Benché venga solitamente definita come “campagna settennale“, questa durò in realtà cinque anni e fu la più lunga di Tamerlano. Una volta arrivato a Bingol, dopo aver sostato nel Karabakh, impose nuovamente il suo controllo in Azerbaijan, Georgia e Iraq e, a quel punto, si fece strada verso la Siria e l’Anatolia. Fu allora che Tamerlano poté attaccare l’Impero Ottomano, allora governato dal quarto sultano, Bayezid I, intento ad espandersi sia verso ovest che verso est, annettendo territori abitati da popolazioni turcomanne che avevano invocato l’aiuto dell’emiro.
Per aprirsi la strada verso l’Anatolia, Tamerlano attaccò il sultano mamelucco dell’Egitto al-Nāṣir Faraj, distruggendone facilmente l’esercito. A seguire invase la Siria, conquistando Antiochia; successivamente saccheggiò Aleppo, quindi nel gennaio del 1401 prese le città di Damasco, con molti degli abitanti massacrati, ad eccezione degli artigiani, deportati in massa per contribuire ai lavori di abbellimento di Samarcanda e di Baghdad. La campagna fu interrotta solo quando, lo stesso Sultano mamelucco dell’Egitto, fece atto di sottomissione.
Lo scontro con il Sultano ottomano avvenne nella Battaglia di Ancyra (Ankara), il 20 luglio 1402. Si trattò di uno scontro dalle vaste proporzioni, tanto che le fonti stimano gli uomini fedeli a Tamerlano compresi tra 800.000 e 1.400.000 uomini. Grazie all’ausilio di turco-mongoli della Transoxania, corasmi (persiani), turcomanni, oltre ad un grande numero di elefanti da guerra indiani, gli Ottomani, meno numerosi e affiancati da mercenari serbi e 10.000 giannizzeri, riportarono una disastrosa sconfitta.
La grande esperienza militare degli uomini di Tamerlano fece la differenza: il sultano Bayezid I, sebbene eroicamente difeso dal contingente alleato serbo, destinato alla sua persona e ai suoi eredi, fu catturato e trascorse gli ultimi mesi della sua vita da prigioniero alla corte di Tamerlano (secondo alcune fonti, morì suicida in cattività). Soltanto il primogenito di Bayezid riuscì a fuggire dal massacro, preservando così la linea dinastica del Sultanato ottomano.
La vittoria di Tamerlano sui turchi riuscì, nei fatti, a ritardare di cinquant’anni la presa di Costantinopoli da parte degli Ottomani. Gli occidentali erano però molto preoccupati dall’avanzata ottomana in Anatolia, che stava erodendo l’Impero Bizantino e poteva minacciare tutti gli stati affacciati sul Mediterraneo. Nei mesi successivi alla grande battaglia, Tamerlano aveva attaccato Bursa, Nicea e Pergamo. Divenuto padrone dell’Anatolia, non si dimostrò disponibile a fermarsi, considerato il suo sogno di eseguire una seconda volta l’impresa di Genghis Khan. Così si spiegano le conquiste di Smirne, difesa dagli Ospitalieri di Rodi, Focea e Chio. Gli europei erano molto indecisi sul da farsi e molti continuavano a sperare nell’alleanza con i mongoli, come Enrico III di Castiglia, che spedì più ambascerie a Tamerlano.
Tamerlano non era uno di quei conquistatori che si accontentavano, aveva sempre un obiettivo nuovo da raggiungere. Così, dopo aver sbaragliato il sultano Bayezid I, anziché fermarsi in Asia minore, si spostò cercando la Cina. Non ci riuscì e, peraltro, nel 1405 morì lungo la strada per raggiungere il territorio cinese.
Con la morte di Tamerlano, il suo impero si dissolse velocemente. Ciò rappresentò la salvezza per gli Ottomani.
Infatti, dalle rovine dell’Impero Ottomano, rinacquero, lentamente, dei raggruppamenti di potere intorno ai vari figli del sultano Bayezid I. L’Impero Ottomano precipitò nel caos e nelle lotte fratricide per la successione (è il periodo del cosiddetto “Interregno ottomano”). Mehmet I era l’ultimo dei quattro figli del sultano Bayezid I e riuscì a impadronirsi dell’Asia Minore. Dopo undici anni di guerra, Mehmet riunificò l’Impero Ottomano, facendosi incoronare ad Adrianopoli, sultano dei Turchi Ottomani.
Durante il suo regno, l’Impero Ottomano fu risollevato e preparato alla vigorosa spinta espansionistica della metà del XV Secolo. Egli trasferì la capitale da Bursa ad Adrianopoli, conquistò alcuni territori dell’Albania, l’emirato turco di Candaroğlu e il regno cristiano di Cilicia.
Il 21 maggio 1421 morì Mehmet I e gli successe il figlio Murad II.
Il regno di Murad II detto “il Grande”, fu contrassegnato dalla guerra a lungo combattuta contro i cristiani nei Balcani e contro gli emirati turchi dell’Anatolia: un conflitto che durò venticinque anni.

Murad II
Murad II aveva un carattere molto particolare e ben presto si annoiò di governare. Si ritirò a vita privata con la sua sposa, Mara, la figlia di Đurađ Branković, Re di Serbia. Era l’anno 1444 e Murad II decise di abdicare a favore di suo figlio Mehmet II (Maometto II), il quale aveva, però, solo 12 anni. Mehmet II passò alla storia come “il Conquistatore” ed è senza ombra di dubbio uno dei personaggi più importanti della storia universale. Infatti, nel 1453, conquistò Costantinopoli, cambiando la storia del mondo.
Quando, però, aveva solo 12 anni, Mehmet II era piuttosto sconcertato di dover gestire il potere, anche perché la situazione era tutt’altro che facile. La minaccia ottomana che stava riprendendo piede, spaventava l’Occidente il quale, per l’ennesima volta, si preparava per una crociata contro i Turchi.
A questo punto, appresa la notizia di un imminente nuova crociata, il dodicenne Mehmet II scrisse al padre chiedendogli la cortesia di tornare al potere e prendere lui il comando dell’esercito. Murad II rispose per iscritto che non era affatto nelle sue intenzioni ritornare al potere e che il figlio avrebbe dovuto risolvere la situazione da solo. Allora Mehmet II scrisse al padre una lettera divenuta famosa in cui gli intimò: “Se tu sei il Sultano, vieni e comanda i tuoi eserciti. Se io sono il Sultano, ti ordino di venire e di comandare i miei eserciti”.
A questo punto, Murad II capì l’antifona e riprese il potere, sbaragliando i crociati nella Battaglia di Varna sul Mar Nero, avvenuta nel 1444.
Il 3 febbraio 1451, Murad II morì. Mehmet II, ormai diciannovenne, riprese nuovamente il potere.

Mehmet II (Maometto II)
Il primo obiettivo che Mehmet II si pose, fu quello di conquistare Costantinopoli. Aveva soltanto 21 anni quando, alla guida di un grande esercito e di una imponente flotta, attraversò il Bosforo per assediare Costantinopoli, la capitale dell’Impero Bizantino che da tempo ormai non aveva più territori se non quelli all’interno delle mura della sua capitale. Un impero in pratica che ormai era l’ombra di sé stesso. Lo storico francese Fernand Braudel aveva definito Costantinopoli “una città isolata, un cuore, rimasto miracolosamente vivo, di un corpo enorme da lungo tempo cadavere”, con un sovrano, il Basileus, che da generazioni ormai pagava un tributo al Sultano ottomano. Però, era pur sempre Costantinopoli, la capitale dell’Impero Bizantino, erede dell’Impero Romano, una delle città più importanti al mondo. Il fatto che Mehmet II, a 21 anni avesse deciso di conquistarla, fornisce un’idea del calibro del personaggio. Infatti, in moltissimi libri di storia, la data del 1453 è considerata come la fine del Medioevo, talmente grande fu l’impatto di questa conquista.
L’assedio di Costantinopoli è la storia di un cannone immenso progettato da Urban, un fonditore ungherese.
Urban offrì inizialmente i suoi servigi all’imperatore bizantino Costantino XI Paleologo, il quale si trovò costretto a rifiutare, per la crisi che attraversava l’Impero e per l’impossibilità di montare cannoni sulle mura Teodosiane. Propose così i suoi servigi al sultano Mehmet II: in questo caso ebbe a disposizione tutti i mezzi dell’Impero Ottomano, necessari per costruire le artiglierie, che avrebbero giocato un ruolo fondamentale nella conquista di Costantinopoli.
Urban è noto principalmente come l’ideatore dell’omonimo cannone al servizio del sultano Mehmet II che, per la prima volta nella storia della città di Costantinopoli, aprì una breccia nelle gigantesche mura Teodosiane, per oltre mille anni mai violate.
Per le sue attività, Urban è considerato uno dei precursori della moderna imprenditoria bellica.
Il cannone “Urban”, o “Cannone dei Dardanelli”, era una bombarda gigante (calibro 889 mm) lunga 8 metri e pesante 48 tonnellate, che sparava proiettili in granito di 2,8 metri di circonferenza e pesanti intorno ai mille chilogrammi. L’enorme mole della bombarda rendeva necessari oltre cento buoi per essere spostata e garantiva una cadenza di tiro molto bassa, appena 5-8 colpi al giorno.
Urban morì durante le fasi finali dell’assedio stesso, investito dall’esplosione accidentale di uno dei suoi ordigni (peraltro un fatto molto comune tra le armi d’assedio dell’epoca).

Cannone di Urban (Cannone dei Dardanelli)
L’assedio di Costantinopoli è anche la storia dell’ultimo Basileus, dell’ultimo imperatore bizantino Costantino XI Paleologo il quale regnò dal 6 gennaio 1449 fino al 29 maggio 1453, data della sua morte avvenuta durante l’assedio di Costantinopoli.
Il 5 aprile del 1453 Mehmet II, tramite un messaggero, intimò a Costantino XI Paleologo di arrendersi. Se lo avesse fatto, avrebbe avuto salva la vita e sarebbe divenuto governatore, risparmiando, dai saccheggi e dall’eccidio, anche tutta la popolazione di Costantinopoli. Costantino a ciò rispose: “Darti la città non è decisione mia né di alcuno dei suoi abitanti; abbiamo infatti deciso di nostra spontanea volontà di combattere e non risparmieremo la vita”.
Nelle prime ore di venerdì 6 aprile del 1453, il Sultano fece aprire il fuoco su Costantinopoli. I Bizantini avevano già previsto questa mossa e tutti i residenti in città, compresa la parte di popolazione solitamente estranea agli armamenti, come donne, anziani e bambini, avevano già iniziato a lavorare per rinforzare le mura cittadine.
In totale Costantino XI Paleologo poteva disporre di dieci navi bizantine, otto veneziane, cinque genovesi, una proveniente da Ancona, una catalana e una provenzale, per un totale di ventisei navi: una cifra ben modesta se paragonata alla potente flotta ottomana.
Ancor più preoccupante era il limitato numero di soldati a sua disposizione: 5.000 Bizantini e poco più di 2.000 Latini, per un totale di 7.000 uomini che avrebbero dovuto difendere ventidue chilometri di mura da un esercito di 160.000 Turchi.
La mattina del 6 aprile tutti i cristiani erano ai propri posti di combattimento. Le mura marittime erano quasi deserte: i pochi soldati presenti erano adibiti per lo più a compiti di vedetta e di controllo degli spostamenti delle navi ottomane. Il Sultano fece bombardare le mura terrestri di Costantinopoli con una violenza sconosciuta fino a quel tempo nella storia degli assedi.
Al termine di quella prima giornata, gli Ottomani avevano demolito buona parte delle mura nei pressi della porta Carsio e tentato ripetutamente di penetrare in città, attraverso le brecce che si erano create, ma senza successo. Nella notte, mentre gli Ottomani riposavano nei propri accampamenti, la popolazione era riuscita a riparare le brecce. Mehmet II, scoraggiato, decise allora di sospendere l’assedio e di attendere l’arrivo di rinforzi.
Questi arrivarono l’11 aprile in numero ingente, per un totale di 60.000 uomini aggiuntivi alle forze già spiegate. Fu ripreso il fuoco, che durò ininterrottamente per quarantotto giorni e che provocò crolli continui di mura in due punti diversi nei pressi del fiume Licino. Le brecce che si creavano venivano però sempre riparate dai Bizantini nel corso della notte.
In quei giorni, arrivarono dallo Stretto dei Dardanelli, le tre navi genovesi promesse dal Papa, accompagnate da una nave da trasporto carica di grano ed inviata da Alfonso V d’Aragona. Mehmet II aveva commesso un errore: aveva lasciato sguarnito lo Stretto dei Dardanelli e le quattro navi latine erano entrate nel Mar di Marmara indisturbate. Era la mattina del 20 aprile. L’ammiraglio ottomano, Solimano Baltoğlu, non riuscì ad impedire che le navi raggiungessero la città.
Dopo ciò, il Sultano escogitò un metodo per far entrare le sue navi nel Corno d’Oro, cioè sotto la città. Chiese ai suoi ingegneri di progettare una strada dietro Galata che, dal Mar di Marmara, avrebbe raggiunto l’attuale Piazza Taksim, per poi sboccare nel Corno d’Oro. I fabbri ottomani iniziarono a costruire subito ruote di ferro e binari di metallo, mentre i carpentieri si impegnarono a fabbricare intelaiature di legno tanto grandi da poter racchiudere la chiglia di una nave di media grandezza. Si trattava di un’opera colossale.
Quando i Bizantini videro le navi ottomane nel Corno d’Oro rimasero sbalorditi. Ora la situazione si era aggravata: il porto non era più sicuro e nemmeno le mura, sottoposte ai bombardamenti, non erano più difendibili, essendo malconce in più punti. Nei primi giorni di maggio, Costantino XI Paleologo aveva ormai capito che la fine era vicina: i viveri scarseggiavano e le navi promesse da Venezia non giungevano.
C’era ancora però qualche speranza che da Venezia fosse partita quella spedizione che era stata promessa. Il 3 maggio, un po’ prima di mezzanotte, un brigantino battente bandiera turca e con un equipaggio di dodici volontari travestiti da Ottomani, uscì silenziosamente dal Mar di Marmara.
La notte del 23 maggio fece ritorno il brigantino. Il capitano della spedizione chiese di parlare con urgenza con Costantino XI Paleologo e riferì di aver setacciato per tre settimane il Mar Egeo, ma di non aver trovato traccia della spedizione promessa dai Veneziani. Costantino allora volle ringraziare i marinai uno a uno, ma con la voce soffocata dalle lacrime.

Costantino XI Paleologo
Dopo questi fatti, i ministri e i senatori bizantini scongiurarono l’Imperatore di abbandonare la capitale e mettersi in salvo. Ma l’imperatore con determinazione rispose: “So che avrei vantaggi se abbandonassi la città, ma via non posso andare. Non vi lascerò mai. Ho deciso di morire con voi!”
Sabato 26 maggio Mehmet II riunì il consiglio di guerra e annunciò che l’attacco finale sarebbe stato sferrato il giorno 29 maggio, preceduto da un giorno di riposo e di preghiera. Quando il giorno di pausa giunse, tutto tacque e gli Ottomani iniziarono a pregare e a riposarsi in vista del giorno successivo, quando avrebbero scatenato la battaglia decisiva. Mentre i suoi soldati dormivano, il Sultano fece un lungo giro di ispezione, tornò tardi al campo e solo successivamente andò a dormire.
La sera del 28 maggio Costantino XI Paleologo si mise a presidio della porta di S. Romano. Nell’occasione il Basileus tenne un discorso ai difensori che è giunto fino a noi in questa forma: “Miei signori, miei fratelli, miei figli, l’ultimo onore dei Cristiani è nelle nostre mani.”
In quell’ultimo lunedì della Costantinopoli bizantina, furono dimenticate tutte le liti e i contrasti tra Bizantini e Latini. Per l’occasione si svolse una lunghissima processione spontanea che si snodò in ogni angolo di Costantinopoli. I fedeli attraversarono le vie della capitale con le icone più adorate. L’Imperatore riunì per l’ultima volta, davanti a Santa Sofia i suoi comandanti, e disse loro: “So che l’ora è giunta, che il nemico della nostra fede ci minaccia con ogni mezzo. Affido a voi, al vostro valore, questa splendida e celebre città, patria nostra, regina d’ogni altra.” Poi Costantino li abbracciò tutti, dicendo: “Vi chiedo scusa per ogni eventuale sgarbo, che io ho compiuto verso di voi senza volerlo”.
Dopo di che il Basileus si voltò verso la folla adunata davanti a Santa Sofia, e disse: “Ci sono quattro grandi cause per cui vale la pena di morire: la fede, la patria, la famiglia e il Basileus. Ora voi dovete essere pronti a sacrificare la vostra vita per queste cose, come d’altronde anch’io sono pronto al sacrificio della mia stessa vita.”
Poi si rivolse ai Latini e li ringraziò per tutto ciò che avevano fatto per aiutare Costantinopoli, dicendo: “Da oggi Latini e Romani sono lo stesso popolo, uniti in Dio, e con l’aiuto di Dio salveremo Costantinopoli.”
Tornato nella sua reggia, il Palazzo delle Blacherne, salutò per l’ultima volta i familiari e la servitù e, verso mezzanotte, ispezionò, a cavallo, tutte le mura di terra. Era accompagnato dal suo migliore amico, il fedele Giorgio Sfranze.
Martedì 29 maggio del 1453 fu l’ultimo giorno di vita della Costantinopoli “romana”. All’una e mezza di notte Mehmet II diede l’ordine di attaccare e le campane delle chiese presero a suonare per avvisare la città che la battaglia finale era iniziata.

Assedio di Costantinopoli
Mehmet II sapeva che, se voleva vincere, non avrebbe dovuto concedere tregua ai cristiani, in modo tale da evitare di concedere loro occasione e possibilità di potersi riorganizzare. I primi soldati che il Sultano mandò all’attacco furono i bashi-bazuk, male armati e peggio addestrati, sospinti a colpi di nerbo di bue e di mazze di ferro.
Per due ore e mezza i bashi-bazuk continuarono ininterrottamente ad attaccare i cristiani finché, alle quattro del mattino, Mehmet II ordinò alla seconda schiera di combattenti di intervenire. Questa era costituita da reparti di soldati arruolati in Asia Minore, molto ben equipaggiati e addestrati. Questi ultimi furono però subito circondati dai soldati comandati direttamente da Costantino XI Paleologo e conseguentemente annientati. Gli ultimi ad intervenire nella battaglia furono i reparti di élite degli Ottomani, i giannizzeri. Bizantini e latini erano spossati: combattevano ormai da cinque ore ininterrotte e non avrebbero potuto resistere a lungo.
La situazione, per i Bizantini, precipitò poco dopo l’alba: il capitano Giovanni Longo Giustiniani fu ferito e allontanato dalla battaglia dai suoi uomini. Molti difensori Latini interpretarono questa mossa come una fuga disperata e fuggirono alle barche. Mehmet II si accorse di ciò e ordinò ai giannizzeri di concentrare l’attacco sulle postazioni genovesi. I Bizantini iniziarono ad arretrare e, trovandosi accerchiati, furono quasi tutti massacrati. Costantinopoli era ormai perduta e l’Impero Bizantino, ultimo erede della grande Roma, aveva cessato di esistere, bagnato dal sangue di un manipolo di eroi.
La maggior parte dei cronisti, oltre che gli storici attuali, sono quasi certi nel sostenere che Costantino XI Paleologo, perdette la vita nei pressi della porta di San Romano: dopo aver lasciato le insegne imperiali, egli si gettò nella mischia con valore, assieme ai suoi ultimi compagni ancora in vita e scomparve per sempre dopo aver ucciso numerosi Ottomani.
Probabilmente, il corpo fu riconosciuto grazie agli stivali che indossava, color porpora, che solo gli imperatori bizantini avevano il diritto di portare. Mehmet II lo fece seppellire in una fossa comune, per evitare che i cristiani potessero erigere un mausoleo alla sua memoria o che potesse diventare luogo di pellegrinaggio dall’Europa.
Ma l’assedio di Costantinopoli è anche la storia della Cattedrale di Santa Sofia. Il Sultano promise ai suoi soldati tre giorni di libero saccheggio se la città fosse caduta, dopo di che avrebbe rivendicato le ricchezze per sé. La Basilica di Santa Sofia non fu esentata dal saccheggio, diventandone il punto focale, in quanto gli Ottomani credevano che vi fossero contenuti i più grandi tesori della città. Poco dopo il crollo delle difese della città, molti saccheggiatori si diressero verso Santa Sofia e abbatterono le sue porte. Durante l’assedio venivano spesso celebrate liturgie e preghiere dentro la basilica, che era diventata il rifugio per molti di coloro che non erano in grado di contribuire alla difesa della città. Questi cittadini indifesi, che erano nella chiesa, furono quasi tutti massacrati e alcuni di loro costituirono il bottino dei soldati ottomani, diventando schiavi. Alcune donne non furono subito uccise, ma usate per appagamenti sessuali. Quando il sultano Mehmet II e il suo seguito entrarono nella chiesa, si trovarono di fronte ad una impressionante catasta di cadaveri.
Mehmet II, in sella al suo cavallo, salì sulla montagna di cadaveri per ispezionare tutta la basilica. Ancora oggi le guide all’interno di Santa Sofia, mostrano in alto su una colonna l’impronta di una mano, corrispondente appunto alla mano di Mehmet II il Conquistatore, che in sella al suo cavallo sui mucchi di cadaveri, era arrivato fino a quell’altezza.
Mehmet II insistette affinché Santa Sofia fosse subito convertita in moschea. Gli Ulamā (studiosi islamici) presenti salirono poi sul pulpito della chiesa e recitarono la Shahada (“Non ci sono altri dei se non il Dio, e Maometto è il suo servo e il suo messaggero“), segnando così la conversione della chiesa in moschea.

Santa Sofia

Santa Sofia
L’assedio di Costantinopoli è anche la storia di Mehmet II che, entrando nel palazzo imperiale conquistato, recitò una poesia persiana, perché i sultani ottomani erano dei grandi guerrieri con la scimitarra insanguinata, ma erano anche dei poeti. La cultura di corte imponeva di saper scrivere poesie, anche a coloro che tra i membri non avevano nessuna vocazione. E dunque, nel palazzo imperiale, Mehmet II recitò una poesia persiana sulla decadenza di tutte le cose: “Il ragno tira le tende nel palazzo dei Cesari! Il gufo fa la sentinella nelle torri di Afrasiab!”
Afrasiab era il re ed eroe di Turan e un arcinemico dell’Iran. Nella mitologia iraniana, Afrasiab è considerato di gran lunga il più importante di tutti i re turaniani; è un formidabile guerriero, un abile generale e un agente di Ahriman, dotato di poteri magici di inganno per distruggere la civiltà iraniana. Ma ciò che contava principalmente era l’idea del conquistatore che, di fronte all’immensità della sua conquista, provò in realtà la malinconia del declino di tutte le cose. Quella che era stata la capitale dei Cesari in quel momento era ridotta in rovina ed era nelle sue mani. Il ragno aveva sostituito i domestici che una volta tiravano i tendaggi di broccato e, al posto delle sentinelle che si richiamavano da una torre all’altra durante la notte, c’erano soltanto i gufi e le civette che si richiamavano fra loro.
Ora, terminata la conquista, il compito principale di Mehmet II fu quello di ridare vita a Costantinopoli.
Mehmet II si vantò di aver finalmente vendicato Troia. I Turchi, che pensavano di discendere dai Troiani come gli antichi Romani, ritenevano di essersi vendicati dei Greci.
Ma sta di fatto che la realtà era un po’ più complessa, perché in questa immensa città, Mehmet II intendeva stabilire la sua capitale e dunque doveva popolarla. Però popolare questa città non voleva dire soltanto portarvi dei Turchi o comunque dei musulmani. Ormai l’Impero Ottomano era popolato da musulmani e da cristiani, era popolato da Turchi, da Arabi, da Greci e da Armeni. Mehmet II desiderava che tutti questi popoli fossero rappresentati nella sua capitale. Di conseguenza cominciò a organizzare il ripopolamento della città.
Dopo ogni conquista il Sultano aveva diritto a un quinto dei prigionieri catturati. Mehmet II liberò tutti i prigionieri che componevano la sua quota e li insediò a Costantinopoli. Così, anche in seguito, ogni volta che compiva una conquista, tutta la parte di prigionieri che spettava al Sultano veniva liberata, a patto che costoro si recassero a vivere a Costantinopoli.
A Costantinopoli, Mehmet II organizzò una straordinaria struttura multinazionale di governo. Per i suoi sudditi Greci rinominò un patriarca greco ortodosso, al quale affidò non soltanto la cura delle anime ma anche l’incarico di governare tutti i Greci ortodossi che vivevano in città. E non fece fatica a farlo, perché gli ortodossi non amavano i musulmani ma amavano ancora meno il clero latino. Amavano ancora meno Roma. L’ultimo imperatore, Costantino XI Paleologo, nei mesi dell’assedio, quando disperatamente aspettava aiuto dall’Occidente, era stato disposto a tutto e aveva messo Santa Sofia a disposizione del clero latino, tanto che, durante l’assedio in Santa Sofia, erano i cattolici latini che celebravano messa e i greci ortodossi non ci mettevano piede per paura di contaminarsi. Dunque, il Sultano non fece fatica a trovare un erudito uomo di chiesa greco, nemico dei Latini. Costui era Giorgio Kourtensios il quale nacque a Costantinopoli verso il 1405 da famiglia agiata. Discepolo del metropolita Marco di Efeso, studiò come autodidatta filosofia e teologia, sia greca che latina. Successivamente entrò a servizio della corte imperiale bizantina, dapprima come giudice e subito dopo come segretario dell’imperatore Giovanni VIII Paleologo, svolgendovi anche mansioni di precettore e predicatore, in quanto molto apprezzato per la sua eloquenza.
Dopo la presa di Costantinopoli del 29 maggio 1453 da parte dell’esercito ottomano del sultano Mehmet II, Giorgio Kourtensios fu fatto prigioniero insieme al nipote Teodoro Sophianos e condotto ad Edirne. Il Sultano volendo che il trono patriarcale ortodosso fosse occupato da un uomo di sua fiducia, scelse il teologo bizantino. Fu così che formalmente il clero ortodosso elesse Giorgio Kourtensios, il quale accettò la carica il 6 gennaio 1454 con il nome di Gennadio Scolario II di Costantinopoli: era la prima volta che un patriarca cristiano era insignito dell’alto ufficio da un sovrano di religione diversa (fu infatti Mehmet II a dargli le insegne del suo magistero, ovvero la stola bianca, il bastone e la croce pettorale). Subito dopo la cerimonia, Gennadio II si recò nella basilica dei Santi Apostoli, la seconda della città, destinata al culto ortodosso (quella di Santa Sofia fu trasformata in moschea), dove fu incoronato patriarca dal metropolita di Eraclea.
Come patriarca, Gennadio II ottenne dal Sultano molti privilegi: l’inviolabilità personale, l’esenzione fiscale e il diritto di trasmettere queste prerogative ai suoi successori. Inoltre, sotto il suo governo, non solo la popolazione greco-bizantina non fu perseguitata, ma ebbe anche varie concessioni in materia giudiziaria per cause riguardanti il matrimonio, il divorzio e la tutela dei minori, oltre alla facoltà di risolvere le dispute teologiche.

Gennadio Scolario II di Costantinopoli

Gennadio Scolario II di Costantinopoli
Mehmet II rimise in uso 26 chiese della capitale al servizio del clero ortodosso. A partire da quel momento, il Patriarca cristiano di Costantinopoli divenne un’autorità, un altissimo funzionario dell’Impero Ottomano con l’incarico di governare i Greci.
Ma la città divenne anche piena di ebrei. Una forte comunità era già presente a Costantinopoli, ma successivamente alla conquista ottomana ne arrivarono molti altri, soprattutto commercianti allettati dall’intenzione del Sultano di voler favorire i commerci e lo sviluppo della metropoli. Si rese così necessaria una guida anche per loro. Per tale motivo Mehmet II fece giungere a Costantinopoli un rabbino proveniente da Gerusalemme e lo nominò rabbino capo. Il Rabbino di Costantinopoli divenne non solo la guida spirituale, ma anche il giudice e governatore di tutti gli ebrei presenti nell’Impero Ottomano.
Mehmet II, fece inoltre giungere a Costantinopoli anche il Patriarca armeno, trasferendolo direttamente da Bursa, la vecchia capitale ottomana, affinché governasse tutti i cristiani di rito armeno.
Fu così che la città visse una nuova incarnazione dell’antica Costantinopoli. Continuò a chiamarsi Costantinopoli, infatti i Turchi a quell’epoca non la chiamavano ancora Istanbul, nome che fu dato ufficialmente alla città il 28 marzo 1930. Il nome Istanbul deriverebbe da una semplice corruzione nasale del greco [Kon]stan[tinou]pol[is] dove “pol” è diventato “bul“. La riluttanza araba, persiana e turca, a pronunciare una parola che cominci con due consonanti, potrebbe aver indotto a premetter loro una alif (che può essere letta a volte “A“, altre “I” e altre ancora “U“) e ciò potrebbe spiegare il motivo di quella “I” per l’antica Costantinopoli turchizzata. Il nome Stamboul o Stambul denominava, in passato, la penisola storica, cioè la città all’interno delle mura.
Un’altra versione riguardo l’etimologia di Istanbul, sostiene che, il nome dell’attuale capitale turca, potrebbe derivare dalla frase greca medievale “εἰς τήν Πόλιν” (da leggersi con la pronuncia “istinˈpolin “), oppure da quella in dialetto ionico “εἰς τάν Πόλιν” (pron. “istamˈbolin“), che significa “verso la Città” o “nella Città“. In questo modo i Greci si riferivano alla “Città delle Città“, come Costantinopoli era conosciuta durante l’era bizantina e successivamente.
Comunque, durante tutto l’Impero Ottomano, Costantinopoli rimase sempre il nome della città. Infatti, Mehmet II, se da un lato rivendicava di essere un troiano che finalmente aveva sconfitto i Greci, dall’altro si considerò sempre il successore di Costantino.
Dopo la conquista di Costantinopoli nel 1453, l’Impero Ottomano dilagò nei Balcani. Durante la vita di Mehmet II, che visse fino al 1481, gli eserciti ottomani arrivarono fin quasi il Danubio. Incontrarono degli avversari duri che fecero fatica a sconfiggere, come Giorgio Castriota, detto Scanderbeg, eroe nazionale degli albanesi che per molto tempo riuscì a resistere alla conquista ottomana ma che alla fine venne comunque sconfitto. E avversari duri come Vlad III di Valacchia Hagyak, meglio conosciuto solo come Vlad, o con il suo nome patronimico, Dracula, il quale per anni resistette anch’egli alla conquista ottomana guidata da Mehmet II, ma che alla fine fu, anche lui, comunque sconfitto accettando di diventare un vassallo del Sultano.
Dai Balcani il passo era breve per giungere in Italia, soprattutto nella costa del Salento. Nell’ultimo anno di vita di Mehmet II, una flotta turca sbarcò a Otranto e prese il controllo della città. Le chiese furono trasformate in moschee e la presa di Otranto rappresentò uno shock impressionante per la cristianità, in quanto ci si rese conto che, una volta crollato l’Impero Bizantino, i Turchi si trovavano “alle porte di casa”.
Fu considerato una specie di miracolo il fatto che morendo Mehmet II, l’anno dopo il comandante turco di Otranto preferì rientrare in patria e quindi abbandonò la città.
Sta di fatto che, a partire da quel momento, fu chiaro a tutti che l’Impero Ottomano si presentava come la superpotenza del Mediterraneo e poteva mirare anche a divenire un impero universale.
I Turchi stessi si stavano convincendo di essere un popolo predestinato al dominio del mondo e cominciarono a correre fra il popolo turco, leggende che parlavano proprio di questo. In particolare ce n’è una radicatissima che è quella della “Mela Rossa” (in turco “Kizil Elma”). Secondo questa leggenda, Maometto apparve in sogno a Mehmet II e gli proferì questa frase misteriosa: “La vostra generazione conquisterà la Mela Rossa e il mondo intero vi sarà sottomesso”.
A partire da quel momento tutti si chiesero cosa rappresentasse la Mela Rossa. I Turchi erano d’accordo sul fatto che con questo termine si volesse indicare una grande città nell’occidente. Questa grande città non poteva essere Costantinopoli in quanto era stata appena conquistata. Forse per Mela Rossa si intendeva la città di Roma (molti studiosi concordano sul fatto che la palla sacra situata sulla cupola di San Pietro possa aver influenzato la definizione di “Mela Rossa”), oppure forse la città di Vienna, oppure Buda o Colonia.
Certamente però la “Mela Rossa” rappresentò un poderoso simbolo dell’espansione musulmana sotto la guida degli Ottomani. La leggenda per i Turchi non aveva nessun aspetto limitativo, ma rappresentava la conquista del mondo. A partire dalla fine del Cinquecento, ogni nuovo sultano, dopo essere stato incoronato, passava davanti alla caserma dei giannizzeri e li salutava con le parole: “Ci rivedremo alla Mela Rossa!”
Luca D’Agostini
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